Milton Rogas
La statalizzazione dell’editoria e la costruzione dell’esordiente-famoso
Tra le pagine ‘culturali’ dei giornali, dei blog e dei siti letterari in rete, escono continuamente recensioni di libri; molti lamentano lo scarso spessore qualitativo, senza però che nessuno di questi si sogni di avventurarsi in un’analisi precisa di come funzioni in Italia il mercato editoriale. Come se non esistesse consapevolezza del collegamento che unisce la necessità impellente delle industrie editoriali di coprire le miriadi di copie rese dai librai con un’immissione continua di nuove pubblicazioni – in un meccanismo a crescita esponenziale – e la scarsa qualità culturale delle opere. Una dinamica che spiega fino a che punto l’ipertrofia del mercato librario alla tendenza all’oligopolio, ottenuto attraverso il possesso dell’intera filiera editoriale, sia diventato per le Industrie Editoriali una mera questione di sopravvivenza. Meno logico è il mancato intervento dell’Antitrust in una situazione così chiaramente configurata.
Così, grazie al totale disinteresse della cosiddetta Autorità garante della concorrenza e del mercato, oggi l’editoria giace soffocata dalla stretta di un oligopolio formato da cinque sorelle: Gruppo Mondadori (Einaudi, Piemme, Sperling e Kupfler, Mondadori, Frassinelli, Harlequin Mondadori), Gruppo Rcs (Rizzoli, Bompiani, Adelphi, Marsilio, Sonzogno, Archinto, Fabbri), Gruppo GeMS (Chiarelettere, Bollati Boringhieri, Corbaccio, Garzanti, Guanda, Longanesi, Ponte alle Grazie, Tea, Salani, La Coccinella), Giunti, e Feltrinelli (Apogeo, Kovalski, Gribaudo, oltre al canale televisivo Laeffe).
Un nucleo compatto di aziende, il cui operato ha ormai raggiunto quel punto di non ritorno, oltre il quale l’unica possibilità rimasta è proseguire nella sovrapproduzione di libri – senza più alcun riguardo per la natura culturale della propria attività – nella speranza di uscirne in una qualche maniera (1). Resta da capire questa incapacità (quando non si tratta di malafede) di fare due più due da parte degli osservatori culturali. Probabilmente è il frutto di un antico portato accademico dell’arte per l’arte, attraverso cui stabilire una separazione, in branche isolate e ‘autonome’, di fenomeni intimamente collegati tra loro quali arte, affari, politica, religione, informazione, scienza.
Tale separazione è speciosa e interessata perché mira a disgregare la liquida composizione dei fenomeni della vita in una sorta di divisione del lavoro che giova soprattutto a chi ha bisogno di disinnescare la sempre più esigua colonia di scrittori che vedono nella letteratura uno strumento di conoscenza e di lotta politica. Per cui, il critico letterario non deve parlare di economia e di politica, e chi scrive narrativa deve occuparsi dell’individuo, ma come se i suoi disagi esistenziali fossero soltanto una produzione propria, rigorosamente avulsa dal contesto sociale, come se questi non ne fosse direttamente responsabile.
Il caso di Masterpiece, il talent letterario in onda su Rai3, e, soprattutto, come se ne è scritto, dimostra la permanenza di questo criterio di giudizio.
Non se ne è scritto moltissimo, tuttavia, chi se ne è avvicinato, ha focalizzato la propria attenzione su elementi che di fatto sono e restano marginali, proprio perché focalizzati sulla deriva culturale. Mentre, al contrario, rappresenta una nuova mossa per rimandare il crack economico dell’editoria. Anche perché, della cultura, le grandi case editrici stanno facendo strame ormai da una trentina d’anni: dall’inizio dell’affermazione definitiva delle logiche capitalistiche nel mercato librario. Semmai, le critiche sullo scarso spessore letterario dei concorrenti, sulla loro incultura, sull’esposizione di casi umani disperati di gente pronta a sbandierare le proprie malattie, il proprio disagio psicologico, a versare lacrime, forzando una volta di più il marketing emozionale su cui fa leva il mercato televisivo, contribuiscono a coprire i veri problemi dell’editoria contemporanea, piuttosto che denunciarla.
Infatti, niente è stato scritto sulla capacità di questo nuovo programma, di riproporre, concentrati, due mali tipici dell’economia italiana, nonché di evidenziare, nemmeno troppo tra le righe, le ragioni profonde della deriva culturale in Italia. Tra le quali, la più importante è la necessità del sistema di trasformare la letteratura in un’attività ormai indirizzata al solo intrattenimento per il tempo libero.
