Felice Bonalumi
(2ª parte) – Leggi la prima parte qui
La politica e l’arte della menzogna
“La menzogna riesce a conquistare regni senza fare la guerra e talvolta proprio perdendone una; può dare e togliere lavoro, può ridurre una montagna a un mucchietto di terra e fare di un mucchietto di terra una montagna.”
Jonathan Swift, L’arte della menzogna
Non c’è bisogno di ricerche sociologiche o quant’altro: la politica è il regno della menzogna. Così pensano tutti e, se i politici sono in nutrita compagnia, a loro spetta il primato. Ma quale primato? Numerico? Vale a dire i politici sono nel mondo talmente tanti, dagli amministratori locali in su, che inevitabilmente la massa di bugie che dicono è ineguagliabile. Oppure un primato qualitativo? Insomma, la bugia più grossa? La memoria recente corre, come esempio, alle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, mai trovate, ma di quella menzogna folle paghiamo ancora tutti le conseguenze. Questa premessa può sorprendere il lettore, eppure c’è un settore in cui la segretezza e, di conseguenza, le possibilità di mentire non solo sono parte integrante del lavoro, ma sono altresì al riparo da ogni controllo, per lo meno quello popolare come avviene nelle democrazie: è il settore della diplomazia e, più in generale, della politica estera.
Nessun cittadino ha da obiettare se le trattative si sono svolte segretamente e viene a conoscenza solo del risultato, mai del modo in cui lo si è raggiunto. Di più, davanti all’affermazione per cui quanto si è fatto è in nome della ragion di Stato ogni obiezione o dubbio decadono e l’accettazione è puramente passiva. In questo senso si può sostenere che la ragion di Stato è la legalizzazione della menzogna. Lo si può dire in altro modo: se la politica è comunque il luogo in cui la deliberazione è comune e pubblica, diplomazia e politica estera sono i luoghi della non-politica in quanto il cittadino non è chiamato a deliberare e non partecipa a nessuno dei momenti che caratterizzano questi settori. Torno ai politici con una domanda: come mentono? Nulla di nuovo sotto il sole, viene da dire, e le tecniche sono immutate.
Quello che è cambiato è l’impatto emotivo che oggi inevitabilmente passa attraverso i media e ogni politico deve curare la propria immagine che acquista subito una dimensione pubblica e spesso universale. Un politico che non buca lo schermo ha scarse possibilità di fare carriera e se non usa i nuovi media, twitter über alles, è irrimediabilmente vecchio. Per quanto importante, l’immagine comunque non è tutto e le parole rimangono al centro della vita di un politico. Forse l’esempio recente più significativo in questo senso è dato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel: da antipatica castigamatti della Grecia a eroina dei migranti siriani, da antipatica a paladina della solidarietà. Riformulo la domanda: come mentono i politici con le parole? La lista non è neppure particolarmente lunga.
- Promesse che si sa già non potranno essere mantenute: su questo terreno tuttavia la situazione è ben più complessa di quanto appaia. La psicologia afferma che le promesse non servono al politico, ma al cittadino: il cambiamento insito nella promessa è un compenso alle insoddisfazioni dell’elettore. Se quest’ultimo intuisse che la promessa è realizzabile avrebbe paura del cambiamento! L’unica condizione perché la promessa sia credibile è la sua continua riproposizione, una sorta di mantra che se trova anche un solo numero, soprattutto in economia, che comincia con lo zero ma ha un segno più davanti è immediatamente e automaticamente confermata. Naturalmente se le promesse non mantenute sfociano nel rancore è possibile una reazione, anche violenta, e la storia, anche recente, non manca di esempi.
- Smemoratezza, anche in questo caso del politico e dell’elettore. Per quest’ultimo il problema è di facile soluzione: credere a come il politico di turno viene presentato, indipendentemente da tutti i fatti che porterebbero a metterne in forse il ruolo e l’azione. Quante volte il nuovo politico si è presentato come una sorta di ultima spiaggia e con il motto o me o il diluvio? Basta fare l’esempio degli ultimi tre presidenti del Consiglio italiani per avere conferma di quanto la storia insegni… e di quanto la memoria dell’elettore si perda con facilità. La smemoratezza del politico è più sottile: risponde al semplice criterio dell’utilità e si fonda sul mutato clima internazionale, nazionale e via dicendo. In pratica il politico affermerebbe di non essere cambiato, ma di avere cambiato idea o proposta per il bene comune in quanto il contesto è mutato. Il tema dell’immigrazione ben si presta ad avere poca memoria e chi ieri voleva bombardare gli immigrati in mare oggi afferma la necessità di accoglierli, magari sottolineando condizioni e distinguo.
