Intessuta con la storia dell’uomo, divenuta merce all’interno di un sistema capitalistico qualcosa è mutato insanabilmente
“Perché i conti con il Drago, i suoi inventori e i suoi amici siamo ben lontani dall’averli regolati.” Riccardo d’Este
“Vedi la bestia per cu’io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi.” Dante Alighieri
“Quanto più la necessità viene a essere socialmente sognata, tanto più il sogno diviene necessario. Lo spettacolo è il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno.” Guy Debord
Sgombriamo subito il campo dinanzi a noi da possibili scivoloni o equivoci: la droga è sempre esistita. Non sempre partire da codesta precisazione vuol dire appiattire noiosamente la questione in una valle priva di solchi o, peggio, porre le mani avanti verso una conclusione affrettata. Tale esistenza è inderogabile!
Da millenni la droga è intessuta con la storia dell’uomo, incastrandosi all’interno delle sue trame spirituali. Intere popolazioni hanno attribuito alla droga una sacralità centrale nella propria cultura, nella propria organizzazione sociale, ritualizzandone il consumo a fini magico-religiosi. Ciò nonostante, dalla prima sino all’attuale quarta Rivoluzione Industriale, qualcosa è mutato insanabilmente: la cultura si è ristretta a quella dello spettacolo (di cui la cultura dello sballo ne è un’appendice feticistica), la sacralità assoluta risiede nel solo grembo della legge, i sacerdoti e gli sciamani sono le Istituzioni e, infine, l’attuale oggetto del culto, ovvero qualsiasi cosa sottomessa allo status di merce, è pervenuta all’occupazione totale della vita e dell’organizzazione sociale così come la conosciamo. La droga, in tutto questo mondo, non è e non può esserne estranea o neutrale. Tuttavia essa non può immaginarsi o palesarsi come quel che è se si svestisse del mito che la crea e l’alimenta. La droga non è solo la droga, o meglio, è tale in proporzione al proprio mito.
Per quanto, da una parte, l’idea di demitizzazione sia una prospettiva allettante (e da me, lo ammetto, citata in più occasioni) da altra parte tale proposta non si può escludere dai limiti passivamente dialogici che la caratterizzano, quasi sulla falsariga del discorso derridiano sulla decostruzione che tante personalità ha abbagliato (ahimè, me compreso) adagiandole beatamente nell’Eden della critica meramente discorsiva, chi ingenuamente e chi, ahiloro, in malafede, senza alcun interesse di trasportare la critica stessa altrove, su di un altro livello. A questo punto il fine non deve essere una forzata idea di demitizzazione, quanto bensì un dialogo con gli insegnamenti dell’autodidatta Furio Jesi, per cui non esiste mito ma solo materiali mitologici, introducendo l’idea della macchina mitologicacome potere tecnicizzato e manipolatore di codesti stessi materiali (1).
Per comprendere la droga è quindi necessario individuare i materiali mitologici che la riguardano, uniformandoci in un percorso comune che, contemporaneamente, si allinei alla ricerca della macchina mitologica, ovvero la fitta nervatura del Potere che ne alimenta l’immagine e la rappresentazione, dunque quelle due istantanee che in essa creano delle sovraesposizioni al di sopra della sostanza in questione, trasfigurandola ideologicamente e creando alfine un lato immateriale che difficilmente, la materia e la sostanza in sé, avrebbe rivestito altrimenti. Ed è proprio su questo versante immateriale che concentreremo qui il nostro sguardo nella prospettiva di approfondirlo entro i limiti possibili.
L’ampia ambiguità della definizione droga, per cui tanto se ne potrebbe parlare,ci costringe a intendere con essa tutta quella schiera di sostanze classicamente intese come tali a livello tecnico e medico, di modo da non cadere all’interno di quella dicotomia semplicisticamente linguistica per cui esistono sostanze illegali e amorali o sostanze legali e morali, senza rendersi conto che, per esempio, tra le ambigue fila di queste ultime sia palese un’infinita presenza di sostanze non solo pesanti, ma anche micidiali (vedi l’alcol) che, se comprese in quanto tali, ne farebbero nel gergo comune delle sostanze repulsivamente illecite. Eppure la classificazione in psicolettici (principi chimici che rallentano e deprimono l’attività cerebrale), psicoanalettici (principi chimici che esaltano e stimolano l’attività cerebrale) e psicodislettici (principi chimici in grado di alterare l’attività cerebrale) non ci aiuta a comprendere la portata del carattere immaginifico della droga. A questo punto risuonano a noi utili le massime di Thomas Szasz per cui, tra le pagine suggestive de Il mito della droga, ci ha insegnato quanto la differenza che intercorre tra le sostanze notoriamente indicate come lecite e quelle indicate come illecite, sia la medesima differenza che potrebbe intercorrere tra l’acqua e l’acqua santa (2). Questo spunto sarà, appunto, il nostro punto di partenza.
