La produzione culturale ai tempi del capitalismo: Industria Editoriale e Case Editrici, l’analisi mancante nel dibattito Bajani/Ferracuti
Nell’ultima parte del romanzo Le illusioni perdute, Vautrin dice: “La vita nella società somiglia al gioco del Whist. Chi vuol giocare, non deve indagare se le regole del gioco siano giuste, se abbiano qualche valore morale o altre”. Il suo interlocutore è Lucien, poeta puro che, carico di sogni, approda a Parigi con un poema e un romanzo sotto braccio in cerca di un editore e della gloria. Giunto in città entra in contatto con il mondo editoriale e nel giro di poche settimane comprende fino a che punto, preso nel meccanismo commerciale, il libro sia diventato una merce come un’altra. La ‘saggezza’ che il mefistofelico personaggio gli sbatte in faccia serve a ricordargli la prepotenza muscolare dell’economia capitalistica, al fine di spogliare dagli ultimi ornamenti illusori e ideologici la fantasia del giovane.
Il romanzo di Balzac è il riuscito tentativo di mostrare il naufragio di chi, spinto da una morale generalista, alimenta delle illusioni in un mondo in cui anche lo spirito e la morale sono diventate merce di scambio. E Lucien è uno dei numerosi giovani cresciuti nel solco della tradizione eroica del bonapartismo. Ciò che nel corso del romanzo è destinato a scrostarsi pagina dopo pagina è il complesso di volontà ed energie sorte con la rivoluzione francese e dell’ascesa di Napoleone, e distrutte durante la Restaurazione. In sostanza, con il suo romanzo lo scrittore intende tracciare un quadro tragico in cui gli ideali di un’intera generazione vengono azzoppati nell’era del nascente capitalismo.
Nel leggere le parole di Vautrin, vengono in mente i toni e gli argomenti di un dibattito aperto un paio di mesi fa da Andrea Bajani e proseguito da Angelo Ferracuti. Il botta e risposta per quanto sia durato, come si suol dire, lo spazio di una notte, vale la pena di essere recuperato, oltre che per approfondire un tema scottante sulla produzione culturale ai tempi del capitalismo, anche per spendere alcune dolenti considerazioni sul limite in cui si muovono ormai da un paio di decenni le analisi sociali e politiche provenienti da sinistra.
A offrire a Bajani lo spunto della discussione è la lettura del saggio di Giuseppe Culicchia E così vorresti fare lo scrittore?, un trattatello della disillusione sui vari agenti del mondo editoriale, a partire dai sogni di gloria degli scrittori, per poi scendere lungo gli scoli che conducono a una sentina fatta di agenti letterari, parate di premi e apparizioni da Fabio Fazio… Su Repubblica, Bajani si aggancia ai temi trattati dal libro per concentrarsi sulla breve vita dei libro sugli scaffali dell’editoria: “A furia di veder entrare in libreria scatoloni di novità editoriali per poi vederle uscire pochi mesi dopo per far posto sui banconi ad altre novità, forse rinunceremo all’anacronistica divisione tra periodici e libri”. Troppe pubblicazioni, quindi, e poca attenzione alla qualità da parte degli editori lanciati ormai su libri destinati a non lasciare traccia di sé nella storia della letteratura. Al termine della sua disamina, Bajani lancia un appello agli scrittori e all’intellettualità invitando a protestare contro questa deriva, nella consapevolezza che i libri incidono sul tessuto culturale di un Paese ricordando, con una parafrasi di un aforisma di Nanni Moretti, che chi legge male elegge male. E conclude accusando di berlusconismo l’intera editoria.
