La Costituzione: sì, no, dipende… invocata quando si tratta di proteggere la libertà di stampa, violabile se in ballo ci sono i diritti del lavoro. L’ipocrisia del Quarto potere in mano ai grossi gruppi industriali, smascherata dalla vicenda di Pomigliano
Il 12 luglio 2010, sulle pagine di Repubblica, Ilvo Diamanti commenta un sondaggio relativo al lessico politico degli italiani. L’indagine – condotta nel periodo 6-9 luglio dall’istituto di ricerca Demos&Pi di cui Diamanti è fondatore e presidente e Repubblica è partner – chiedeva al campione di persone intervistato di esprimersi su 46 parole, particolarmente significative dal punto di vista valoriale, posizionandole su due scale: positivo/negativo e presente/ futuro, ossia l’importanza maggiore o minore che il valore avrebbe assunto rispetto a oggi. In base alle risposte, le parole (i valori) venivano suddivise in cinque macro aree che ne definivano gli orientamenti: topiche, strategiche, emergenti, marginali e declinanti.
Le considerazioni che si possono trarre dal sondaggio sono diverse, e si rimanda al documento stesso chi volesse approfondirle (1). In questa sede interessa riflettere sul posizionamento di alcune di esse: ‘libertà di informazione’ si situa tra quelle topiche, ossia positive e che in futuro assumeranno sempre più valore; ‘sciopero’ si posiziona tra quelle declinanti e su un doppio confine, tra positivo e negativo e tra maggiore e minore importanza per il domani; ‘Cisl-Uil’, proposte insieme, e ‘Cgil’, indicata da sola, sono declinanti anch’esse, al limite tra positivo e negativo e considerate decisamente in flessione per quanto riguarda la loro importanza nel futuro.
È un risultato che non sorprende: per mesi, la stampa ha martellato contro il pericolo della ‘legge bavaglio’ e in occasione della questione Fiat-Pomigliano-Fiom si è schierata, compatta e con poche eccezioni come L’Unità e Il manifesto, a favore dell’accordo lavorativo proposto da Marchionne – che viola il contratto collettivo, il diritto di sciopero e alcuni diritti sindacali – e in contrapposizione alla Cgil che si è rifiutata di sottoscriverlo. E infatti il campione intervistato ha fatto proprio e replicato il pensiero unico veicolato dall’industria dell’informazione, rispondendo alla sollecitazione come il cane di Pavlov.
Al risultato del sondaggio si è arrivati per tappe progressive, che vale la pena ripercorrere sulle pagine di Repubblica per due contraddizioni che caratterizzano la testata: è il principale quotidiano in quota al centro-sinistra, e quindi si barcamena tra una posizione politica che dovrebbe essere (almeno apparentemente) dalla parte dei lavoratori e la linea editoriale dettata dalla proprietà di De Benedetti e da un Cda in cui siedono personaggi legati anche ad altre realtà industriali (2); mentre si poneva in prima linea nella difesa del diritto costituzionale della libertà d’informazione, il giornale dava il proprio avvallo alla negazione del diritto costituzionale di sciopero contenuto nell’accordo proposto dalla Fiat.
Occorre tuttavia fare prima alcune considerazioni sulla ‘libertà di stampa’.
È innegabile il valore al diritto all’informazione dei cittadini, tanto quanto lo è l’intento censorio della proposta di legge sulle intercettazioni nella sua formulazione originaria. Non è questo il punto. La questione è l’abito etico e morale che la stampa ha indossato, Repubblica in primis con la sua campagna dei post-it gialli, per coprire interessi e privilegi.
Fin da subito vi è stata infatti la volontà di negare una palese eterogenesi dei fini nella lotta contro la legge bavaglio: sempre meno le inchieste giornalistiche scovano notizie, come dovrebbero fare, sempre più sono semplice cronaca giudiziaria. È lecito chiedersi di che cosa scriverebbero i giornali privati dei documenti delle procure.
Ma peggiore è stata la perseveranza nel voler continuare a indossare quell’abito anche davanti a nuove situazioni contingenti che ne hanno reso evidente l’ipocrisia: alcuni diritti costituzionali si devono salvaguardare (informazione), altri si possono abolire (sciopero).
Si dirà che esistono scale diverse di valori. È stato infatti il leit motiv della stampa: nel principio di libertà di informazione c’è in gioco la democrazia mentre a Pomigliano, è il mercato, bellezza! Tuttavia la questione della proprietà dei principali giornali italiani, tutti in mano a grossi gruppi industriali e finanziari con interessi in vari settori manifatturieri (3), genera più di qualche perplessità nell’approccio riservato a determinati avvenimenti.
