Le canzoni fuori dal tempo di Jackson C. Frank
Non è la prima volta che mi trovo a scrivere qualcosa su un cantante e compositore marginale e geniale. Tra la sua prima e unica uscita (1965) e oggi, passa una enormità di tempo in termini discografici. Soprattutto passa il tempo necessario a definire un atteggiamento ipocrita, se non peggio, che provo a spiegare.
Il vero punto di svolta, la nascita di questo atteggiamento, è l’epifania di Bob Dylan. Non ci vuole molto a informarsi: il menestrello di Duluth è neanche agli esordi del suo terzo album e già l’industria discografica americana cerca qualcuno per rimpiazzarlo – più banalmente si cerca qualcun altro dello stesso tipo da lanciare sul mercato, assecondando, blandendo, sollecitando alla compera il novero di quelli che nel frattempo si sono affezionati a Dylan. Insomma, battere il ferro finché è caldo. Sicuramente inconsapevole, Dylan tira dritto per conto suo e già al Festival di Newport sconvolge tutti quelli che lo volevano chitarra acustica e armonica, piazzandogli tra i denti un set elettrico che fa paura e fa la storia. Dylan sguscia via come un’anguilla, poetico e proteiforme. Vivrà fino a oggi sul confine beffardo tra coloro che tentano di governarlo e lui che governa imperterrito il mito di sé che si è creato da solo. E intorno a Dylan che cosa succede? Scatafasci di talenti buttati alle ortiche, spremuti come limoni, soffiati via nel vento senza problemi. Due nomi per tutti: Dave van Ronk e Sixto Rodriguez. Il tempo passa inesorabile come al solito: a un certo punto van Ronk si merita un film e Sixto, fortunatamente ancora vivo, si merita la fama che non ha mai avuto. Ma attorno a loro, e a tutti gli altri che sono caduti vittime di un’industria che non li ha capiti e non li ha sostenuti (ma in compenso ha nutrito, eccome, le loro illusioni), si viene a creare una sorta di luogo comune, qualcosa che oggi potremmo chiamare ‘narrazione’ visto che sicuramente non è un mito, non è ancora leggenda (nemmeno metropolitana) ma trova modo di spalmarsi sugli umani, diventando alla fine vulgata comune. Insomma, una storiella degna della pagina musicale di Repubblica a uso dei più giovani che non c’erano e di quelli che, pur essendoci, non ci avevano capito una beata mazza.
Il sogno americano racconta che nel mondo dei quattro accordi o forse tre, può succedere benissimo che a un certo punto la musica abbia una svolta clamorosa. Sembra di sentire certe dissertazioni di storia naturale quando si afferma che la natura procede per salti. Solo che applicata alla musica, anche alla più becera musica pop, non funziona così, e sembra che il talento salti fuori sempre a sorpresa, figlio di nessuno, senza storia né memoria. Nel sogno statunitense c’è posto per tutta una serie di figure archetipali: il Nobel, l’Oscar, il Grammy e alla fine l’Outsider e il suo fratello depresso, il Loser, il Perdente con la maiuscola. I primi tre non hanno scusanti, anche se non si sa da dove vengano. Stanno sul podio e l’etichetta più importante che esibiscono è ‘valore’. Semmai ci può essere al massimo un senso di colpa tardivo e allora si assegna un Oscar alla carriera, come quello a Morricone. L’Outsider e il Loser sono invece per definizione postumi, perché il valore della loro opera si scopre puntualmente dopo che sono morti oppure molto, troppo tempo dopo la loro uscita pubblica. E, altrettanto puntualmente, la narrazione di cui parlo usa i termini “seminale”, “precursore” , “anticipatore”, “genio incompreso”, “troppo avanti coi tempi”. Seguono a ruota delle riedizioni delle opere dimenticate, magari in cofanetto deluxe, e così sono tutti contenti: quelli che ci avevano visto giusto a suo tempo e quelli che hanno scoperto adesso, perché hanno qualcosa di nuovo su cui disquisire di fronte a un martini e a un’oliva. Ah, dimenticavo: siccome puntualmente nel porcellino non si butta via niente, ogni anno si pubblica un cofanetto nuovo con uno o due inediti (magari dei takes eliminati in sede di incisione) e brani già ampiamente pubblicati. Succede ogni due per tre, e Nick Drake è solo uno dei grandissimi trans-generazionali che subisce questa triste sorte, tanto di adolescenti depressi ce ne saranno sempre e via con la solita risciacquatura del cantante fatto apposta per noi lui sì che parla di noi anche se è morto (venti, trenta, quaranta, cinquanta) anni fa.
Il caso di Jackson C. Frank sembra potere rappresentare lo scacco a questa mentalità, che definire cannibale è poco…
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