- Il mutato contesto è l’arma segreta dei politici e la negazione del passato è uno dei colpi vincenti. Con due varianti: la negazione del passato storico e del proprio passato politico. Per la prima c’è solo l’imbarazzo della scelta: si può iniziare dal ministro dell’Educazione inglese, Michael Gove, che, a proposito della prima guerra mondiale, ha esortato gli insegnanti a presentarla in una visione patriottica e non per quello che è stata, vale a dire un bagno di sangue. Oppure il Primo ministro ungherese Viktor Orbán che ha derive chiaramente antisemite nel suo sogno di riscrivere la storia e di resuscitare il grande impero finito con la Grande Guerra.
Non si deve assolutamente credere che queste operazioni siano senza conseguenze, sia perché normalmente partono dai libri di testo scolastici e dunque permeano la visione di chi sarà domani elettore, sia perché la finalità nascosta è dimostrare una continuità storica che confermi che la società di cui il politico è rappresentante primo è la società naturale. Per quanto riguarda il livello personale si può aprire una rubrica con le tante migrazioni di politici che, eletti in un raggruppamento, durante la legislatura passano a un altro e spesso opposto. È il fenomeno ben noto del trasformismo che ha interessato 235 rappresentanti del popolo italiano (119 alla Camera e 116 al Senato) in 23 mesi, con i governi Letta e Renzi, numero che comprende anche le espulsioni. Sia chiaro: tutto legale, ma la motivazione è pressoché unanime e si appella alla libertà e all’autonomia di cui gli eletti godono e che, ovviamente, usano a favore degli elettori. - La mutilazione del contesto, vale a dire il riportare non l’intera frase di un avversario, ma una parte soltanto, facendola partire o troncandola in un punto che evidentemente porta a dare ragione a chi parla. Difficile da individuare il più delle volte, in quanto si dovrebbe avere a memoria la frase incriminata e, dunque, facile da usare. Può bastare questa considerazione: la politica fatta di polemiche a cui siamo da anni abituati, richiederebbe una sorta di enciclopedia portatile per cogliere la mutilazione di una frase da parte di un politico contro un altro!
La massima efficacia questo metodo la raggiunge con le immagini ed è usatissimo: ogni volta che ci viene presentato un avvenimento in un telegiornale o in una trasmissione televisiva di cronaca dovremmo chiederci cosa si vedrebbe da un’altra angolazione! - Il sovvertimento della realtà e la costruzione di fatti menzogneri rientrano, come casi limite, nella manipolazione del contesto. Per questo è necessaria una strategia e l’intervento di più attori e il politico spesso è solo il portavoce. Il metodo è di sicuro effetto: la vicenda legata a Dino Boffo, ex direttore dell’Avvenire, è emblematica. Ma la storia d’Italia è costellata di misteri, che hanno avuto un sovvertimento o peggio nella comunicazione soprattutto iniziale e la strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 con dichiarazioni ai più alti livelli istituzionali come esempio può bastare.
- Rimozione della realtà: quante volte si sente l’espressione danni collaterali? O centri di accoglienza per gli immigrati? Naturalmente la realtà è profondamente diversa, ma queste espressioni rassicurano i cittadini perché creano comunque una distanza fra loro, i bombardati e i migranti, e noi.
- Ultimo, ma non di poca importanza, è sceneggiare la realtà. Assicura un passaggio televisivo, se va bene un invito a un talk show. Basta sventolare un cartello in un’aula parlamentare e il messaggio diventa generico (al centro non c’è il discorso politico, c’è la protesta) ma ci si garantisce la pubblicità.
Accanto a queste categorie evidentemente generali, anche l’analisi del linguaggio non presenta una grande varietà.
- L’uso dei luoghi comuni mette al riparo il politico da sorprese con il proprio elettorato proprio in quanto si ragiona per astrazioni (tutti gli immigrati rubano il lavoro agli italiani). La pericolosità del luogo comune tuttavia non sta tanto nella sua astrattezza, quanto nel fatto che chiude, ancora prima che si apra, qualsiasi discorso: è l’inizio e la fine di quanto c’è da dire sull’argomento. Va da sé che lo Stato è sempre inefficiente, spesso la colpa è di tutti (quindi realiter di nessuno) e sui reati ambientali, per esempio, questa sembra essere la regola. E se i fatti dicono qualcosa di diverso? Nessun problema, i fatti così come riportati dai media sono sempre politicamente indirizzati perché la faziosità è inevitabile.