Libertà di stampa, infatti, non significa solo non avere limiti di legge nel pubblicare qualsiasi notizia ma anche, e soprattutto, non dover rispondere ad alcun potere economico o politico. Perché, in caso contrario, viene da chiedersi quale quotidiano possa mai schierarsi dalla parte dei lavoratori anziché da quella degli imprenditori; viene da chiedersi se dietro la linea editoriale di un giornale vi sia un onesto pensiero sullo stato delle cose ascrivibile al suo comitato redazionale, o non semplicemente gli interessi della proprietà; viene da chiedersi se i giornalisti condividano in buona fede l’ideologia capitalistica che inevitabilmente sta alla base della linea editoriale di quotidiani in mano a imprenditori, o se dietro i loro articoli non vi sia malafede.
Ora veniamo alla gestione dell’informazione Fiat-Pomigliano-Fiom messa in atto dal quotidiano Repubblica.
L’8 giugno la Fiat presenta il proprio accordo, dichiarato immodificabile, all’incontro con i sindacati. L’11 Cisl e Uil danno il loro assenso mentre la Fiom dichiara irricevibile la proposta, in quanto contiene deroghe al contratto nazionale e alle leggi in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e la messa in discussione di diritti individuali quale il diritto di sciopero, e si riserva una risposta definitiva per il 14 giugno, dopo la riunione del Comitato centrale.
A partire dal 12 Repubblica inizia a occuparsi della notizia e il 14 compaiono i primi articoli di commento. Luciano Gallino analizza la nuova organizzazione del lavoro proposta, tre turni, ritmi più veloci alla catena di montaggio, pause e giorni di riposo contratti: La globalizzazione in casa, titola l’articolo, i primi a farne le spese sono i lavoratori, scrive Gallino, ma “non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero”. Non un cenno alla violazione del diritto di sciopero contenuta nell’accordo.
Nel frattempo la Fiom dichiara il suo rifiuto definitivo, bolla come incostituzionale la proposta della Fiat e afferma che già applicando il contratto nazionale è possibile ottenere il massimo utilizzo degli impianti e le flessibilità di orario voluti dall’azienda; si dice disposta ad accettare la richiesta di maggiorazione delle ore di straordinario obbligatorie, ma rifiuta di sottoscrivere la parte dell’accordo che viola i diritti individuali dei lavoratori e chiede di tornare al tavolo delle trattative.
Il 15 giugno, accanto al No della Fiom, compare sul quotidiano la minaccia di Marchionne di far saltare l’investimento e di lasciare la produzione in Polonia.
Il 16 la notizia è il referendum indetto tra i lavoratori dello stabilimento per il 22 giugno. Il commento è lasciato alla penna di Tito Boeri, che inizia l’articolo con le parole: “Questo è un accordo necessario, inevitabile”. Nel testo parla di turni molto pesanti e della conseguente necessità per l’impresa di garanzie da parte di tutti i sindacati che l’accordo sottoscritto sarà rispettato. “Per questo motivo la Fiat impone clausole che limitino il ricorso allo sciopero degli straordinari una volta realizzato l’investimento”. È un passaggio cruciale: l’articolo riconosce che nella proposta Marchionne vi è un ‘problema sciopero’, ma lo circoscrive al tempo degli straordinari.
Ora, per comprendere come Repubblica si stia muovendo, occorre leggere il testo dell’accordo: nell’articolo 8, intitolato ‘assenteismo’, non c‘è alcun riferimento agli straordinari. Vi sono citate “forme anomale di assenteismo che si verifichino in occasione di particolari eventi non riconducibili a forme epidemiologiche quali, in via esemplificativa ma non esaustiva, astensioni collettive dal lavoro [e] manifestazioni esterne […]”. Tale punto è collegato all’articolo cardine della proposta, il numero 15, che considera tutte le clausole “correlate e inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare” sottoposta a “provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti per mancanze”.
Indubbiamente la questione sciopero è trattata all’interno del testo con accorgimenti degni del miglior Azzeccagarbugli manzoniano – la parola incriminata non vi compare mai – ma Boeri non è certo di primo pelo come Renzo. Curiosamente, però, già il giorno precedente Repubblica aveva sintetizzato la questione in modo simile, all’interno di un grafico riassuntivo: “È prevista la punibilità per chi proclama scioperi nei turni di lavoro straordinario del sabato notte”.
Non si sa che cosa preferire: se la redazione di Repubblica e Boeri non abbiano compreso il testo proposto da Marchionne, se non l’abbiano letto o se abbiano in malafede deciso di dare informazioni errate.