Per non cadere nella trincea del ‘tutto è droga’, che pur racchiude a sé le basi di un’equivocabile verità (soprattutto se con tutto ci si riferisce all’esistente nei suoi aspetti economico-sociali) è quindi vantaggioso non tanto cercarne un’origine etimologica quanto, bensì, partire dal senso moderno dato alla droga stessa, ovvero quello inaugurato da Jean Delay al Congresso internazionale di neuropsicofarmacologia svoltosi a Washington il 28 marzo del 1966: “sostanza d’origine naturale o sintetica capace di modificare l’attività psichica” (3). Con queste parole si suggellava una nuova era della farmacologia che nelle sostanze psicoattive e psicotrope aveva trovato i suoi propri strumenti. Tale campo d’atterraggio imprimeva a sé una certa continuazione col passato: infatti già in greco Pharmakon indicava sia il medicinale che il veleno, così come ancora oggi la parola inglese drug indica sia le sostanze notoriamente illecite quanto qualsiasi medicinale presentato come lecito (4).
Questo passaggio risulta essere dunque fondamentale ma, essendo esso uno dei tanti piccoli tasselli che compongono il gigantesco mosaico dei materiali mitologici in gioco, sarebbe necessario menzionare alcune altre fasi storiche per permetterci così di allargare la visuale e scovare anche la macchina mitologica o, se si vuole, la Megamacchina tanto per dirla col lessico di Lewis Mumford (5), ampliandone e intensificandone così il senso.
Per mettere in scena il mostro meccanicizzato, io ho sempre preferito concentrarmi sulle due sostanze illecitepiù note della Famiglia Droga e il farlo, che inizialmente poteva sembrare una schematizzazione semplicistica di un discorso ben più complesso, prese vigore dall’intuizione del loro ritorno sulle tavole apparecchiate e ghiotte dei consumatori in un periodo recente, lo stesso lasso di tempo storicizzato in cui ci si era disabituati alla loro presenza, a vantaggio di altre sostanze che, dagli anni ‘90 del Novecento, sembravano avere ancora oggi pieno monopolio d’esistenza e di presenza. Tali intuizioni non hanno propriamente una base antropologica o sociologica. Non mi piace parlare di ricerca, figuriamoci se qualitativa oppure quantitativa (seppur personalmente preferisca di netto la prima a discapito della seconda) ma esse hanno piuttosto trovato se stesse a partire dagli insegnamenti di Guy Debord per cui: “La formula per rovesciare il mondo non l’abbiamo cercata sui libri, ma errando” (6), in un giro perpetuo che dedicò alla sua propria vita tra i peggiori bistrot parigini accanto alla “più malfamata delle compagnie” (7). Non mi sono dunque approcciato alle statistiche sui quantitativi di sostanze confiscate o sui quantitativi di tossicodipendenti confiscati [sic] e reclusi nei centri di recupero. Non mi sono basato sulle decine di edizioni del Libro Bianco sulle droghe o a ciò che le lingue biforcute degli opinionisti blaterano quotidianamente nelle televisioni. Ho invece girato, tutto qui, e non ricercando (nel proprio senso specialistico) maniacalmente la droga e il suo esercito di dipendenti (che pur ho incontrato e continuo a incontrare), quanto bensì il suo spettacolo, intendendo con esso non tanto l’ambiguo ruolo del medium di massa (così com’è oggi frainteso il termine introdotto da Debord) ma, bensì, come la “visione del mondo che si è oggettivata” (8), a simboleggiare quel preciso “momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale” (9). Lo spettacolo è “il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” (10), un’immagine che detiene ora l’intero immaginario, invadendo la quotidianità, ridimensionando il vissuto a “un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (11). Questo è ciò che ci insegna il rivoluzionario e teppista parigino (seppur molti lo releghino alla scomoda e limitata figura del filosofo) tra le pagine del suo fondamentale saggio La società dello spettacolo.
