Virginia Benenati
Dipendenza da smartphone: il “rinforzo positivo” skinneriano che ci incatena
Quanto spesso, messi di fronte alla sgradevole realtà di un impegno non svolto, ci giustifichiamo con un “non ho avuto tempo”? Non senza sgomento, invero, sentiamo, sempre più di frequente, di non avere abbastanza tempo per portare a termine tutto ciò che, in cuor nostro, siamo consapevoli che dovremmo, o sarebbe bene, fare. Uno degli aspetti più sorprendenti è che tale sensazione riesce a sopraggiungerci pure nei momenti del nostro tempo libero. Anche allora avvertiamo che gli istanti ci sfuggono di mano; non siamo in grado di afferrarli: li sentiamo scivolare come sabbia. Sappiamo che Seneca ci richiamerebbe ad ammettere che “non è vero che abbiamo poco tempo; è vero che ne sprechiamo molto” (1). Ma, il punto è: perché ne sciupiamo così tanto? Cosa ci impedisce di vivere e progettare la nostra quotidianità quando non si tratta di lavoro?
Stando alle statistiche, lo smartphone è, di gran lunga, la cosa che guardiamo e tocchiamo di più. I nostri occhi vengono calamitati dal suo schermo centinaia di volte al giorno, tutti i giorni. Più nel concreto, un’indagine condotta nel 2014 in Inghilterra su duemila persone – e pubblicata sul sito del Daily Mail – c’informa che guardiamo il telefono in media 214 volte al giorno, 1.500 a settimana. Siamo al cospetto di numeri così elevati che Paolo Di Stefano si riferisce al tempo dello smartphone come all’ottavo giorno della settimana (2). E non finisce qui; pare che questa tendenza sia in costante crescita. Nel 2016, difatti, uno studio svolto su un campione di quasi cento fruitori di Android, ha mostrato picchi ancora – e non di poco! – più alti: si tocca il telefono più di duemila volte al dì (3).
Purtroppo si tratta di un atteggiamento che interessa anche i più giovani. Il 45% degli adolescenti tra i 13 e i 17 anni afferma di essere online “quasi costantemente”. Lo ha svelato nel 2018 una ricerca del Pew Research Center che prendeva di mira proprio il rapporto con la tecnologia da parte dei teenager statunitensi (4). Il sospetto che in Italia le cose non vadano in maniera molto diversa, ce lo insinua una rimostranza che si leva dall’esito di alcune interviste, che non contano – statisticamente – al pari di un sondaggio, e tuttavia non si trascura di segnalarle, in quanto possibili spie di un malessere che, se ancorato ai sostanziosi dati sopra menzionati, può senz’altro apparire reale e tangibile. “Dalle interviste sono emerse tre attività maggiormente praticate: il 53,4% degli studenti usa il telefono nel tempo libero, il 26,6% degli studenti gioca all’aria aperta o con un animale e solo il 20% degli studenti esce con gli amici. La percentuale di ragazzi che fa ricorso all’uso del telefono è la più alta: ciò rattrista molto perché, piuttosto che stare in casa con il telefono e comunicare con gli amici tramite chat, si potrebbe stare in compagnia e divertirsi all’aria aperta”, lamenta, per l’appunto, una studentessa delle scuole medie (5).
Ecco che viene a importunarci, allora, un altro interrogativo: come mai lo smartphone è talmente potente da farci dimenticare o allontanare amicizie, passeggiate, sport, ecc.? Come spiegare e rendere conto di questo perturbante fenomeno? Il desiderio di sentirsi sempre connessi con gli altri, pur facendone parte, non è certo la sola componente del quadro, poiché, l’abbiamo visto, non è raro che si rinunci a uscire con qualcuno preferendogli la sua compagnia virtuale (via social e app di messaggistica istantanea). E tale rinuncia – si badi – non attiene solamente all’oggi, cioè all’epoca dei lockdown e delle restrizioni dovuti alla pandemia, come gli studi citati dimostrano ampiamente, essendo tutti datati anteriormente al 2020. Ebbene, quali ulteriori elementi possono aiutarci a comprendere la nostra innegabile dipendenza dallo smartphone? Possiamo enucleare almeno tre fattori:
- la sua ubiquitaria (e bulimica) presenza;
- la sua facilità di utilizzo;
- il carattere imprevedibile tramite cui funziona il meccanismo delle notifiche.
I primi due hanno bisogno di pochi chiarimenti, giacché chiunque può constatare da sé che in ogni luogo e pressoché in ogni momento siamo circondati, se non subissati, da schermi e device interconnessi che, oltretutto, sono estremamente facili da usare; non è un caso che essi siano per lo più touch, ossia basta un dito per azionarli e interagire con essi.
Più interessante può rivelarsi il parallelismo tra lo smartphone e la tv – vista la compresenza di entrambi i punti (6). A questo proposito potrebbe essere illuminante evidenziare che una massiccia esposizione allo schermo televisivo può portare – come ha fatto – a un’intensa assuefazione che rischia di condurre le sue vittime a sviluppare un disturbo autistico. Uno studio del 2006 (7) offre nuovi spunti per riflettere sul problema. Data la significativa e crescente incidenza delle diagnosi di autismo a partire dagli anni Ottanta, i ricercatori hanno studiato le ragioni di un picco così elevato di casistiche. Hanno notato che proprio in quel decennio si è verificata una convergenza inedita di elementi, quali l’ampia disponibilità della tv via cavo, la larga fruizione dei videoregistratori così come l’aumento di famiglie con più di un televisore in casa. I risultati della loro indagine avanzano in una direzione ben definita: la televisione, specie se ne viene fatto un uso prolungato, può provocare gravi e permanenti compromissioni nel processo delle acquisizioni linguistiche e nell’abilità di agire socialmente (8).