Boeri prosegue citando “ingiustificati picchi di assenteismo” – senza entrare nel merito con alcun dato – che renderebbero necessaria, seguendo il percorso logico, la dura presa di posizione della Fiat a Pomigliano. Lo stesso giorno, Repubblica esce con un articolo a tutta pagina che focalizza ancora l’attenzione sui duri ritmi di lavoro chiesti allo stabilimento.
La sera di quel 16 giugno, Landini è ospite della trasmissione Otto e mezzo. Nominato segretario Fiom da appena due settimane, il sindacalista è un outsider della televisione: ha una dialettica chiara, precisa, diretta, non ancora contaminata dalla dinamica salottiera dei talk show, basata su astrazioni, attacchi personali, cortesie e finte contrapposizioni. Si ha l’impressione che sfugga di mano ai presenti, sorpresi di trovarsi davanti un personaggio così concreto, scomodo, solido nelle sue argomentazioni, per niente a caccia di facile consenso, per nulla preoccupato di essere accusato di un estremismo fuori dal tempo.
Mentre ribadisce la disponibilità data fin dall’inizio dalla Fiom a discutere dell’organizzazione del lavoro, Landini solleva fortemente la questione della violazione del diritto costituzionale di sciopero. Affronta anche l’aspetto dell’alto assenteismo in occasione delle tornate elettorali, dicendo che non è problema che debba risolvere un sindacato e che un imprenditore possa prendere a pretesto per negare un diritto costituzionale, ma che dovrebbero essere da una parte i partiti a farsene carico al proprio interno come questione morale, e dall’altra la magistratura a indagare sulle centinaia di permessi elettorali rilasciati come rappresentanti di lista in un territorio infiltrato capillarmente dalla criminalità organizzata quale quello campano.
Dal giorno successivo, avviene una svolta nell’approccio alla questione Pomigliano. Fino a quel momento Repubblica si era focalizzata sul maggior impegno lavorativo chiesto dall’accordo, veicolando così il messaggio che in un tale periodo di crisi solo dei fannulloni potevano rifiutare di rimboccarsi le maniche; ora i fannulloni diventano ‘lavoratori disonesti’ – così li aveva già definiti Emma Marcegaglia il 13 giugno, accusando anche la Fiom di difenderli – e Pomigliano una fabbrica da ‘rieducare’.
Il cambio di passo è segnato dal lungo reportage di Alberto Statera, pubblicato il 18, che parla della storia di uno stabilimento da sempre incontrollabile, fin da quando era Alfa Romeo: “Nacque male Pomigliano e crebbe peggio, con il più basso tasso di produttività, il più alto di assenteismo, soprattutto in coincidenza con le partite del Napoli Calcio (fino al 24%), il venerdì o sotto elezioni, quando c’è l’occasione di fare i rappresentanti di lista. L’ultima volta pare siano stati 2.800, oltre la metà della forza lavoro a disertare la catena di montaggio. E poi il record nazionale di invalidi, i doppi lavori, i furti e i difetti nelle auto prodotte, che per decenni hanno fatto impazzire i concessionari. […] Anche gli operai migliori, non quelli al seguito del sindacalismo anarcoide che abitano nella città fortificata del radicalismo, ma quelli che riescono con molta fatica – perché nessuno può dimenticare che lavorare qui dentro è vera fatica – a dare un tocco umano all’automazione, non negano che molti di loro, pur alieni da nefandezze gravi, non sono puntuali. Fumano sul lavoro, prendono un caffè, mangiano la pizza al taglio, qualche volta consumano o addirittura spacciano droghe”. All’interno dell’articolo le interviste ad alcuni lavoratori che affermano di avere ammirazione e stima per Marchionne, che “un tantinello di ragione ce l’ha”.
Domenica 20 giugno Landini è ospite alla trasmissione In mezz‘ora di Lucia Annunziata, insieme al ministro Sacconi: dichiara che il referendum indetto tra i lavoratori è illegittimo, in quanto non si può chiedere di votare contro un diritto sancito dalla Costituzione né sotto il ricatto di perdere il lavoro, e in merito all’assenteismo afferma che i dati resi pubblici dalla Fiat sono relativi agli anni fino al 2005: dopo di allora lo stabilimento ha visto un cambio generazionale degli operai e il valore dell’assenteismo successivo al 2005 è pari al 3,5%, in linea e addirittura inferiore rispetto ad altri stabilimento del gruppo, e dichiara che questo dato è rintracciabile negli stessi documenti Fiat relativi a Pomigliano.