È vero che in genere le malefatte dell’autorità sono sempre nascoste, e che sempre ciò che è nascosto è frutto di brighe segrete; così come è vero, con il trascorrere del tempo che tutto aggiusta, il segreto finisce per giacere nella fossa comune della rimozione collettiva, nel pieno interesse delle pratiche politiche ed economiche che tanto contraddicono il dogma del libero mercato. Ma è altresì vero che in Italia la rimozione dei fatti coincide a tal punto con la rimozione del problema, da permettere che quegli intrallazzi, che la convenienza suggerirebbe di praticare sottobanco, in realtà vengono attuate alla luce del sole, senza che emerga dal silenzio un segnale di indignazione – uno sparuto Oibò! dalle valle delle lunghe ombre dell’incoscienza.
Forse, proprio a causa della dinamica che da ciò che è nascosto conduce alla rimozione, oggi non desta alcuna perplessità il fatto che uno dei tre canali dell’ente televisivo di Stato ospiti una trasmissione che porterà guadagni a un’azienda privata quale in questo caso è la Rcs (Bompiani, nella fattispecie), fornendole inoltre una vetrina pubblicitaria unica per importanza. Un altro mistero, infatti, è secondo quale logica di libero mercato il bando per l’assegnazione dell’onore di pubblicare il vincitore della trasmissione non sia stato esteso anche alle tante case editrici serie, per quanto più piccole, dando per scontato che il privilegio toccasse solo a uno dei grandi trust editoriali.
Nel corso delle sei puntate eliminatorie sono transitati, oltre, noblesse oblige, a Elisabetta Sgarbi, direttrice editoriale di Bompiani, cinque scrittori consacrati dal mercato o dal premio Strega. Walter Siti (ultimo romanzo pubblicato da Rizzoli, dopo una lunga militanza editoriale per Mondadori), Silvia Avallone (due romanzi per Rizzoli, di cui l’ultimo appena uscito), Andrea Vitali (ultimo romanzo uscito per Rizzoli, dopo aver pubblicato per Garzanti e Mondadori), Simonetta Agnello Hornby (edita da Feltrinelli, in futuro, vedremo) forse perché non si arrivasse a pensare troppo male, Antonio Pennacchi (ultimo romanzo, appena dato alle stampe, per Rizzoli, dopo lunga appartenenza editoriale in Mondadori).
Di fronte a tanta ‘trasparenza’, cosa impedisce alla mente gretta di pensare che anche il vincitore non sia in realtà qualcuno che fosse già presente nei progetti editoriali di Rcs prima dell’inizio del talent, e che il programma non sia altro che una ribalta costruita apposta per rendere famoso l’autore o l’autrice del romanzo che verrà pubblicato in centomila copie, prima ancora di esordire?
Anche la scelta dei giurati non sembra esclusa dalle convenienze legate al marketing. Andrea De Carlo pubblica per Bompiani, per cui la sua presenza si spiega da sé. Così come è comprensibile che anche Giancarlo De Cataldo, alfiere letterario del Gruppo Mondadori, faccia parte del terzetto di giurati essendone l’ideatore. Più sorprendente potrebbe essere la presenza della scrittrice Taiye Selasi, con un solo romanzo all’attivo e una serie di racconti. Appurato che la qualità delle opere pubblicate non sia tra le garanzie richieste per far parte della giuria di Masterpiece – De Carlo è uno scrittore sentimental-popolare di modesta qualità e De Cataldo, con il suo Nelle mani giuste vanta il merito di avere pubblicato uno dei romanzi più brutti e sconclusionati della storia dell’editoria – nel caso della Selasi, scrittrice a inizio carriera, non resta che pensare a un favore tra due sorelle del potere editoriale. Il suo romanzo, pubblicato dal Gruppo Mondadori è appena uscito, e la presenza della scrittrice facilmente rientra nella routine del marketing. La carta pubblicitaria giocata dall’Industria Editoriale per la quale pubblica.
Il primo male è, dunque, il pubblico che lavora per il privato. Il secondo è il familismo, tipico del capitalismo feudale italiano. E nel caso specifico di Masterpiece, non ci sono molte parole da spendere. È sufficiente l’evidenza dei fatti. Una volta arrivata in Rai l’idea del primo talent letterario del mondo – e una volta affidato il compito di pubblicare il vincitore a Bompiani – in Italia è per tutti perfettamente normale che la produzione venga affidata a Lorenzo Mieli – o, per essere più precisi, alla casa di produzione FreemantleMedia, di cui Lorenzo Mieli è amministratore delegato – essendo il suo famoso padre Paolo il presidente di Rcs libri.
