di Paolo Piras |
Carbosulcis, Alcoa, Eurallumina ecc.: storia di una colonizzazione
Alcoa, Vinyls, Keller, Rockwool. E poi ancora Carbosulcis, Eurallumina e altre ancora. I nomi di queste aziende che operano in Sardegna ritornano ciclicamente alle cronache sugli organi di stampa italiani.
Situazioni lavorative altamente instabili che di volta in volta vengono rappresentate come l’emergenza di turno. Gli onori della cronaca però non durano che una settimana o poco più, poi tutto sembra tornare alla normalità. Vertenze, scioperi, manifestazioni, tavoli di confronto: il quadro sembra essere sempre lo stesso.
Sullo sfondo, aziende che vogliono ristrutturare, riacquistare competitività o per cui investire in Sardegna non è più conveniente, che minacciano di mettere in mobilità o licenziare migliaia di operai.
Mettendo in crisi, di fatto, una fetta cospicua della società sarda.
Raramente però la situazione viene descritta nel suo insieme e si tenta di andare alla ricerca delle vere cause che generano questo tipo di vertenze. Problemi che non è più possibile definire occasionali, ma anzi sono inscritti nel tessuto economico della Sardegna ormai da decenni.
Un problema strutturale dunque, che paradossalmente è allo stesso tempo causa e conseguenza della situazione economica dell’isola, in un circolo vizioso da cui non sembra esserci uscita. Occorre dunque avere uno sguardo d’insieme e cercare di capire perché il settore dell’industria in Sardegna è in crisi perenne e le soluzioni che arrivano hanno vita breve, permettendo rinvii semestrali o annuali di tensioni che nel giro di poco tempo tornano a riacutizzarsi.
Nascita e crisi
Andare a ricercare l’origine dell’industria in Sardegna significa andare a cercare l’origine stessa del concetto di Sardegna come regione autonoma all’interno dello Stato italiano. È infatti l’articolo 13 dello Statuto speciale del 1948 a enunciare: “Lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola”. La commissione parlamentare istituita appositamente studiò per ben sette anni, dal 1951 al 1958, le possibili strade da intraprendere per creare un nuovo sviluppo dell’isola tramite un Piano di rinascita. In un primo momento il Piano prevedeva un sostanziale finanziamento nei confronti del settore primario, ma il cambiamento socioeconomico dovuto al boom industriale del nord Italia fece rimodulare le quote di finanziamento previste. I piani nella strategia di sviluppo italiana, e conseguentemente in quella sarda, necessitavano di un cambiamento.
Il principale strumento utilizzato per finanziare il Piano di rinascita fu il Cis (Credito industriale sardo), ente pubblico nato nel 1953 con lo scopo di finanziare il credito a medio termine per le piccole e medie imprese industriali.
Al momento dell’approvazione del Piano di rinascita da parte del Parlamento italiano – legge n. 588 dell’11 giugno 1962 – le condizioni erano dunque mutate.
Il finanziamento inizialmente previsto era di 400 miliardi di lire che, sommati ad altri interventi di tipo straordinario, portarono il totale a 2.000 miliardi. Il Piano cambiò dunque i suoi destinatari principali che, dal settore agricolo, diventarono gli imprenditori del settore industriale. Nello specifico il settore petrolchimico.
Dalla fine degli anni ’50 il settore petrolchimico aveva cominciato a svilupparsi in determinate zone dell’isola a opera di investitori provenienti dal nord Italia: è del 1959 la nascita della Sir di Nino Rovelli, imprenditore brianzolo che insediò l’industria a Porto Torres. Grazie ai finanziamenti pubblici in questo settore Porto Torres si trasformò in uno dei poli industriali petrolchimici più grandi d’Europa, e la sua popolazione passò nel giro di qualche anno da 8.000 a circa 23.000 abitanti.
Al sud dell’isola si stabilì invece Angelo Moratti, imprenditore milanese nel settore della raffinazione e del commercio di prodotti petroliferi, già proprietario dello stabilimento di Augusta, in Sicilia.
A pochi chilometri da Cagliari, a Sarroch, Moratti decise di insediare quella che in breve tempo sarebbe diventata la più grande raffineria di tutto il Mediterraneo: la Saras, che grazie al Piano di rinascita beneficiò da sola di un contributo di 40 miliardi di lire.