Come se ciò non bastasse, lo smartphone contiene, in aggiunta, ingredienti supplementari in grado di inchiodarci maggiormente e con più insistenza al suo schermo. Se, infatti, per Crary la televisione rappresenta l’unico esempio di dipendenza in cui viene a mancare uno dei requisiti di solito imprescindibili, ossia la gratificazione (9), non accade lo stesso nel caso del telefono. Già negli anni Quaranta del Novecento lo psicologo Skinner introdusse il concetto di “rinforzo” positivo, che non è nient’altro che quello stimolo che aumenta la probabilità della risposta che lo ha preceduto. Si incominciò allora a capire “come le gratifiche influenzassero i comportamenti e generassero forme di auto-addomesticamento” (10), in quanto l’individuo va a ricercare sempre più spesso quel tipo di condotta che lo ha portato verso una ricompensa; arrivando in certi casi a manifestare un comportamento ossessivo-compulsivo. Inoltre, approfondendo gli studi, si realizzò che due sono le componenti chiave per l’insorgenza di una dipendenza, ovvero di un atteggiamento maniacale: la frequenza (del rinforzo) e la sua apparente casualità. Ciò che, detta altrimenti, induce alla compulsione è il carattere imprevedibile delle ricompense o gratifiche; ancora meglio se queste si avvicendano in rapida successione.
Tra coloro che sfruttarono economicamente queste scoperte ci sono senza dubbio i proprietari di casinò. “Mentre le vecchie slot machine garantivano tre vincite ogni cento giocate, quelle di nuova generazione garantiscono fino a quarantacinque vincite ogni cento. […] il maggior numero di vincite avvinghia ulteriormente i giocatori alla macchina, che rimangono a scommettere una quantità di tempo quattro volte superiore rispetto alle vecchie slot meccaniche” (11). L’industria del gioco d’azzardo è servita ad aziende del mercato digitale come Facebook e Google a perfezionare e ad affinare le tecniche per manipolare il nostro comportamento. I like sui social network che altro sono se non rinforzi positivi e tra i più ammaliatori? Per questo motivo Zuboff li considera l’innovazione più importante di Facebook nel campo dell’ingegneria del comportamento (12). “I like sono diventati ben presto oggetto del desiderio, diventando un sistema universale di ricompense […] sono scariche di dopamina a tempo variabile” (13). Ciò che è valido per i post e i commenti sui social, non vale meno quando si tratta di email e di messaggi su applicazioni mobili come WhatsApp e via discorrendo. Nemmeno lì, difatti, siamo capaci di prevedere le tempistiche e la quantità dei contenuti che possiamo o che potremmo ricevere sui nostri dispositivi. Per tutti questi motivi ci risulta difficile staccarci a lungo dallo smartphone, anche quando siamo liberi dal lavoro; le notifiche/gratifiche non riposano mai; in qualunque ora di qualsiasi giorno possiamo ricevere una email, un like, un commento, una risposta, così come perderci l’aggiornamento di uno stato su Instagram.
Dunque, ricapitolando, se i primi due fattori (ubiquitaria presenza e facilità d’utilizzo) accomunano lo smartphone alla televisione, l’ultimo (l’imprevedibilità delle notifiche – che si succedono via social, email, app e quant’altro) lo avvicina ai giochi d’azzardo che si basano esattamente sugli studi stimolo-rinforzo di matrice skinneriana. Lo smartphone appare pertanto come un agente o, quanto meno, un quasi-agente, che disturba e interferisce nel nostro tempo libero, colonizzandolo dall’interno, ossia dal nostro sguardo che fatica a disancorarsi dalla tentazione prepotente del suo schermo.
Stando così le cose, chi, nel 2021, riesce ad avverare la saggia esortazione indirizzata a Lucilio: “Rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto, raccoglilo e fanne tesoro” (14 )?
1) Seneca, Sulla brevità della vita
2) L’indagine sopraccitata è tratta da P. Di Stefano, L’ottavo giorno, Corriere della Sera, 11 ottobre 2014
3) M. Winnick, Putting a Finger on Our Phone Obsession, Dscout, 16 giugno 2016, https://blog.dscout.com/mobile-touches
4) M. Anderson, J. Jiang, Teens, Social Media & Technology 2018, Pew Research Center, 31 maggio 2018
5) Cosa fanno i giovani di oggi nel tempo libero?, laRepubblica@scuola, 25 giugno 2018, https://scuola.repubblica.it/lombardia-bergamo-icsdpgsmsfornovosangiovanni/2018/06/25/cosa-fanno-i-giovani-di-oggi-nel-tempo-libero/
6) La televisione, pur non vantando l’elevato grado di onnipresenza del nostro smartphone, è comunque presente nella grande maggioranza delle abitazioni domestiche (oltre che in tanti locali pubblici). Non è touch, ma non per questo richiede particolari competenze: chiunque, in realtà, pure un bambino piccolo, sa accenderla
7) M. Waldman, S. Nicholson, N. Adilov, Does television cause autism?, NBER, 2006
8) Cfr. anche J. Crary, 24.7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, 2013
9) Ibidem
10) F. Mello, Il lato oscuro di Facebook, Imprimatur, 2018, p. 17
11) Ivi, pp. 55-56
12) S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss, 2019
13) Ivi, pp. 473-474
14) Seneca, Prima lettera a Lucilio