Altro cambio di passo: dopo quella relativa ai ritmi lavorativi, anche la questione ‘assenteismo’ scompare dalle pagine di Repubblica. Nessun giornalista, nessun ‘uomo Fiat’, nessun politico, smentisce il dato riferito da Landini o ne dà altri in merito.
La situazione si fa delicata: proprio quando il referendum si avvicina, e dopo che la Fiom ha dichiarato per ben due volte ‘vedo’ al tavolo da gioco, Repubblica ha in mano sempre meno carte truccate. La percentuale di iscritti Fiom a Pomigliano è significativa, intorno al 25%. Il rischio di un alto numero di No è forte, con l’impatto anche mediatico che questo comporterebbe per il giornale di centro-sinistra che fin dall’inizio si è schierato per il Sì.
Il 20 giugno scende in campo Scalfari. Nel suo editoriale domenicale richiama la dichiarazione di Marchionne – “Io vivo nell’epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa” – e parla di globalizzazione e di impoverimento dei lavoratori nei Paesi ricchi, costretti a fare i conti con la delocalizzazione e i bassi salari dei Paesi emergenti. “Qualcosa si può e si deve fare”, scrive. Ossia: “Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare a una parte delle conquiste raggiunte nell’epoca ‘prima di Cristo’ debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell’epoca ‘dopo Cristo’. Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha”. E propone sgravi fiscali sui redditi da lavoro dipendente e la tassazione sulle rendite e i patrimoni, il solito vuoto refrain ripetuto da anni in Italia e mai messo in pratica. Soldi (futuri e aleatori) contro diritti costituzionali: questa la proposta da parte del fondatore del quotidiano che, ricordiamolo, a suon di post-it gialli sta ingaggiando colpo su colpo la battaglia in difesa di un altro diritto costituzionale.
Il 21 giugno esce sulla stampa il cosiddetto Piano C: se il referendum non darà l’esito sperato dalla Fiat, che dichiara che anche l’80% di Sì potrebbero non essere sufficienti per garantire la tranquilla operosità dello stabilimento, Marchionne sarebbe tentato di chiuderlo e ripartire con una nuova società, assumendo solo gli operai favorevoli all’accordo.
È anche il giorno del via libera ufficiale allo scorporo dell’azienda in due società, e nell’entusiasmo del progetto che si preannuncia foriero di lauti guadagni per gli azionisti, vengono resi pubblici i dati del secondo trimestre: utile netto a 113 milioni contro una perdita di 179 nello stesso trimestre 2009; utile della gestione ordinaria più che raddoppiato a 651 milioni; ricavi a 14,8 miliardi, in rialzo del 12,5%. Gli obiettivi per il terzo trimestre vengono rivisti al rialzo. Giusto per restare in tema di redistribuzione modello Repubblica, nessun editorialista sente il bisogno di mettere a confronto la buona salute della Fiat con i sacrifici, lo sfruttamento e la negazione dei diritti imposti dall’azienda ai lavoratori.
Il 22 giugno si vota. Affluenza del 95%, il 36% vota No; tra gli operai la percentuale raggiunge quasi il 40. Il 23, Repubblica apre con un titolo positivo e incoraggiante: “Valanga di voti a Pomigliano, verso l’ok all’accordo con Fiat”. Lo schema che sintetizza i punti della proposta riporta la questione dello sciopero diversamente rispetto ai giorni precedenti, ma ancora in modo parziale: “L‘eventuale sciopero che violi i punti dell’accordo è sanzionabile economicamente” (nessun riferimento al licenziamento). Il commento è un’altra volta lasciato a Luciano Gallino, che benevolmente si augura che “la Fiat non prenda pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l’accordo oppure per imporlo senza modificarne una virgola”, e che il contratto Marchionne resti relegato ai confini di Pomigliano e non si estenda agli altri stabilimenti Fiat e via via a tutte le varie industrie italiane.
Quel 36% non se l’aspettava nessuno. Stupisce anche Ezio Mauro, che scrive l’editoriale del 24 giugno. “Dunque gli ‘invisibili’ esistono, contano e pesano, quando prendono la parola, sia pure in condizioni estreme: e l’operaio e l’officina tornano a sorpresa a essere un soggetto e un luogo politico”, scrive nell’incipit. “Ha vinto il Sì, nettamente […] ma la forte percentuale di No significa che lo scambio tra lavoro e diritti inquieta e non convince le persone coinvolte” – chissà se avrebbe inquietato anche una redazione impegnata con tutte le sue forze in un’altra battaglia di diritto costituzionale, se il quotidiano non dovesse rispondere a una proprietà e a un Cda di stampo industriale. “L‘unica strada ragionevole, a questo punto, è l’apertura di un confronto che abbia alla base il risultato non equivoco del referendum, e cioè l’accettazione di un piano che è passato al vaglio del voto. […] Un esercizio di responsabilità è necessario anche per la Fiom”.