La pianificazione economica da parte dello Stato italiano proseguì a livello statale con la nazionalizzazione dei settori dell’energia elettrica e degli idrocarburi.
A questo scopo vennero istituite l’Enel e l’Eni. L’Ente nazionale per l’energia elettrica arriva in Sardegna con l’obiettivo di rivitalizzare il settore carbonifero del Sulcis, entrato in crisi alla fine degli anni ’50.
Le miniere del Sulcis, fortemente volute e potenziate nel periodo dell’autarchia fascista, entrarono in crisi subito dopo il periodo della ricostruzione, in concomitanza con la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca).
La costruzione di una centrale termoelettrica a carbone da parte dell’Enel nel 1962 e la presenza di un immediato sbocco a mare portarono alla nascita e allo sviluppo di un altro polo industriale nel sud-ovest della Sardegna: quello di Portovesme. Principalmente dedicato alla lavorazione dell’alluminio, è oggi il centro nevralgico di quella profonda crisi che parte dal Sulcis e attraversa l’intera isola. Qui hanno, o meglio avevano, sede le aziende di nome Alcoa, Eurallumina, Rockwool, ma che un tempo si chiamavano Ammi Sarda, Alsar o Eni.
Contemporaneamente, dalla metà degli anni ’50, per la precisione dal 1956, in Sardegna lo Stato italiano decide di sviluppare un’altra industria pesante ed estranea al territorio: l’industria militare.
Nel 1956 nascono infatti i due più grandi poligoni militari di tutta Europa: il Poligono interforze del Salto di Quirra, che si estende per 12.700 ettari, e il Poligono di Capo Teulada, con un’estensione di 7.200 ettari (1). Seppure non direttamente connessa all’idea di sviluppo industriale della Sardegna che sottostava al Piano di rinascita, anche l’industria militare ne modifica sostanzialmente il tessuto economico.
L’ingresso nell’economia e nel territorio sardo di questo tipo di attività, fino ad allora totalmente estranee, ebbe due effetti immediati sul piano socio-economico. L’agricoltura e la pastorizia, da sempre fonte primaria di sostentamento per i sardi e inizialmente principali destinatari dei finanziamenti, videro progressivamente calare sia l’estensione di territorio a loro disposizione sia il numero di popolazione attiva coinvolta.
Conseguentemente subì un’accelerazione il processo di spostamento della popolazione dall’interno verso le coste e nello specifico verso i poli di attrazione lavorativa. Producendo un’improvvisa impennata del fenomeno di spopolamento ancora oggi in atto e che rischia di trasformare la Sardegna in un vero e proprio atollo demografico.
Proprio questo fenomeno di spostamento demografico e di accumulo di manodopera nelle zone dei poli industriali fu uno dei principali fallimenti di quel Piano di rinascita. La concezione iniziale era infatti quella di creare uno sviluppo armonioso e diffuso in tutte le zone della Sardegna. Ma così non fu.
E a certificarlo ci pensò un’altra commissione parlamentare, il cui campo d’analisi era tutt’altro: il banditismo. Nata sulla fine del 1969 la Commissione d’inchiesta parlamentare sul banditismo, presieduta dal senatore Giuseppe Medici, aveva il compito di trovare una soluzione al fenomeno del banditismo della Barbagia e delle zone interne della Sardegna. Le statistiche del triennio precedente l’istituzione della commissione erano allarmanti: oltre cento latitanti presenti in Sardegna, altrettanti omicidi e almeno trentaquattro sequestri di persona. Per cercare di arginare questo fenomeno lo Stato italiano provò, nel 1969, a creare un altro poligono militare nella zona di Pratobello, frazione di Orgosolo. I militari vennero però bloccati dalla popolazione che riuscì, in quello che viene ricordato come uno dei momenti storici fondamentali nella storia della Sardegna moderna, a costringere lo Stato ad abbandonare il progetto.