Partire da questi capisaldi mi ha condotto irreversibilmente alle due dive prima fugacemente menzionate e che, a questo punto del racconto, meritano ora un nome: eroina e cocaina.
Non è tassativo sapere del passaggio di testimone dal Triangolo d’oro (Birmania, Laos e Thailandia) alla Mezzaluna d’oro (Afghanistan, Pakistan, Iran) nella produzione di oppiacei e nella trasformazione in eroina (12) destinata sia alle regioni produttrici quanto ai mercati europei e nordamericani (nella cui diffusione i militari Nato giocano un ruolo fondamentale [13]) per comprendere la portata del suo ritorno consumistico. Così come lo stesso discorso lo si può fare per la storia della cocaina, da anestetizzante a stimolante euforico, o sedicente antidepressivo, consigliato persino da Freud ai frequentatori nevrotici dei suoi salotti borghesi (14), sino al consumo odierno estremamente diffuso in ogni casta sociale, anche quelle un tempo impensabili (seppur in qualità differenti) rispetto all’immaginario comune della cocaina come ‘droga per ricchi’. O meglio, tali questioni, se osservate con la giusta lente, ci potrebbero permettere di comprenderne la portata del mito (o dello spettacolo) che le riguarda, ma è proprio codesta lente a non rientrare tra gli interessi dei vari osservatori, i quali preferiscono relegare la propria analisi a un discorso materiale (dunque statistico ed economicista tra tabelle e percentuali e, per chi poi si addentra nella spinosa questione della dipendenza, chimico e biologico) decapitando così qualsivoglia possibilità di critica radicale.
Ora, che non ci si fraintenda. Anche quel tipo di discorso può essere e, anzi, lo è, una parte fondamentale nella comprensione del mito, ma a questo punto le strade tendono però a separarsi già in partenza rispetto alle finalità di ognuno: chi porta avanti certe tesi materiali è spesso monco di creatività (e come dar loro torto dal momento in cui il massimo per cui hanno girato è su se stessi nella comodità delle proprie aule accademiche) proponendo come modello pratico solamente una riorganizzazione normativa, giuridica ed economicistica del mercato senza metterlo minimamente in discussione, soffermandosi infine sul litigio tra proibizione, legalizzazione, liberalizzazione e depenalizzazione. Una malinconica battaglia tra tifoserie da cui vorrei escludermi, pur non nascondendo il mio auspicio verso la speranza di caduta e crollo rumoroso del sistema proibitivo. Ma, a differenza di lorsignori, non bramo tale tracollo a discapito di un altro sistema che riproduca le medesime dinamiche culturali e i medesimi rapporti esistenti di produzione e consumo, gli stessi che relegano il vissuto a una ricerca pressante e bisognosa di droghe ormai più nel desiderio del loro segno e del loro simbolo che non dell’oggetto e della sostanza in sé, rafforzata mitologicamente dal proprio significato semiontico che la supera sino a dematerializzarla.
Tale battaglia normativa, giuridica e mercantilistica non solo contribuisce alla creazione immateriale della droga ma, spesso, racchiude a sé un’aconflittualità e una pacificazione che ne scardina il contenuto, fino a organizzare le proprie tesi senza riconoscere delle responsabilità precise ma, anzi, ricercando continuativamente riforme e modelli alternativi tra le maglie di chi tali problematiche le crea e le alimenta. Le modificazioni che si credono destrutturanti divengono invece parte integrata di ciò che struttura la struttura. “La minaccia di una catastrofe atomica, che potrebbe spazzar via la razza umana, non serve nel medesimo tempo a proteggere le stesse forze che perpetuano tale pericolo?” intuiva Herbert Marcuse in apertura del suo saggio L’uomo a una dimensione (15). Contestualizzare il nostro discorso a partire da questa frase potrebbe permetterci, a mio parere, di individuare la macchina mitologica, la stessa che trova olio per i propri ingranaggi dalle bocche di Istituzioni, politici, poliziotti, magistrati, giornalisti, professori, medici, psichiatri, recuperatori, tecnici, esperti, opinionisti, analisti, artisti, scrittori, musicisti e chi più ne ha più ne metta, gli stessi che fanno della droga una supermerce, così come brillantemente definita da Elvio Fachinelli, animatore della rivista L’erba voglio, in alcuni articoli sull’eroina datati 1978 e pubblicati tra le colonne del Corriere della sera.
