di Sabrina Campolongo |
Recensione de La prova del miele, Salwa Al-Neimi
Chi ha acquistato questo libro sottile cercando una lettura piccante, catturato dall’immagine di copertina e dalla metafora poetica nel titolo (con quelle superbe natiche femminili in primo piano non è difficile immaginare a quale miele ci si riferisca…) sarà rimasto, probabilmente, deluso. Non di un romanzo erotico orientaleggiante, non di un ‘Mille e una notte’ (vista l’esigua mole non più di sette notti, in ogni caso) in salsa piccante si tratta, ma di un breve quanto appassionato testo politico e poetico sulla libertà, sul desiderio e sulla cultura araba prima che diventasse il regno della dissimulazione e della negazione sessuofoba.
La protagonista, siriana come l’autrice e come lei trapiantata a Parigi, è
una colta bibliotecaria a cui viene proposto, riconoscendo la sua passione semi segreta – e in ogni caso, agli occhi del mondo, puramente accademica – per gli antichi testi erotici arabi, di tenere un seminario sull’argomento negli Stati Uniti. I motivi alla base del rinnovato interesse americano verso la cultura araba saranno gli stessi per cui il congresso verrà annullato, come un serpente che si morde la coda: l’11 settembre e la difficile era del dopo.
In ogni caso, quello dell’intervento al congresso oltreoceano è solo l’innesco, o il pretesto letterario, per una riflessione-narrazione in cui vita e letteratura sono legate così strettamente da fondersi. Le parole degli antichi testi – rigorosamente in arabo, la lingua sacra del Corano e, per la protagonista, l’altrettanto sacra lingua del sesso – illuminano l’accidentato sentiero delle relazioni, ma sono anche micce che accendono esperienze, che portano nella vita avvenimenti e incontri.
Tra tutti, quello che torna prepotentemente ad affacciarsi alla mente della protagonista nel corso delle sue ‘ricerche’, è l’incontro con l’uomo che chiama “il Pensatore”, un momento che segna un vero e proprio spartiacque nella sua vita, tanto che a posteriori lei stessa la dividerà in un’era a.P (prima del Pensatore) e un’era d.P. (dopo il Pensatore), di cui la prima corrisponde alla Jahila, i secoli bui dell’ignoranza, e la seconda alla Nahda, il Rinascimento.
Una relazione bruciante, a cui però la protagonista rifiuta, con dolce ostinazione, di concedere lo status di amore, quell’etichetta consolante che rimanderebbe a un concetto totalizzante quanto sfuggente, a un altrove di cui non ha mai avuto esperienza. “Non so cos’è l’amore, so cos’è il desiderio. L’amore appartiene a un aldilà che mi oltrepassa, mi rifiuto di corrergli dietro. La passione, mia e dell’altro, la capisco, la vedo, la tocco, la respiro, vivo i suoi effetti e le sue trasformazioni. È lei sola a condurmi per mano nei miei spazi inesplorati. […] Era il mio amante, il
Pensatore? L’idea non mi aveva nemmeno sfiorata. Potevo essere l’amante di un uomo, quando l’unica cosa che volevo da lui era che mi tenesse abbracciata dietro una porta chiusa a chiave? Potevo essere l’amante di un uomo dal quale non volevo altro che quelle ore rubate?”
A queste e altre domande, la protagonista sembra cercare risposta tanto negli antichi testi che attraverso le esperienze dirette di amiche, colleghi e sconosciuti di cui va golosamente a caccia. Non di storie d’amore, ma di storie di sesso, precisa, anche quando le viene risposto, con un’alzata di sopracciglio, che si tratta di un semplice cavillo linguistico.
Si susseguono storie di sesso (o d’amore) vissuto o negato, o mascherato, di tradimenti e inganni, di dissimulazioni necessarie e rinunce dolorose, storie germinate tutte nel mondo arabo, con protagonisti che ancora lo abitano e altri che sono emigrati in Occidente, senza per questo essere sfuggiti alle proprie radici.
“Dovevo essere in un paese arabo per cominciare a scrivere”, dichiara infatti la narratrice, spostandosi a Tunisi per preparare il suo intervento per il congresso americano, e più volte ribadisce che le parole del sesso prese in prestito dalle lingue dell’Occidente e apprese leggendo il Marchese de Sade, Miller o Bataille, per quanto lascive, suggestive, poetiche o volgari, non sono in grado di smuoverla, non riescono a eccitarla quanto quelle, precise, dell’arabo neantichi testi. Citati con puntiglio, a mostrare come l’era del dopo 11 settembre e dei fratelli musulmani rappresenti il tradimento dell’antica, vitale, carnale sapienza araba; non un passo indietro, ma un cambio di rotta che nega le sue origini più profonde.
Con sgomento, la colta protagonista assiste a una deriva schizofrenica, da una cultura per cui il sesso era “una grazia di cui essere riconoscenti a Dio” e anticipazione d’eternità – perché sarebbe una vera crudeltà far vivere in terra un piacere così squisito se poi in cielo si dovesse rinunciarvi – in cui il Profeta stesso è raccontato come sapiente e delicato amante dalla voce delle sue mogli, alla società della dissimulazione, all’Islam in cui il sesso è bandito anche dalla lingua, in cui convivono l’ossessione per la verginità e il consumo smodato di viagra, due manifestazioni della stessa dolorosa frattura. Né la consola la scatola magica dell’Occidente e la sua sbandierata libertà, non solo perché l’erotismo è per lei coniugato nella lingua araba e passa attraverso tutto l’impasto di gusti e odori, volti e paesaggi che hanno costituito la sua formazione personale, ma soprattutto perché la sua visione del sesso è molto più libertaria di quella della più spregiudicata eroina di Sex and the city.