La Commissione Medici dopo due anni e mezzo di studi presentò nel 1972 un documento in cui si sosteneva che “la criminalità caratteristica della Sardegna è propria del mondo pastorale che trova nella Barbagia il suo centro. […] Nella Barbagia e nelle contrade vicine vi è una criminalità caratteristica, le cui origini profonde debbono essere cercate nel mondo pastorale che la produce”. La soluzione dunque era quella di trasformare radicalmente il tessuto sociale e culturale dell’interno Sardegna.
Le conclusioni della commissione diventarono un disegno di legge nel 1972, poi approvato nel 1974, passato alla storia come ‘secondo Piano di rinascita’. L’intento era infatti quello di correggere e modificare i finanziamenti del primo Piano del 1962, cambiando i destinatari dei finanziamenti e responsabilizzando interamente la Regione e la classe politica sarda sulla destinazione dei fondi.
All’interno di quest’ottica si sviluppa dunque un altro polo industriale: quello di Ottana, paese nel pieno centro Sardegna. Luogo adatto per avviare la trasformazione della società barbaricina e dei suoi pastori. Le cifre presentate dal Consorzio di sviluppo della Sardegna centrale nel 1972 erano clamorose: si parlava della creazione di un totale di 18.000 posti di lavoro per tutta l’area interessata.
Ma, annunci a parte, le difficoltà emersero nel giro di poco tempo.
All’irragionevolezza della pretesa di creare un’attività petrolchimica nel centro della Sardegna, lontano dal mare e con infrastrutture per i trasporti del tutto carenti, si aggiunse la totale assenza di reali prospettive occupazionali. Fu subito chiaro che l’unico scopo per cui quel polo industriale era stato creato era quello di sradicare la società e la cultura del luogo. Le previsioni furono ovviamente disattese: gli operai impiegati arrivarono a stento al numero di 3.000 – nelle aziende principali come Eni o Enichem – mentre altre, come la Salcim di Rovelli, patron della Sir, non furono mai avviate, ma rimasero sempre società di facciata utilizzate per richiedere altri finanziamenti pubblici in cambio di promesse occupazionali mai concretizzate.
Se è vero che il termine cattedrale nel deserto viene spesso abusato, mai come nel caso di Ottana è adatto a definire la situazione del polo industriale, che non è certo migliorata con il passare degli anni.
È il caso del Contratto d’Area. Proposto da sindacati e imprenditori sardi nel 1998, venne presentato come l’occasione per rilanciare l’industria chimica in crisi. Furono stanziati 178 milioni di euro per creare 29 nuove aziende e oltre 1.300 posti di lavoro. Buona parte dei progetti finanziati non sono andati in porto, nonostante l’erogazione di oltre 110 milioni di euro di finanziamenti.
Una truffa di proporzioni enormi ai danni dello Stato ma soprattutto ai danni degli operai e della Sardegna.
Industria e territorio
Come visto nel caso di Ottana, lo sviluppo industriale in Sardegna è stato utilizzato anche come arma per modificare il rapporto dei sardi con il loro territorio.
Ma il rapporto dell’industria con il territorio sardo porta con sé un altro tema spinoso: l’inquinamento. Parlare di industria in Sardegna significa necessariamente affrontare il tema dell’inquinamento ambientale.
L’immagine della Sardegna terra da cartolina con la natura incontaminata fa letteralmente a pugni con il paesaggio industriale che è stato messo in piedi dal 1962 fino a oggi. E non soltanto a livello ipotetico e di immaginario, ma anche e soprattutto sul piano pratico.
Le principali aree industriali della Sardegna coincidono infatti con due dei più estesi Sin (Siti di interesse nazionale): aree che il ministero dell’Ambiente definisce come “aree contaminate molto estese classificate più pericolose dallo Stato italiano e che necessitano di interventi di bonifica del suolo, del sottosuolo e/o delle acque superficiali e sotterranee per evitate danni ambientali e sanitari”. Queste aree, in Sardegna, sono le aree di Porto Torres e dell’intero Sulcis Iglesiente, che comprende le zone industriali di Portovesme, Sarroch e l’area mineraria.
L’estensione di questi due Sin porta la Sardegna in testa alla classifica delle regioni italiane per l’estensione delle aree contaminate: 445 mila ettari, seguita al secondo posto dai 315 mila ettari della Campania.