Codesta macchina, la quale oggi ha raggiunto la più alta fase di splendore, trova il suo proprio sviluppo, nel proprio senso moderno prima e neomoderno poi, in due precise fasi storiche: la Guerra dell’oppio svoltasi tra il 1839 e il 1842 vedendo contrapposti l’Impero cinese e l’Impero britannico, e la Guerra alla Droga (o War on Drugs) ovvero la campagna lanciata dal 1971 dall’allora presidente statunitense Richard Nixon. La prima ci ha insegnato quanto uno Stato sovrano giochi un ruolo d’attacco nella disputa del libero mercato e del liberismo (alla faccia del ruolo emancipativo che attribuiscono alla sovranità i nostrani Preve prima e Fusaro poi, nel loro anticapitalismo monco e mozzato) a partire dai divieti e da una politica proibitiva che la Cina emanò, col dilagare della tossicodipendenza, rispetto al fruttuoso mercato dell’oppio proveniente dall’India britannica, cosa che il Regno Unito, figlio di Adam Smith, non poteva tollerare. La seconda ha sancito una fase importante dell’attuale proibizionismo rispetto all’uso di droghe dichiarate illegali dalle Nazioni Unite, le stesse sostanze che Nixon identificò come “nemico pubblico numero uno” (salvo poi ritornare utile nella loro diffusione pilotata e deliberata rispetto alla prospettiva di ghigliottinare la spinta conflittuale delle realtà post-sessantotto, vedi l’Operazione Bluemoon in Italia), una sorta di piaga che, come scrisse l’economicista Milton Friedman, “sta devastando la nostra società” e sta “facendo a pezzi il nostro sistema sociale”. Ambedue le esperienze sono le fasi storiche per eccellenza della supermercificazione della droga, le stesse che hanno costituito modernamente il suo proprio materiale mitologico definitivo, quello che, una volta compreso, delinea platealmente la contiguità del mercato legale rispetto a quello illegale, e così viceversa, immaginato come un mondo distinto (tra bianco e nero) solo dagli occhi più superficiali e negligenti, gli stessi occhi poveri di criticità e prospettiva conflittuale. Fatto questo appunto dovremo ora disintossicarci da taluni sovrastrutture, prima ancora che dalle sostanze in sé, per permetterci di andarne oltre.
La droga, come qualsiasi altra merce in seno al sistema economico così come lo si conosce, è un rapporto sociale, che, in quanto tale, assorbe tutte le contraddizioni dell’esistente e dello stato di cose disarticolato così come ambiguamente organizzato. A questo punto scaturisce spontaneamente chiedersi da dove sorga la sua diffusione, il suo scambio, la sua domanda e la sua offerta, qual è la sua utilità, in che modo soddisfi taluni bisogni e, infine quali sono questi bisogni. Per farla breve: perché ci si droga? Le risposte, che si sono susseguite nei vari dialoghi stretti con alcune individualità tossicodipendenti, sono state molteplici: dalla ricerca di divertimento, di svago, alla mera aggregazione o imitazione, dalla disobbedienza trasgressiva, alla fuga autodistruttiva, sino al migliorare le proprie prestazioni sociali. Ma queste sono ovvietà per chiunque si approcci al discorso, tanto da essere presentate periodicamente sia a destra che a manca, dai chierichetti clerico-conservatori sino agli pseudo-specialisti progressisti, o sedicenti tali.