Mauro richiama i contendenti nuovamente al tavolo della trattativa, modificando la linea editoriale tenuta dal quotidiano fino a quel momento e portata avanti a suon di una interpretazione errata e parziale dell’accordo, un attacco frontale ai lavoratori e il passaggio in sordina della questione sciopero. Ci è costretto, non certo da quel 36% di operai ma dall’impatto mediatico e simbolico di quel 36%, che un giornale di centro-sinistra non può ignorare. Con maestria, usa e misura le parole di modo che possano suonare ai lavoratori/lettori di Repubblica come una difesa dei loro diritti, e risultare quel vuoto appello che sono alla Fiat e ai capitani d’industria tutti. Mauro sa bene infatti, come ogni persona in Italia, che Marchionne non ha alcuna intenzione di cambiare di una virgola l’accordo già sottoscritto da Cisl e Uil.
Pomigliano quasi scompare dalle pagine dei giornali. La Fiom chiede più volte di riaprire la trattativa, la Fiat non ci sente: è impegnata nello scorporo e nel licenziamento di cinque lavoratori, tre a Melfi – due dei quali delegati Fiom – uno a Mirafiori, rappresentante Cgil, uno a Termoli, appartenente al coordinamento provinciale dello Slai Cobas.
Il 22 luglio Marchionne, intervistato da Repubblica, dichiara di voler spostare in Serbia la produzione che “se ci fosse stata serietà da parte del sindacato […] avremmo prodotto a Mirafiori. […] Dobbiamo essere in grado di produrre macchine senza incorrere in interruzioni dell’attività”. Cita il meraviglioso rapporto tra azienda e sindacati che c’è a Detroit, nella casa della Chrysler, e puntuale compare accanto, sul quotidiano, un reportage sugli entusiastici e disciplinati lavoratori statunitensi che si dicono “orgogliosi di avere contribuito a questa rinascita” e raccontano che “quando si è trattato di riorganizzare la fabbrica per metterla in grado di produrre la Grand Cherokee, la gente si è offerta volontaria per venire a pulire, tinteggiare, riportare questo posto all’onore del mondo”. Altro che gli anarcoidi sindacalizzati di Pomigliano!
Il 24 luglio il Piano C diventa realtà: chiusura dello stabilimento e creazione di una nuova società. Le assunzioni inizieranno a settembre 2011, quando partirà la produzione della nuova Panda, e avverranno attraverso la “cessione dei contratti individuali” basati sulla proposta Marchionne; chi non dovesse accettare resterà in cassa integrazione e poi andrà in mobilità, perdendo quindi il lavoro. La Fiom è servita, l’affaire Pomigliano è chiuso e lo sciopero, nello stabilimento campano, non è più un diritto costituzionale riconosciuto.
Nel frattempo, tra il 6 e il 9 luglio, l’agenzia Demos&Pi effettua la sua indagine, con i risultati che sappiamo: sciopero, Cisl-Uil e Cgil parole declinanti, al confine tra positivo e negativo e orientate a una sempre minore importanza nel futuro.
Paradossalmente, nello stesso sondaggio, tra i valori topici si situa ‘più opportunità di lavoro’, e la cosa in sé non appare contraddittoria se si pensa ai lavoratori di Pomigliano presentati dalla stampa come i fannulloni e i disonesti in grado di rifiutare un lavoro e un investimento di 700 milioni, ma c’è da chiedersi come gli italiani pensino di poter evitare un feroce sfruttamento e difendere i propri diritti di lavoratori una volta privati del declinante ‘diritto di sciopero’. A coloro che rispondono che migliaia di precari, giovani e meno giovani, già vivono questa situazione, e che la globalizzazione e il mercato non si possono fermare, non si può che rammentare le parole di Martin Niemöller: “Un giorno vennero a prendere me, e non c‘era rimasto nessuno a protestare”.
(1) http://www.demos.it/a00477.php
(2)Mario Greco, oltre che nel Cda del Gruppo L’Espresso, siede anche nei Cda di Saras Raffinerie (Moratti) e di Indesit Company (Merloni), accanto a Emma Marcegaglia; Sergio Erede anche nei Cda di Luxottica Group (Del Vecchio) e di Interpump Group (Montipò); Luca Paravicini Crespi anche nel Cda di Piaggio (Colaninno)0
(3) Cfr. Tre gradi di separazione. I legami fra stampa e industria in Italia, Giovanna Baer, Paginauno n. 18/2010