“È la mia morale a determinare e imporre le mie azioni, i miei principi sono quelli che mi sono data io. Mi importa solo l’effetto delle mie azioni su di me e sulla mia vita: il mio viso dopo l’amore, la luce nei miei occhi, il mio corpo che torna intero, le parole che mi scaldano e mi fanno nascere delle storie in petto”.
Da questa pienezza, in cui il corpo diventa parola e la parola corpo, che bisogno c’è di addobbare il desiderio con nomi che dovrebbero dargli un senso più alto? Ciò appare tanto più rivoluzionario, forse, perché arriva da una voce araba, quando in Occidente impera, in letteratura quanto nel cinema, un versione light e ‘contemporanea’ del celebre codice Hays, per cui il sesso fuori dai sacri vincoli del matrimonio oggi può essere mostrato, anzi deve, il più delle volte, ma non può che ricadere in uno dei due comparti stagni: sesso per amore oppure sesso-perversione, sesso-rosa o sesso-nero, quest’ultimo che esclude l’happy ending e può sfumare dall’esito tormentato-drammatico a quello grottesco-patologico.
Quale finale sarebbe riservato a una storia come quella con il Pensatore, in un film delle major? Forse un colpo di pistola, come in Ultimo tango a Parigi, per salvare almeno uno dei due protagonisti dalla perversione di una grandiosa storia di sesso che non approdi nemmeno a una convivenza, o un’inevitabile dolorosa rinuncia, con ritorno nel nido familiare, come ne Il Principe delle maree. In ogni caso un addio, a cui non sfugge, ahimè, la stessa Salwa Al-Neimi. Nemmeno il Pensatore, l’amante perfetto, ce la fa a portare avanti una relazione nella nudità in cui la mantiene la protagonista, con la sola prospettiva di una porta chiusa a chiave e nessun orpello sentimentale, senza sentirsi usato.
“All’inizio mi chiedeva: la nostra è solo una storia di sesso? E io evitavo di rispondere. Alla fine, non me l’ha chiesto più. Alla fine, se ne è andato”.
La superficialità di questo addio è forse il maggiore difetto del libro. Dopo averci mostrato che può esistere una storia di puro grandioso e gioioso sesso, senza che si spalanchino le porte dell’inferno sotto i piedi di Don Giovanni, o un treno in corsa spezzi l’ultimo respiro della sventurata Anna Karenina, una storia in grado di trasformare una lattuga nel tizzone che infiamma tutto quello che ha accanto senza che nessuno rimanga arrostito, dopo avere auspicato un incontro del genere per le sue amiche malinconiche e affermato che nella vita di ognuno dovrebbe esserci un Pensatore o una Pensatrice, Al-Neimi avrebbe dovuto forse spendere qualche parola in più per dirci perché è finita.
Al netto di questa comprensibile trascuratezza, questo snello libro è una boccata d’aria fresca, un invito a godere, rendendo grazie a chi ci pare, dei piaceri del corpo tutto intero, senza preoccuparsi troppo dell’intangibile. “Sono solo corpo, lo so, non possiedo nient’altro. Il mio corpo è la mia intelligenza, la mia consapevolezza, il mio sapere”.
Come nelle più luminose pagine di Colette, che nutriva di polli ruspanti, sole e aria buona il suo pallido e corrotto Chéri, prima di accoglierlo nel suo letto, Salwa Al-Neimi torna a legare il desiderio sessuale all’appetito di vita, alla buona salute, alla fame di conoscenza di sé e del mondo.
“Anni dopo che il Pensatore se ne era andato, ho capito che noi tutti abbiamo un Pensatore o una Pensatrice (forse più di uno) che ci aspetta in qualche angolo di questo mondo per rivelarci come siamo, per farci scoprire le nostre capacità, per farci addentrare nel nostro labirinto”. Resta il dubbio sul fatto che ciò che rende un incontro del genere un’esperienza fondamentale non sia tanto l’altro – della personalità del Pensatore, dei suoi gusti o del suo passato non sappiamo quasi nulla, ciò che conosciamo è solo la sua impronta nella vita della protagonista – quanto la possibilità che ci offre di entrare in contatto con il nostro io più profondo; un’esperienza solitaria, alla fine, di cui l’altro è solo il tramite, l’innesco o la porta, ma pur sempre un grande dono, forse tutto quello che ci si può aspettare da un’entità inguaribilmente distante da noi, forse la comunione non è che una favola per credenti di ogni fede, anche di quella laica del Grande Amore.
Probabilmente un Pensatore si potrebbe anche inventarselo, ma di certo è più piacevole incontrarne uno, o trovarlo dentro dieci, o cento corpi diversi, anche senza arrivare ai mille della sapiente al-Alfiyya (la Millenaria, appunto), la cui storia e preziosi insegnamenti rischiano di andare perduti, per le sue eredi, nate in società che le vogliono ignoranti tanto della pratica quanto della teoria dell’amore, che ha castrato anche la lingua e censurato i dizionari.
Questo piccolo libro, scritto in arabo non a caso, può considerarsi una porta, destinata prima di tutto ai lettori arabi, in special modo alle giovani orfane di al-Alfiyya, un modo di rivendicare l’origine antica del loro desiderio di libertà e mostrare loro quell’eredità così preziosa che le attuali teocrazie musulmane hanno bisogno di nascondere e delegittimare.
Per quel che mi riguarda, se dovessi riassumere nei caratteri di un tweet la mia conclusione sul libro e sulla sua Autrice, credo che userei le parole che il Pensatore dedica alla sua amante: “Di
te mi piacciono due cose: la tua libertà e il fatto che sei araba”.
La prova del miele, Salwa Al-Neimi, Feltrinelli, 2008