Un paio di giorni più tardi, Ferracuti recupera sulle pagine del Manifesto l’attacco di Bajani, e denuncia la sovrapproduzione da parte di una “frenetica macchina industriale obbligata a produrre successi, e a vendere libri a tutti i costi che molti di loro [i redattori delle case editrici, n.d.a.] persino detestano: la favoletta del cantante rock, l’omelia del cardinale, il sermone mistico, il romanzo storico ultra-colto e a trama sofisticata del noto intellettuale (che a volte è proprio quello che nel ’63 stanava le Liale), il diario della minorenne adultera…)”; e anch’egli lamenta l’assenza di un blocco culturale negli ultimi venticinque anni di storia culturale italiana ricordando con nostalgia la progettualità che animava gli editori e gli scrittori di un tempo, quando la qualità di un catalogo era per i primi un vanto e sinonimo di appartenenza per i secondi: “[…] come si faceva ai tempi di Vittorini e Calvino all’Einaudi, Bianciardi e Bassani da Feltrinelli, Vittorio Sereni da Mondadori”. A tal proposito, anch’egli dice che sarebbe il momento “di ricominciare a interrogarsi, a sviluppare pensiero critico, e a far sì che questo conflitto si manifesti in modo più eclatante in termini di dibattito pubblico”.
Le considerazioni dei due scrittori, se da un lato sono condivisibili perché hanno il pregio di denunciare l’ipertrofizzazione del mercato di libri il cui unico spirito è l’intrattenimento (che si potrebbe definire: Letteratura della rinuncia) a scapito di una riduzione drastica di una narrativa sociale (di una Letteratura della tensione, cioè) molto letta una trentina d’anni fa, dall’altro risentono della grave mancanza di rimanere solamente delle considerazioni che non sfociano in un’analisi più profonda.
Non si può dire che il saggio di Culicchia non sia brillante e per questo godibile. Peccato che abbia l’enorme difetto di trattare l’intera filiera editoriale senza focalizzarsi sulle ragioni che stanno alla base della sovrapproduzione di libri-immondizia e, di conseguenza, di ignorare il vero ruolo dello scrittore all’interno della bulimia produttiva che infesta il mercato con milioni di copie ogni anno. Un difetto che trasforma il suo saggio in un inutile veleggiare su acque comode, senza buttare l’àncora e fare un tuffo nelle loro profondità.
La critica di Culicchia, non diversamente da quella dei suoi colleghi Bajani e Ferracuti, rivendica per il lettore un diritto (sicuramente sacrosanto, ammesso che il lettore ancora lo rivendichi) alla qualità, insistendo sulla critica dell’attuale ethos editoriale, applicando in questo modo un lacunoso quanto fallimentare criterio di analisi molto in voga soprattutto a sinistra, come semplificato nel vizio di tacciare anche le logiche editoriali con il termine berlusconismo, invece di chiamarle con il loro nome: capitalismo.
Questa formula analitica punta a considerare il capitalismo come un organismo malato che si può guarire curandone gli aspetti negativi, combattendoli agitando con le mani la sola croce della moralità. Come se il capitalismo potesse mai trasformarsi in un organismo armonico, capace di soddisfare le istanze dei vari attori sociali, e non solo quelle di chi detiene il possesso dei mezzi di produzione. Un modo di ragionare che conduce dritto alla chiusura tipica del progressivismo etico, che parla a chi non ha alcun interesse economico ad ascoltare.
Da una simile posizione c’è da chiedersi a quali intellettuali facciano appello Bajani e Ferracuti. Per opporsi seriamente occorre non limitarsi a giudicare la sovrastruttura, ponendo la questione sul piano morale, nella totale dimenticanza della base materiale (economica, cioè) come cuore del problema. È a partire da qui che lo spirito diventa merce. Cavalcando la loro parafasi, si potrebbe dire che chi analizza male, lotta male. La base materiale è una verità inesorabile.
Nei rispettivi interventi, Bajani e Ferracuti si riferiscono ai Gruppi editoriali più potenti, ignorando altri editori, i quali sono a loro volta vittime della corsa alla sovrapproduzione. È probabile che quest’altra editoria non vi partecipi per mancanza di forza economica, più che per una questione ideologica, tuttavia, escluderla dal discorso come se non esistesse, appare funzionale a mostrare l’editoria ‘ufficiale’ come l’unico campo d’azione possibile. Un limite che impedisce ai due scrittori l’analisi di una possibilità percorribile alla ricerca di una soluzione, e che per questo appare strumentale a evitare azioni di rottura in cui avrebbero molto da perdere e poco da guadagnare da un punto di vista di immagine.