I luoghi comuni sono il veicolo principale del discorso politico perché stigmatizzano un problema e rassicurano l’elettore dividendo in modo semplice (e ovviamente banale, ma questo è esattamente ciò che non importa) il mondo: di qua i buoni, cioè noi, di là i cattivi, cioè loro. - Sottolineare un elemento irrilevante in un contesto: retoricamente si può forse definire una sineddoche, la parte per il tutto. Naturalmente la parte non solo elimina il tutto, ma in quanto positiva fa diventare positivo anche il tutto. Un esempio? Supponiamo che un politico con tanti processi, alcuni decisamente pesanti, altri, per così dire, leggeri, venga assolto in uno di questi ultimi. Questa diventa la notizia. Non importa se in realtà è giudicato colpevole ma impunibile per via della legge sulla prescrizione: il messaggio che passa è l’onestà del politico e, si può aggiungere, l’accanimento della magistratura. Dal punto di vista tecnico il messaggero, in questo caso il giornalista, ha imparato e ben applicato la retorica servendo una sineddoche!
- L’iperbole merita un posto non secondario perché nella sua esagerazione catalizza tutta l’attenzione. Lo scontro di civiltà è probabilmente l’iperbole a cui siamo stati più abituati negli ultimi anni, ma per restare nei confini nazionali il disegno di legge Fornero fu presentato dall’allora presidente del Consiglio Mario Monti come “un impegno di riforma di rilievo storico per l’Italia”. Prima di lui le riforme della giustizia dei precedenti governi erano “epocali” e Grillo ha preannunciato una “rivoluzione della felicità”.
- Forse il premio come miglior tranquillante spetta all’ossimoro, e guerra umanitaria ne è il capolavoro. Ma si può dire che la storia d’Italia sia costellata di ossimori e forse più che una figura retorica è il segnale delle nostre contraddizioni: convergenze parallele, partito di lotta e di governo, corruzione legittima, meravigliosa schifezza racchiudono pezzi di storia d’Italia.
- I politici prendono poi alla lettera la parola eufemismo = risuonare bene, quindi parlare bene, e infatti non ci sono più poveri ma persone disagiate, persone in condizioni economiche modeste, quelli che viviamo sono anni di pace e sempre durante una crisi la luce si intravede in fondo al tunnel. In questa categoria farei rientrare anche il famoso teatrino della politica e, per continuare con i presidenti del Consiglio, l’attuale usa questa figura retorica con una certa frequenza nei suoi discorsi.
- Rimane l’elusione dell’argomento, ma in questo caso più che esempi rimanderei al Generatore di Discorsi Politici Stronzi (www.phibbi.com/extra/gdps.php) dove ognuno può esercitarsi. Un politico preparato naturalmente ha la capacità di creare effetti linguistici particolarmente ricercati con l’uso reiterato di parole, con metafore accattivanti, con un uso oculato di simboli e, al limite, di nonsense.
Tuttavia la domanda finale è: necessariamente la politica è il luogo della menzogna? Nell’Atene del V secolo a.C., dove la democrazia era fondamentalmente una democrazia diretta, ovviamente da coloro che erano cittadini, si posero alcuni problemi:
- se tutti hanno diritto di parola, tutti devono avere per lo meno le stesse conoscenze degli argomenti che vengono trattati in modo da distinguere il vero dal falso;
- se tutti i cittadini hanno uguale diritto all’esercizio del potere, il problema vero/falso diventa ancora più urgente sia da parte di chi governa sia da parte di chi è governato;
- se tutti nell’agorà possono parlare, il discorso di ognuno deve essere chiaro proprio per distinguere il vero dal falso.
Le riflessioni di Platone nella Repubblica e nelle Leggi partono sostanzialmente da questi problemi. E in una democrazia rappresentativa? Una ulteriore domanda: qual è lo scopo personale, reale, effettivo del politico? Evidentemente essere rieletto e per raggiungere l’obiettivo deve necessariamente dire quanto il suo elettorato vuole sentirsi dire, in termini di promesse e di interpretazione di ciò che accade. Questo non significa, altrettanto necessariamente, che il politico dica menzogne, ma che la verità è, per così dire, piegata all’utilità pratica del politico, essere cioè rieletto. Solo un politico dal grandissimo carisma può permettersi di dire la verità perché allora sarà seguito proprio per il suo carisma, anche se esempi nella storia di uomini carismatici che hanno trascinato se stessi e il proprio popolo nell’abisso non mancano.
Credo, almeno in teoria o quasi, ci sia una sola via d’uscita: un elettorato attento e preparato, capace di distinguere o, per lo meno, capace di porsi davanti al politico con l’habitus mentale di ricercare il vero e mettere alla berlina il falso. Una cultura politica diffusa può o potrebbe essere un margine contro la menzogna. Non vedo altre armi, pur sapendo che la forza è sbilanciata dalla parte del politico e per questo ho iniziato citando politica estera e diplomazia.
Per altro, quanto qui scritto in realtà l’aveva già detto Machiavelli nel 1513 in modo sintetico e non mi pare che la situazione sia da allora culturalmente cambiata: “Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede, per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini; et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà”.