Utopie e distopie di Nitin Sawhney
Un tempo esistevano le utopie. Nella maggior parte, dietro di loro il mondo era come un’adolescente che smaniava per crescere. Il fondamento dell’utopia, di qualunque utopia, è un mito ottimistico in cui tutto andrà bene. Succede però che alcuni narratori cominciano a pensarla in modo decisamente diverso, a dispetto del generale ottimismo della società. Qualcuno ai loro tempi li ha chiamati bastian contrari, menagrami senza speranza. Eppure, alla prova dei fatti, sono stati visionari esattamente come i loro colleghi che immaginavano un’umanità affratellata dalle magnifiche sorti e progressive. Se dovessimo sforzarci di trovare il buono in ogni situazione, dovremmo dire grazie a questi narratori che ci hanno dimostrato un’altra faccia del potere creativo dell’immaginazione. Grazie perché, guardandosi indietro, potremmo legittimamente dire che ogni loro opera è stata un monito.
Facciamo i conti con la storia: la rivoluzione industriale è finita o sta per finire e i sussulti ottimistici del positivismo sono le ultime manifestazioni di un mondo in espansione. Dalla Terra alla Luna (1865) di Jules Verne è sicuramente visionario perché anticipa di cent’anni l’Apollo 11. Ma è altrettanto visionaria Mary Wollstonecraft Shelley che vent’anni prima, ne L’ultimo uomo (1826) ci racconta un futuro negativo in cui l’umanità è stata colpita da una pandemia di peste che ha risparmiato solo pochi individui. A covid più o meno concluso, bisogna dare a ognuno il suo e riconoscere il contributo visionario della scrittrice, un bel po’ in anticipo rispetto a La strada (2006)di Cormac McCarthy e a il Jack London de La peste scarlatta (1912).
Il mondo dei lettori, ma volendo anche quello dei politici, si accorge che la letteratura di anticipazione – così veniva una volta chiamata la fantascienza – ha l’occhio lungo in avanti, ma non sa o non vuole utilizzare il monito. Pensate che persino un insospettabile come Ippolito Nievo (sì, proprio lui, quello delle Confessioni di un italiano) ha scritto nel 1860 una Storia filosofica dei secoli futuri, nella quale l’autore immagina la storia d’Italia dal 1860 al 2222. L’opera si presenta come un ibrido tra la pseudo-storiografia, il trattato politico-filosofico, la fantascienza, la satira e la fantapolitica: viene anticipata l’Unità di Italia e finanche una federazione europea; si prevedono grandi scoperte scientifiche e invenzioni tecnologiche; ma su tutto questo radioso futuro incombe, fatale e inevitabile, l’ombra di guerre catastrofiche e sanguinose. Il seguito è sotto gli occhi di tutti: l’utopia rovesciata, ovvero la distopia, ha prodotto e continua a produrre narrazioni catastrofiche, una peggiore dell’altra, dal Tallone di Ferro di London a 1984 di Orwell, da Fahrenheit 451 di Bradbury a La svastica sul sole e L’uomo nell’alto castello di Dick – e questo solo per citare i più famosi.
Preso da una botta incontenibile di ottimismo il vostro recensore ha pescato nel passato prossimo un bel CD che parla esattamente di tutto questo. Si tratta di Dystopian dream di Nitin Sawhney, uscito nel 2015. Sawhney, per chi non lo conoscesse, è un grandissimo talento uscito dalla stessa Inghilterra meticcia e multiculturale che ha sfornato dalla seconda metà degli anni ‘90 una legione di musicisti e compositori indiani, pakistani, bangladeshi e srilankesi di seconda, terza e quarta generazione: suoni antichi come tabla e sitar declinati in salsa elettronica con ritmiche vertiginose e voci altrettanto da capogiro. È stato il momento creativamente felice dell’Asian Undergound che ha portato alla ribalta fermenti straordinari come Transglobal Underground, Asian Dub Foundation, State of Bengal, Apache Indian Bally Sagoo e album seminali come lo stra-famoso Anokha-Soundz of the Asian Underground (1997), parata di stelle della diaspora asiatica, arrangiato e diretto da due geniacci dell’elettronica che sono anche eccellenti musicisti e orchestratori come Sweety Kapoo e soprattutto Talvin Singh, già tablista al fianco di Bjrrk e poi decollato tra le stelle fino a vincere un Mercury Music Prize nel 1999.