Ma la contaminazione del territorio non è immune da effetti sull’uomo che lo abita. È lo studio epidemiologico SENTIERI – Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento, realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma – a dare un quadro chiaro della situazione. A fronte dell’analisi di 44 Sin circoscritti in Italia, tra cui appunto i due di Porto Torres e del Sulcis, si osservano “incrementi della mortalità per cause per le quali il nesso causale con l’inquinamento ambientale è sospettato ma non accertato, per esempio il tumore polmonare, che mostra un aumento di circa il 10% sia tra gli uomini che tra le donne in siti contaminati da poli siderurgici (Taranto) o petrolchimici (Porto Torres)”. Per renderci conto del problema: nella darsena del porto industriale di Porto Torres sono stati registrati livelli di benzene 417 mila volte superiori alla norma.
E proprio a Porto Torres si è aperto lo scorso anno un processo contro alcune aziende del Gruppo Eni accusate di disastro ambientale e avvelenamento doloso.
Paradossalmente, a costituirsi parte civile sono stati il ministero dell’Ambiente e la presidenza del Consiglio, ovvero lo Stato italiano. Stato che, oltre ad aver favorito lo sviluppo di quell’area industriale, è anche azionista di maggioranza e di controllo dell’industria imputata: l’Eni.
A fronte di uno scenario del genere, appare dunque difficile continuare a credere nei tentativi di sviluppo per via di finanziamenti pubblici di un settore industriale fortemente in crisi che, in cinquant’anni di tentativi, non ha portato ai frutti sperati.
Cosa resta
I casi più eclatanti degli ultimi mesi sono senza dubbio quelli della Carbosulcis, azienda regionale che gestisce le miniere del Sulcis, e della multinazionale dell’alluminio Alcoa. Per quanto diverse entrambe le storie hanno un filo comune.
Si è passati dalla dismissione di aziende statali all’ingresso nelle aziende di soggetti privati, grazie a incentivi pubblici; imprese che ciclicamente, spesso con la scadenza di questi ultimi, entrano in crisi e sono costrette a minacciare ristrutturazioni e licenziamenti. Passaggi di proprietà e cambi di nome si ripropongono non solo nel Sulcis, ma anche a Porto Torres, Ottana, Villacidro.
A distanza di cinquant’anni emergono dunque in tutta la loro criticità gli errori commessi dallo Stato italiano, dai capitani d’industria e dalla classe politica sarda, che hanno tentato di trapiantare artificialmente in Sardegna un settore industriale senza verificarne realmente le conseguenze. Un trapianto che ha avuto come esito una evidente crisi di rigetto.
La tattica dell’imposizione, del calare le decisioni dall’alto all’interno di un territorio totalmente diverso e differente da quello che è il nord industriale, e in un’ottica principalmente contrastiva e di repressione – come nel caso della Commissione Medici – non ha avuto gli effetti sperati. La trasformazione dei pastori in operai ha creato sì posti di lavoro, ma non di certo nel numero sperato e comunque in un rapporto totalmente sproporzionato rispetto alla mole immensa di fondi pubblici stanziati. Posti di lavoro che si sono trasformati nel giro di pochi decenni in posti di cassa integrazione e disoccupazione. Lasciando però dietro di sé l’abbandono e la devastazione
di una cultura che stava alla base dell’intera società sarda: quella agricola e pastorale.
Allo stesso tempo è fallito un altro degli obiettivi che il Piano di rinascita si era posto: la creazione di una classe industriale isolana con effettiva sede ed operatività nell’isola non ha raggiunto i livelli sperati e, salvo rari casi, le aziende che ancora oggi arrivano in Sardegna provengono solitamente dall’Italia o da altre parti del mondo, ancora e spesso grazie ai finanziamenti pubblici.
Ma forse, prima ancora della formazione della classe imprenditoriale, va affrontato il nodo della gestione politica.
Perché è indubbio che all’origine degli errori commessi e dell’impossibilità di riuscire a risolverli si trovi l’inadeguatezza della classe politica sarda che praticamente in nessun caso, dalla nascita della Regione Autonoma, ha saputo tutelare gli interessi della collettività sarda facendo forza sui propri reali poteri.