Eppure, arrivati a questo punto, avendo poc’anzi definito la droga non una semplice merce ma, bensì, una supermerce,ci viene in aiuto la lettura che Karl Marx fa del valore in apertura de Il Capitale, in particolare da quello che lui definisce come il feticismo della merce (16). Secondo l’agitatore tedesco infatti la merce non si presenta solo nella sua propria forma elementare, ma anche come una cosa sensibilmente sovrasensibile, comportandosi allo stesso modo dei “feticci ideologici” e religiosi. A questo punto le merci assurgono al ruolo di rapporto sociale, e questo lo abbiamo già menzionato precedentemente. Ma, citando sempre Marx, lo scambio fra gli uomini diviene un “movimento sociale” che “prende la forma di un movimento di cose, sotto il cui controllo essi [gli uomini, n.d.a.] si trovano, piuttosto che averle sotto il proprio controllo” (17). Il feticcio di marxiana memoria fa gruppo dunque con lo spettacolo debordiano e con i materiali mitologici jesiani che, tutti contestualizzati, ci agevolano nell’analisi della droga. Essa infatti non solo si presenta come un-di-più o come un rapporto sociale, ma è proprio la socialità del sociale. La droga rappresenta al meglio la mediazione dei rapporti sociali e la merce pervenuta all’occupazione totale della stessa vita sociale, tanto da essere onnipresente in ogni singolo momento della quotidianità di qualsiasi personalità: dalla sigaretta per celare la tensione, ai sonniferi per dormire, agli stimolanti per rimanere svegli, agli ansiolitici e agli antidepressivi contro il dilagare di stress e ansia, all’alcol immancabile e imprescindibile accompagnatore nella mediazione dei rapporti, sino a tutte quelle altre sostanze consapevolmente nichiliste (vedi, tra le tante, l’eroina) che accompagnano il consumatore, o consumato (18) nel soave percorso di un lento suicidio.
Ogni esigenza si muove però all’interno di una realtà ben delineata: la società attuale è infatti la società frustrata, annoiata e depressa per eccellenza, la società patogena ad altissimo contenuto di ansia e di stress quotidiani. Il tempo al suo interno si muove, altalenante, non più tra i meandri contrapposti del tempo lavoro e del tempo libero ma, bensì, per dirla con l’etnopsichiatra Piero Coppo, tra il tempo depresso e il tempo euforico. Il primo è reale mentre il secondo è dato illusoriamente dalla dedizione al consumo, sviluppandosi all’interno del tempo dedicato alla merce che, una volta terminato, si spegne con esso (19). Il tempo della merce è coerente rispetto a una socialità mediata e cosificata esclusivamente, appunto, dalle cose. La fuga dal dispiacere spinge ogni individuo all’interno delle logiche edonistiche nella totale dedizione all’euforia data dal tempo della merce, portando chiunque tra le braccia della ripetitività pur di imprimere all’infinito questo tempo, visto come deliziosa oasi e paradiso terrestre di felicità secolarizzata e perenne, seppur inconsapevolmente fittizia.
Ci si ripresenta allora una domanda precedentemente lasciata in sospeso, anzi, peggio, lasciata tra le mani degli alimentatori della Megamacchina e delle loro risposte telegrafiche: perché ci si droga? L’intuizione principe del mio discorso non ha comunque avuto inizio con le nozioni di feticcio, spettacolo e materiali mitologici che, se poste in un certo modo, potrebbero far pensare a uno studio meramente accademico, per quanto ci si dimentichi della radicalità delle tre personalità che coniarono tali definizioni.La folgorazione illuminante è anzi sopraggiunta dalle labbra di un escluso che, spada tra le mani e laccio emostatico tra i denti, mi ha semplicemente riferito di come il suo consumo bucomane ed eroinomane fosse dovuto a una semplice banalità: l’eroina è buona.
Ci si dimentica di una semplice cosa che, qualsiasi sostanza psicoattiva e psicotropa, sia essa sintetica oppure naturale, provoca o dovrebbe provocare in base alla sostanza in sé e alla sensibilità del suo consumatore: il piacere. Dal momento in cui si fa riferimento alla società attuale come alla società del dispiacere, non può essere presa sottogamba una cosa “buona”. Ogni singolo approccio al consumo poc’anzi citato ruota attorno a un’unica esigenza, appunto il piacere. Niente di più e niente di meno. Ciò che si ricerca nel tempo euforico è la felicità, ma ciò che si trova è un piacere a rate, fugacemente passeggero, e i tentativi di prolungare il tempo da dedicare all’euforico piacere altro non fanno che porre le basi della dipendenza. Essa, infatti, non può essere relegata esclusivamente al consumo illecito descritto in una cartella clinica attraverso il suo linguaggio specialistico, ma è anche quel preciso momento in cui la propria vita, secondo gli arguti insegnamenti del critico radicale Riccardo d’Este, inizia a muoversi in chiave più riproduttiva piuttosto che produttiva (20), in una ciclicità che, apparentemente, presenta se stessa come securitaria ma che, in verità, altro non è che mortifera, a prescindere dal fatto che l’acquirente di tale riproduttività pensi a se stesso come consumatore occasionale o, magari, in perfetto controllo ripartito e governato del proprio consumo.