È il momento della speranza: l’Inghilterra coloniale potrebbe vivere una nuova giovinezza all’insegna del multi-culti, dell’integrazione e coesistenza pacifica in cui gli artisti delle Indie Orientali e Occidentali si affermano come artisti tout court e non più come prodotti esotici. È il momento in cui la stella asiatica Nusrat Fateh Ali Khan, la voce più alta e luminosa del qawal sufi pakistano, entra dritto dalla porta di Hollywood nelle colonne sonore di Natural Born Killers e L’ultima tentazione di Cristo, scuotendo le budella degli spettatori occidentali con picchi sonori di elevazione e disperazione che mai e poi mai, specie dopo il micidiale remix di Mustt Mustt fatto dai Massive Attack. Giamaicani e bengalesi si danno la mano da parti opposte del mondo coniugando le ritmiche dilatate e profonde del Dub con le scale ellittiche e visionarie dei Raga, entrambi speziati dalle rime pacate ma abrasive di Lynton Kwesi Johnson – Inglan is a bitch èun inno identitario per tutti gli immigrants delle ex colonie.
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Nitin Sawhney nasce nel 1964 a Rochester, nel Kent, da genitori immigrati dal Punjabi e poco ortodossi visto che lui è khsatrya e lei brahman, due caste formalmente incompatibili ma buttate al vento in nome dell’amore. E già questo la dice lunga sull’educazione del nostro. Nitin è giustamente orgoglioso della propria eredità culturale indiana (1): “È importante per me in diversi modi”, dice. “Spesso ho dovuto sopprimerla crescendo per non farmi prendere a calci in testa. Ma conoscere la bellezza della musica classica indiana è stato un viaggio fantastico”. I razzisti del National Front lo hanno perseguitato e malmenato per lungo tempo anche a scuola, dove era l’unico figlio di immigrati. Quando è cresciuto ha imparato a suonare la chitarra da autodidatta e ha provato a suonare le scale degli album di Ravi Shankar posseduti da suo padre. “Ricordo che mio padre mi ha fatto ascoltare questo disco di sitar e gli ho chiesto se suonava davvero così velocemente o se fosse una specie di trucco”, dice. “Quando mio padre mi ha detto che in realtà suonava a quella velocità, sono rimasto sbalordito”. Se è stato un momento determinante nell’educazione musicale di Sawhney, non avrebbe mai potuto immaginare che quarant’anni dopo sarebbe stato al capezzale di Shankar. “Eravamo solo in tre o quattro nella stanza e io lo tenevo sottobraccio mentre moriva. Ricordo di aver pensato: «Questo è il braccio che mi ha ispirato a suonare quando avevo sette anni». Realizzare che quel braccio non aveva più vita è stata un’esperienza travolgente”. Nitin produce e scrive a quattro mani l’album della figlia di Ravi, cioè Anoushka Shankar (nominato ai Grammy nel 2013), Traces of You, che contiene la traccia Fathers, dedicata ai padri dei due musicisti, entrambi deceduti durante le registrazioni dell’album stesso. Sawhney è ora il padrino del nipote di Ravi, che di nome fa Zubin, omaggiando così il direttore d’orchestra parsi Zubin Mehta, grande amico di Pandit Ravi.
Eppure, mentre la musica Hindustani ha sempre avuto un posto centrale nel suo lavoro, è solo uno dei tanti filoni. “Non sono un musicista classico indiano, sono un compositore”, dice. “Ma ho una comprensione delle regole stabilite nei ragas e nelle misure tal che mi permette di creare qualcosa che funzioni armonicamente con la musica indiana. In seguito sono diventato un musicista jazz e sono entrato in molti stili diversi. Ma per me sono tutti ugualmente preziosi e interessanti, in termini di costruzione di una tavolozza musicale da cui attingere e creare immagini sonore”.
L’eclettismo è stato rafforzato quando ha partecipato al programma Desert Island Discs di BBC Radio 4 all’inizio di quest’anno: ha rivelato la musica senza la quale afferma di non poter vivere. Per coloro che si sono persi l’apparizione, le sue otto scelte la dicono lunga sulle influenze sorprendentemente diverse in gioco nel suo lavoro: Paco de Lucía, il remix di Massive Attack di Mustt Mustt di Nusrat Fateh Ali Khan, Joni Mitchell, John McLaughlin e Shakti, Ennio Morricone, Prélude à l’Après-Midi d’un Faune di Debussy, Oumou Sangaré e il brasiliano Seu Jorge. Ecco: l’utopia è al lavoro, e non solo per Nitin.
Il suo culmine arriva nel 1999 quando nel settembre Sawhney esegue per la prima volta il nuovo album Beyond Skin nella sua interezza alla Royal Albert Hall di Londra, ed è una data importantissima perché forse per la prima volta in questo tempio della musica – un’enorme cassa di risonanza mondiale per un artista – le questioni di identità, nazionalità, etnia e religione affrontate dall’album vanno in scena con un’urgenza e una forza dirompenti. “È stato un album importante per me, che non solo racchiudeva la mia identità, ma parlava del paradosso e dell’ipocrisia di come percepiamo la nazionalità e la religione”, dice Nitin. “Tracce come The Immigrant sono altrettanto salienti ora, dato lo tsunami di propaganda nei media mainstream, che ci fa credere che l’immigrazione sia una brutta cosa”. Chiaramente non è il solo a pensare che il messaggio di Beyond Skin risuoni forte oggi nel 2023 come vent’anni fa: i biglietti per il concerto alla Royal Albert Hall andarono esauriti in un solo giorno. “Beyond Skin è arrivato in un momento in cui sembrava che ci fosse un senso di transizione e un cambiamento in meglio”.