La caccia al lettore in un Paese in cui la lettura, oltre che non essere praticata, è fortemente disprezzata, resta comunque impresa titanica. Le Industrie Editoriali ci si cimentano con la forza della loro ricchezza: oltre all’intera filiera commerciale, posseggono periodici, reti televisive, possibilità di spacciare per momenti culturali passaggi televisivi pubblicitari – “Che tempo che fa” docet – di pagare spazi pubblicitari sulle prime pagine di importanti quotidiani, di retribuire gente infiltrata nei forum di lettura a consigliare i libri di chi li stipendia, di controllare importanti premi letterari.
Difficile perciò pensare che il successo dei talent musicali non facesse venire loro l’acquolina in bocca. La possibilità di pubblicare un esordiente già famoso è un sogno maledettamente realizzabile, in un Paese in cui, benché la gente legga poco, pure ama rovesciare i propri tormenti esistenziali su carta per poi tentare di pubblicarli in veste di romanzo, moltiplicando le copie del proprio elaborato per quante sono le case editrici italiane, e inviarle come disperati messaggi in bottiglia.
Masterpiece nasce certamente dall’idea di inventare un nuovo best-seller e trovare insieme un qualche nuovo talento letterario, il che rimane un’antica abitudine del concetto su cui si basa una casa editrice; ma al contempo rappresenta un’inversione di tendenza rispetto ai vecchi modelli operativi dell’Industria Editoriale. Fino a oggi l’atteggiamento nei confronti della massa grafomane italiana che intasa le cassette postali degli editori è sempre stato di distacco, quasi di ribrezzo. O nasce proprio con l’intento di sfruttare il sogno delle migliaia di italiani che scrivono. Ed ecco che, d’improvviso, questa massa di forzati della speranza diventa un nuovo filone aurifero.
C’è da chiedersi perché le Industrie Editoriali ci abbiano messo così tanto ad accorgersi di avere a propria disposizione una massa tanto ampia di forza lavoro gratuita – quando non, addirittura, disposta a pagare. Ci voleva la crisi di sovrapproduzione per metterci sopra le grinfie e toglierla al groviglio di editori a pagamento, i famigerati, bistrattati e criticatissimi dreamseller, che su quel sogno campano da sempre. In questo sta la funzione di apripista di un nuovo corso, svolta da Masterpiece, nell’attuale congiuntura economica negativa in cui versa l’editoria. Le migliaia di romanzi piovuti sulla sede Rai di Torino parlano chiaro: c’è un esercito di persone disposte a farsi spolpare per pubblicare.
In rete è pieno di campagne contro gli editori a pagamento. Gli inviti a non cadere nella trappola di chi sfrutta il sogno di pubblicare qualcosa con il proprio nome in copertina si moltiplicano. Elenchi di editori privi di una società di distribuzione, che chiedono il cosiddetto rimborso spese, messi al bando, di fronte al filtro professionale che solo la grande editoria può garantire. Sottolineature in rosso per ricordare che i dreamseller speculano guadagnando soldi limitando il proprio contributo alla sola stampa di poche copie.
Da quando le Industrie Editoriali sono entrate con entrambi i piedi nel mercato, i valori sono cambiati, ed ecco che si parla di selfpublishing. All’autore non si chiede più di versare le spese di pubblicazione, bensì di avere tanti sostenitori tra amici e famiglia e, perché no, di fare un investimento economico personale. Anche perché grazie agli acquisti il loro libro potrebbe finire in classifica. La formula rimane quella del Multilevel utilizzato dalle assicurazioni come forma di primo impiego per giovani disoccupati freschi di laurea, messi a caccia di parenti e amici e retribuiti a provvigione. Fino a quando la cerchia di conoscenze si chiude e il giovane è costretto a rimettersi in pista in cerca di un altro mestiere.
Insomma, tornando all’editoria, come dicevano i saggi: se non è zuppa è pan bagnato, ma vuoi mettere. Soprattutto se alle spalle del trucco c’è un marchio ‘importante’ e universalmente riconosciuto. D’altro canto, una trasmissione come Masterpiece, ammesso che ce ne sia l’anno prossimo una seconda edizione, potrebbe arrivare a conferire allo scrittore egoriferito un’autorevole patente di nobiltà. Purché il fenomeno crei profitto.
(1) Per un’analisi più dettagliata della situazione editoriale italiana, cfr. Walter G. Pozzi, Troppi libri: le illusioni perdute, Paginauno n. 35/2013