Per evitare la stessa impasse, è importante sganciarsi dall’antitesi Grande editore/Piccolo editore, che nella mente del lettore suggerisce una distinzione in termini di valore e di merito. Non per suggerire che la cosiddetta piccola editoria abbia maggiormente a cuore la qualità al momento di scegliere il titolo da pubblicare (purtroppo non è sempre così), bensì per illustrare un diverso livello di azione sul mercato editoriale e nel rapporto con i propri autori. Per questa ragione risulterà più efficace parlare di Industria Editoriale e di Casa Editrice.
Nel settore aziendale della carta e dell’inchiostro, il capitalismo editoriale italiano è rappresentato da cinque Industrie Editoriali, la più potente delle quali è il Gruppo Mondadori, cui, oltre a Mondadori libri, appartengono: Giulio Einaudi Editori, Electa, Piemme, Sperling & Kupfer. Seguono il Gruppo Rcs composto da Rizzoli, Bompiani, Adelphi, Marsilio, Sonzogno e Archinto tra le più note. A ruota, il Gruppo editoriale Mauri Spagnol (GeMS) – controllato da Messaggerie, il più importante distributore italiano – con Chiarelettere, Bollati Boringhieri, Corbaccio, Garzanti, Guanda, Longanesi, Ponte alle Grazie, La Coccinella, Salani e Tea. E per chiudere, Giunti ed Effe 2005, ovvero la holding del gruppo Feltrinelli, che può contare su 103 librerie, un canale televisivo (LaEffe) e il controllo di Pde, il secondo distributore per importanza.
Per comprendere questo fenomeno in atto da decenni non farà male leggere la definizione di Trust tratta dal vocabolario: “Coalizioni d’imprese medianti le quali aziende similari (concentrazione in senso orizzontale) o tra loro di rapporto di complementarietà o strumentalità (concentrazione in senso verticale) si fondono insieme in un complesso economico a direzione unitaria, rinunciando definitivamente alle proprie individualità tecnico-amministrative, al fine di ridurre i costi di produzione e battere la concorrenza con un largo aumento del profitto e un controllo parziale o totale del mercato (si distingue dal cartello, che concerne solo il controllo dei prezzi e delle quote di mercato ma non comporta integrazione); oppure anche costituiscono tra loro vincoli di partecipazione finanziaria”.
È l’esatta descrizione dell’editoria in Italia. Se al controllo dei più grandi distributori e al possesso di buona parte delle librerie e del mercato online, si aggiunge la proprietà di quotidiani e periodici da parte delle prime tre Industrie Editoriali – che, per sopramercato, permette loro di spacciare la pubblicità delle loro pubblicazioni per recensioni scritte da critici a loro libro paga – diviene chiaro che le ‘Cinque sorelle’ agiscono a circuito chiuso sull’intero complesso del mercato editoriale. Si è di fronte a un insieme di vere e proprie aree strategiche d’affari, oggetto di differenziazione da parte di un’azienda capitalistica.
Davanti a una simile forza di mercato, la Casa Editrice non può che soccombere. Quest’ultima è infatti costretta a incaricare della distribuzione e del rapporto con le librerie una società esterna. Un passaggio che nel complesso erode il 65% del prezzo di copertina. A cui vanno aggiunti un 10% per l’autore e i costi di stampa. Quel che resta in mano alla Casa Editrice non è nemmeno il minimo di sopravvivenza, e si può capire che un pari di bilancio a fine anno comporti già un grosso successo.
L’Industria Editoriale, al contrario, grazie al controllo dell’intera filiera, può compensare la bassa marginalità del prezzo di copertina, attraverso la differenziazione e le economie di scala. In più, grazie a meccanismi contabili e finanziari tra società appartenenti allo stesso gruppo, può creare un giro interno di fatture, in cui le copie invendute vengono compensate con l’immissione sempre più massiccia sul mercato di nuovi libri. Non essendoci reale separazione tra gli attori che compongono la filiera, l’Industria Editoriale è in grado di mettere in atto un meccanismo molto simile a un gioco contabile circolare in cui il distributore ha un ruolo quasi esclusivamente finanziario. L’editore può contare per la legge dei grandi volumi su un valore di venduto gonfiato – che comprende sia i libri che saranno effettivamente venduti, nonché quelli che verranno resi – creando in questo modo una cifra ipervalorizzata che entra alla voce ‘attivo’ nel bilancio.