In effetti, Beyond Skin potrebbe essere più nettamente rilevante per i nostri tempi di quanto lo fosse alla sua uscita nel 1999, quando il mondo era in preda a un breve momento di ottimismo pre-millenario in cui sembrava che stessimo diventando persone più tolleranti in una società più umana. Quell’illusione è stata rapidamente infranta dagli eventi dell’11 settembre e sarebbe difficile non concludere che da allora abbiamo fatto un enorme passo indietro. “Ho sempre avuto un modo di pensare fondamentale: ogni essere umano ha lo stesso valore. Sembra così ovvio. Ma il mondo è diventato così aggressivamente politicizzato in modo pregiudizievole – sia attraverso l’America di Trump o la Brexit o qualsiasi altra cosa – che la gente in qualche modo pensa che ora sia legittimo dire che ogni essere umano non ha lo stesso valore”. È solo per un caso che siamo nati in Spagna o in Francia, o in Cina o in un aereo o in un transatlantico, o in un campo in Asia Minore, afferma Nitin. “Certo che puoi essere orgoglioso della tua cultura”, sottolinea, “ma la nazionalità e la religione sono qualcosa in cui si nasce per caso. Ho sempre trovato sorprendente che ci permettiamo di essere definiti dal caso piuttosto che dalla nostra esplorazione dell’universo”.
Ecco, la distopia è all’opera. E che la narrazione del mondo sia distopica di per sé è testimoniato dal fatto che non esistono più, a livello di cultura di massa, delle narrazioni puramente e semplicemente utopiche, che disegnano un futuro migliore della realtà presente. Persino Star Trek, la serie fondamentalmente più ottimista della tv USA, ha virato decisamente verso l’oscurità e l’incertezza. E se Nitin ha registrato puntualmente le oscillazioni della società in cui viveva, questo album del 2015, Dystopian Dream, suona oggi come un sinistro campanello d’allarme. È vero che c’erano state la morte di Pandit Ravi Shankar e quella di suo padre subito prima – possiamo sicuramente comprendere quanto Nitin si sia sentito perso e perché abbia voluto registrare questa sensazione parlando di sogno distopico. Oggi quel sogno distopico non è cessato e suona sinistramente attuale. La tendenza è quella alla dispersione anziché alla coesione.
Dystopian Dream, peraltro, è stato pensato come un’opera multimediale, in cui la musica lavora in perfetta sincronia con la coreografia dei danzatori Honji Wang e Sébastien Ramirez. Ogni brano, utilizzando ottimi solisti vocali come Eva Stone, Stealth, il rapper Akala, la fantastica Natasha Atlas, parla di temi diversi e attuali: perdita, isolamento, confusione, frustrazione. L’intera serie di immagini converge sul senso di un lutto non ancora digerito e forse, chissà, non digeribile, mescolando abilmente immagini prese dall’immaginario di tutti, dai cartoni animati di Betty Boop a scene di Metropolis di Fritz Lang. E poi i singoli brani, che funzionano benissimo anche senza le immagini, dato che da sempre Nitin li ha dotati di un’intensa qualità visiva. Tutti i brani, nessuno escluso, vibrano come le bolle di sapone della copertina. Hanno sì una loro dimensione in termini di melodia e di ritmo: Timetrap mi parla di un loop emozionale da cui non si esce, come il volo di un grosso insetto mimato dal violoncello; Scape di volo breve che si infrange contro le pareti di una bolla di sapone; Dark day e Keep the light on sono blues abrasivi e cupi per la voce di Joss Stone, che invitano a far sopravvivere la luce anche nelle tenebre, che sono arrivate fino all’alto dei cieli; e così pure When I’m gone per la voce di Stealth, mentre Dystopia con la voce di Akala è l’incombere minaccioso di un ‘sotto attacco’; Days r Gone con Eva Stone suggerisce uno spazio confortevole solo nella memoria.
“Se mi chiedi cos’è una distopia, penso che ci troviamo in un mondo guidato da persone che normalizzano le cazzate. Ci stiamo muovendo verso un mondo sgradevole. Le cose che vedo e leggo sono disgustose […] Ti sembra di non poterti fidare di nessuna delle persone di cui dovresti fidarti.” Vorrei potergli dire che lo aspetto per celebrare la fine di tutto questo. Chissà.