Giunti al punto per cui si presentano ora come necessarie una massa e un’ondata indefinita di domande (da ‘chi sono i consumatori?’ sino al sacrosanto ‘che fare?’ per poi ripassare nell’approfondimento necessario delle questioni già aperte tra ‘che cosa è la droga?’ e ‘perché ci si droga?’ col susseguirsi dei rispettivi materiali mitologici, spettacoli e feticci) ci si espone davanti il limite di questo primo scritto (insomma, non è sufficiente), il cui compito che si vuol dare da adempiere rimane il punto di iniziazione verso una prospettiva a lungo termine. Partendo dall’idea di riproporre sotto una luce diversa un argomento oggi eccessivamente normalizzato quanto, ormai, sacralmente vissuto come acritico e acriticabile, si vogliono invece immaginare dei momenti di confronto che si vedranno accrescere e acuire, nella propria critica radicale, attraverso una serie di articoli che sanciranno il proseguo graduale del presente, giunto ormai alle sue righe conclusive, sperando che, dalla carta, il discorso trovi realizzazione nel dibattito discorsivo, negli incontri diretti, nei confronti e (perché no?) negli scontri corpo-a-corpo, quelli non mediati dal mondo degli alias.
Forti della convinzione per cui tutto debba considerarsi criticabile (e non a partire dai discutibili insegnamenti cartesiani quanto, piuttosto, a partire dalla formula filo-situazionista del mettere in discussione tutto quel che si può discutere) il presente scritto può essere visto come il primo passo di riappropriazione dei momenti e, soprattutto, degli spazi (quelli che i vari Jean Baudrillard, Zygmunt Bauman o Marc Augé indicano come luoghi globali tra le cui maglie si metaforizza l’alienazione e la solitudine dei suoi abitanti), sia quelli di aggregazione che quelli di passaggio, quelli in cui prendono forma i vissuti individuali e collettivi. Con questo scritto si fa riferimento qui a uno spazio particolare di fondamentale vitalità: quello del linguaggio. Non per cadere nell’immagine del Nanni Moretti de “le parole sono importanti” (21), eppure lo sono per davvero. Iniziare questo percorso da una riflessione per la riappropriazione delle parole è una seducente guerra alla Megamacchina che sulle parole, e il loro immaginario, detiene pieno potere e monopolio. Si ritorna punto e a capo. Il rischio che perviene resta quello per cui la critica rimanga sulla cattedra o sull’altare della discorsività ma, pur di rimartellare sulla ‘questione droga’, sono pronto a cogliere queste contraddizioni.
1) Furio Jesi, Mito, Nino Aragno Editore, Torino, 2008
2) Thomas Szasz, Il mito della droga, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 32
3) Guido Blumir, Marisa Rusconi, La droga e il sistema, Feltrinelli, Milano, 1977
4) Ibidem
5) Lewis Mumford, Il mito della macchina, Il Saggiatore, Milano, 1969
6) Guy Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, Mondadori, Segrate, 1997
7) Ibidem
8) Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 2013, p. 54
9) Ivi, p. 70
10) Ivi, p. 64
11) Ivi, p. 54
12) Per la storia della sostanza vedi: Guido Blumir, Eroina, Feltrinelli, Milano, 1976
13) Alessandro De Pascale, Il caso Parolisi: sesso, droga e Afghanistan, Imprimatur, Reggio Emilia, 2013
14) Per la storia della sostanza vedi: Daniel S. Worthon, Coca e cocaina, Savelli Editore, Roma, 1980
15) Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1971, p. 7
16) Karl Marx, Il Capitale, Newton Compton, Roma, 2007. Vedi sezione: Il carattere di feticcio della merce e il suo segreto, pp. 76-84
17) Ivi, p. 78
18) Afshin Kaveh, Fare di tutta l’erba un fascio. La spettacolarizzazione della droga, Sensibili alle Foglie, Roma, 2017. Cfr.: “La parola consumo assume quindi non tanto i connotati socialmente riconosciuti come positivi, ovvero il fruire di un bene e un servizio, quanto piuttosto di semplice senso annichilente. Un consumo che consuma, un consumatore che, consumando, si consuma”, cit. p.47
19) Piero Coppo, Psicopatologia del non-vissuto quotidiano, Nautilus, Torino, 2006
20) Riccardo d’Este, Quel ramo dell’ago di Narco, Quattrocentoquindici, Torino, 1993
21) Dal film Palombella Rossa del 1989