Inoltre, la dinamica dei resi, comporta una compensazione di ordine produttivo, anziché economico. Questo significa che a fronte di una nota di credito, l’editore corrisponde un equivalente in nuove pubblicazioni e quindi di nuove vendite gonfiate, creando un meccanismo a crescita esponenziale, destinato a produrre, attraverso la sovrapproduzione di titoli, una bolla finanziaria, avviata necessariamente prima o poi all’esplosione.
Anche perché l’ipertrofizzazione del mercato fatalmente conduce alla chiusura delle piccole librerie – impossibilitate per questione di spazio a differenziare le vendite (cartoleria, dvd, portachiavi, peluche e vattelapesca…) – riducendo sempre più i luoghi della vendita in un mercato incapace di assorbire la massa di carta prodotta.
Come recita Macbeth, sangue chiama sangue. Insistendo con le parafrasi, in chiave capitalistica si potrebbe dire: soldo chiama soldo. Non importa se effettivo o virtuale, basta che i macchinari girino a pieno regime e producano merce a getto continuo e che il profitto cresca costantemente.
Di questa dinamica, fondamentale, non c’è traccia negli articoli di Bajani e di Ferracuti né tanto meno nel libro di Culicchia. È triste accorgersi di quanto, anche scrittori che si accreditano a sinistra, abbiano interiorizzato il cambiamento del mondo editoriale – avvenuto negli ultimi tre decenni – nel quale pure operano, al punto di non comprenderne le dinamiche produttive. Di fronte a quanto mostrato sopra, si capisce quanto irrazionale e grottesca sia l’indignazione di Andrea Bajani quando chiede: “Dove erano le forme culturali che avrebbero dovuto contrastarlo?”. Viene da rispondere di guardare i cataloghi delle Industrie Editoriali in cui anche il suo nome figura. Buona parte dei giornalisti che scrivono su Repubblica pubblicano i loro libri per il gruppo Mondadori, del quale, non di rado, le pagine culturali dalle quali Bajani ha lanciato il suo J’accuse, sembrano essere l’House organ.
Ecco perché, l’ingenua purezza del loro richiamo a una produzione qualitativa (nel ricordo di Vittorini, Calvino ecc.), rivolto ai manovratori delle Industrie Editoriali, così superficialmente formulato appare totalmente privo di senso della realtà, una lacrimosa nostalgia sentimentale.
Ma quel che è peggio è che dimostra l’inconsapevolezza del ruolo da loro svolto nell’ingranaggio editoriale nei panni di forza lavoro acquistata a solo in un movimento di valore che valorizza se stesso.
Stupisce, quindi, l’indignazione morale di chi constata che il libro oggi sia trattato al pari di un periodico o di una mozzarella; ancor più se giunge da sinistra, da quello spazio ‘politico’ in cui la critica delle regole di produzione del capitalismo dovrebbe rappresentare le fondamenta di ogni analisi. I Calvino e i Vittorini, ma anche i Volponi (da Ferracuti citato), i Moravia e i Pasolini le avevano ben chiare in testa queste regole, e ciò spiega perché un tempo il blocco culturale era forte di fronte a ogni indizio di deriva. Ne capivano le ragioni profonde.
Forse più che leggere l’evanescente saggio di Culicchia, occorrerebbe recuperare gli ‘antichi testi’ e ricominciare a elaborare analisi capaci di andare al cuore dei problemi sociali, politici ed economici. Chissà che allora non fiorisca di nuovo l’intellettualità capace di opporsi al generale degrado, non solo culturale.