La situazione attuale non è chiara: l’Alcoa è intenzionata a chiudere entro i primi mesi del 2013 lasciando in strada di fatto cinquecento operai. La Carbosulcis è stata, momentaneamente, salvata dalla crisi. Ma il rischio che tra dodici mesi si riproponga lo stesso scenario di agosto 2012 con i minatori asserragliati in profondità è quasi una certezza.
Lo stesso vale per diverse altre vertenze ancora aperte. L’unica cosa certa, al momento, è la situazione al limite in cui si ritrovano migliaia di operai e, con loro, le loro famiglie e l’economia sarda.
Cambiare prospettiva
Se esiste una possibilità per far ripartire l’economia della Sardegna questa non può che passare tramite gli operai. È necessario però un drastico cambio di prospettiva e su tutta la questione dello sviluppo industriale in Sardegna. Si deve prendere atto che industrie energivore che continuano a essere alimentate da centrali elettriche a carbone non possono, per forza di cose, essere competitive sul mercato attuale. E si deve prendere atto che il territorio su cui sorgono le industrie non è a loro esclusivo uso e consumo.
Quella delle bonifiche ambientali potrebbe dunque essere la prima strada da intraprendere per evitare il collasso non solo del sistema economico sardo, ma anche e soprattutto del territorio in cui quegli stessi operai vivono. La direttiva comunitaria sulla responsabilità ambientale (2004/35/CE) è stata concepita interamente intorno al principio ‘chi inquina paga’. Di norma dunque, sono le stesse aziende che hanno inquinato il territorio a dover operare la bonifica. Ma non ci si può aspettare che lo facciano di loro iniziativa.
Cambiare idea e prospettiva quando è in gioco il proprio futuro e quello dei propri cari non è una cosa facile. Ci hanno provato gli operai della Rockwool, azienda del polo di Portovesme produttrice di lana di roccia entrata in crisi nel 2009.
Durante i quattordici mesi di presidio, passati all’interno di un bus parcheggiato davanti ai cancelli dell’azienda, gli operai hanno lottato per riavere il posto di lavoro e, in barba alle opinioni di politici e sindacati, hanno preteso di essere ricollocati come operai per la bonifica ambientale. A dicembre 2011 l’accordo tra Regione e sindacati è stato firmato e quella che appare come una prima reale possibilità di riconversione del territorio e degli operai sembra finalmente concretizzarsi. Gli operai frequentano i corsi di riqualificazione regionali, ma a oggi, pur avendo firmato l’intesa, l’inserimento come operai per la bonifica non è ancora effettivo.
Il caso degli operai Rockwool rappresenta però un’importante precedente nella situazione di crisi attuale. Sono stati gli operai stessi a mettersi in gioco e a rischiare in prima persona pretendendo non la riapertura della fabbrica ma il reinserimento tramite riqualificazione. Hanno immaginato un’alternativa.
Un cambio di prospettiva importantissimo che si potrebbe rivelare fondamentale non solo per gli operai, ma per interi settori dell’economia sarda. Perché a questo punto il nodo di tutta la questione diventa: chi decide per chi? Diventa dunque ovvio che a decidere il destino degli operai, ma anche di altri settori dell’economia, saranno soltanto le persone che in quel settore operano in prima persona. La tattica della dipendenza e dell’attesa della soluzione esterna è ormai fallita, e i frutti che ha portato sono sempre stati avvelenati.
A decidere del futuro dei sardi e della Sardegna non potranno che essere i sardi stessi. E questo vale ancora di più per una classe politica che in sessant’anni di autonomia si è dimostrata perennemente subalterna alle segreterie dei partiti italiani e totalmente incapace di rivendicare per sé lo spazio di autonomia che pur le spettava di diritto.
La promessa riscrittura dei rapporti Stato-Regione, con due schieramenti opposti che spingono da un lato per la riduzione dei poteri di autonomia, e dall’altro per l’aumento degli stessi, sarà un evento fondamentale per decidere il futuro dell’isola.
Una presa di coscienza collettiva da parte dei sardi sembra essere l’unica alternativa rimasta per evitare il tracollo.
(1) Cfr. La Sardegna sotto tiro. Il poligono del Salto di Quirra, di Franciscu Sedda e Omar Onnis, Paginauno n. 21/2011