Qui non si tratta più di portare avanti la speciosa polemica sull’incoerenza a chi pubblica per Berlusconi e che in altri spazi lo contesta politicamente. Qui si tratta di smetterla di lamentarsi del sistema editoriale, pur facendone parte, e di compiere un’azione concreta: una scelta di campo che non si limiti alle vane parole (pronunciate o scritte che siano). Si tratta di ammettere l’esistenza di un’altra editoria, quella delle Case Editrici impegnate ogni giorno a creare il proprio mercato tra le maglie di un sistema devastante. Delle Case Editrici in cui ogni singolo libro viene promosso come parte di un patrimonio non esclusivamente economico, bensì parte della valorizzazione di un catalogo con una linea ben definita e immediatamente riconoscibile; in cui i libri bassissimo costo, utile alla produzione di una merce-libro la cui unica funzione è quella di compensare il flusso di rese della pubblicazione che lo ha preceduto, oltre che a mantenere alto il fatturato dell’Industria Editoriale che li edita.
“Quando è uscito il mio libro,” scrive Ferracuti, “durato anni di fatiche, ho pensato davvero quello che scrive Bajani, cioè che era diventato un periodico. Vive tre mesi, poco più, oggi, un’opera di letteratura, come un qualsiasi prodotto da banco che si affida al mercato, poi scade per sempre […] poi il ciclo s’interrompe, non c’è più tempo, c’è già un altro autore che cerca il suo pubblico, a meno che non lo tieni in vita il tuo libro, come sto facendo, girando come un pazzo per l’Italia. Ma è un mercato sempre più al ribasso, dove in cima alle classifiche ci sono libri che mi vergognerei di avere scritto”.
Difficile dar torto allo scrittore a patto di aggiungere che l’artificiosità legata a una finalità voluttuaria, fatalmente finisce per servire la natura parassitaria delle classi dirigenti tout court. Se anche il lettore viene piegato all’intrattenimento o portato a riflettere su dinamiche ombelicali, il potere ha fatto bingo.
Priva com’è di una critica al fattore produttivo e ai veri interessi del suo editore (Einaudi, ovvero Mondadori, ovvero Berlusconi), la denuncia di Ferracuti e di Bajani ripiega inevitabilmente su se stessa. Ricorda lo smarrimento dell’alienazione, come Marx lo ha descritto a proposito dell’operaio a cui vengono alienate la materia prima e gli strumenti di lavoro; a cui viene strappato il frutto del lavoro, per vederlo inserito in un ciclo di produzione, il cui obiettivo è la produzione di un profitto, il cui processo vitale consiste non finiscono fuori catalogo; in cui chi pubblica Letteratura della tensione può tracciare una netta linea di confine tra sé e la dittatura del buon senso fatta di intrattenimento, di Fabio Fazio, di analisi ombelicali e fuffa varia; in cui il libro è un rapporto tra i propri contenuti e i lettori, e non un mezzo con cui compensare le rese al fine di tenere alti i profitti (virtuali o meno). La scelta in questo mondo sotterraneo, non manca. Ma occorre comprendere – anche rinunciando a qualche privilegio che sicuramente la vita nella Industria Editoriale regala in termini di visibilità e di prestigio (per quanto solo apparente) – che soltanto costituendo una vera autonomia da parte di chi scrive Letteratura della tensione, gli scrittori possono tornare ad ambire a recuperare una funzione politica di peso. Esiste un nobile riferimento storico che potrebbe fungere da esempio.
Risale proprio all’epoca della crescita della letteratura commerciale, quella descritta da Balzac nel già citato Le illusioni perdute. Durante quel periodo di fermento in cui il libro si stava trasformando in merce, Baudelaire scelse una Casa Editrice, Poulet-Malassis, per pubblicare I Fiori del Male, rifiutando le sirene dell’Industria libraria Michel Lévy che gli assicurava più soldi e maggiore diffusione. Una scelta che non voleva essere solo una superficiale polemica, bensì fortemente ideologica, essendo Poulet impegnato a favore della giovane poesia e pienamente identificato con gli interessi dei suoi autori. La risposta più ovvia di Bajani, Culicchia e Ferracuti al sistema che criticano, potrebbe essere la stessa: alzarsi da quel tavolo da gioco e andarsene. In fondo, se lo ha fatto Baudelaire…