A seguito degli attentati terroristici sul suolo statunitense avvenuti l’11 settembre 2001, si è introdotta nel dibattito politico occidentale la tematica a dir poco spinosa dell’islamofobia, che pare esser diventata una costante della destra populista. L’area del radicalismo di destra, però, non si è allineata appieno a tale posizione, dividendosi fra chi vede nell’Islam e nell’immigrato arabo-musulmano il nemico prioritario e chi, di contro, vede l’ebreo come antagonista, in quanto creatore della modernità mondialista, e dunque si spinge a esser filo-arabo. Senz’altro, alla base di questa tentazione dell’Oriente, cioè dell’attrattiva che l’Oriente e l’Islam in particolar modo esercitano da sempre su vasti settori della destra radicale, vi è la dicotomia tra progresso/modernità da un lato e mondo della tradizione dall’altro.
Cosa crea, nel concreto, tale contrapposizione? Per capirne le radici è il caso di partire là dove è forte la presenza di islamici, la Francia.
È in tale Paese che il Front national, una delle più importanti formazioni nazional-populiste, si è distinto fin dagli anni Ottanta come partito xenofobo, fieramente occidentalista – elogiando la grandeur francese, ottenuta con il colonialismo – e critico verso gli immigrati arabi. Ma nell’agosto 1990, quando le truppe irachene del leader baathista Saddam Hussein entrano nel Kuwait, dando inizio a una crisi che culminerà in un conflitto, a soli appena dieci giorni dall’inizio delle ostilità il leader Jean-Marie Le Pen dichiara non solo di opporsi alla guerra americana (come del resto fanno anche il Pcf e i gaullisti storici), ma di sostenere l’Iraq nel progetto di annettersi lo Stato contro Usa e Israele, trovandosi dunque in totale sintonia con Saddam Hussein, l’ultimo grande leader nazionalista arabo, novello Nasser dei giorni nostri. Lo dimostrano numerosi articoli pubblicati in quel periodo sulla stampa lepenista, scritti con il taglio antisionista di destra – diverso ovviamente da quello di sinistra perché non antimperialista e anticapitalista ma semplicemente antiebraico e complottista –; analisi che denotano una profonda avversione per le tesi di Francis Fukuyama sulla end of history e il disegno unipolare statunitense dopo il crollo del socialismo.
Jean-Yves Gallou, ex esponente del Grece (la nouvelle droite) e animatore del Club de l’Horloge transitato nel Front national in ruoli chiave, descrive così i motivi della guerra del Golfo: “Se dietro dietro la crisi ci sono gli interessi anglo-americani, ci sono anche quelli dello Stato di Israele. […] C’è nella crisi del Golfo la messa in opera di un progetto politico mondiale. Ciò che noi vediamo costruirsi sotto i nostri occhi è […] la consacrazione […] di due sogni: il governo mondiale e la fine della storia. […] Braccio armato del governo mondiale, l’esercito americano è l’immagine di governo cosmopolita, multirazziale per certi versi multiculturale [che] persegue un obiettivo: la fine della storia. […] Comprendo il fastidio che devono provare i sauditi […] allo spettacolo dell’esercito americano: un esercito di neri, un esercito di donne, un esercito di uomini e donne che bevono Coca-Cola, un esercito in cui i cristiani praticano il loro culto nel Paese della Mecca, un esercito in cui gli ebrei, che non possono entrare nell’esercito dell’Arabia Saudita, sono presenti: tutto questo non può mancare di cozzare profondamente con gli elementi costitutivi dell’attuale identità del regime saudita” (1). La cosa, paradossalmente, non verrà fatta dal Msi diretto dal nazional-rivoluzionario Pino Rauti, che voterà a favore dell’intervento.
L’appoggio alla causa araba non si limiterà ovviamente solo al Baath iracheno, partito socialista arabo d’ispirazione laica – come oggi quello siriano guidato da Bashar al-Assad – ma a prendere le difese, l’anno successivo, degli islamisti algerini del Fronte islamico di salvezza (Fis), la cui vittoria è auspicata da molti nazionalisti rivoluzionari francesi, ma anche italiani, specie quando questi verrà rovesciato da un golpe militare filoamericano (2), non solo come argine geopolitico ma come l’inizio di una soluzione all’immigrazione, alla quale è contrario anche il Fis, che osteggia il miscuglio della cultura islamica con quella occidentale. Nell’agosto 1991, il settimanale di estrema destra Minute enuncia così una politica in tre punti: “Al Fis non deve mancare un solo voto; non un voto per Aït Ahmed e i suoi democratici; soprattutto, non un immigrato algerino in più”. E precisa: “Una repubblica islamica in Algeria significa un altro Paese che volta le spalle alla civiltà Benetton, significa la vittoria della gellaba nazionale contro i jeans cosmopoliti”.
Ma il Fis, per i medesimi motivi, verrà sostenuto pure dall’anziano leader frontista Le Pen: “Il Fis – dichiara – è la Djellaba nazionale contro i jeans cosmopoliti”, un’idea che paradossalmente non cozza affatto con la citata xenofobia frontista, ma che fa trasparire un nuovo tipo di razzismo che il partito lepenista pesca dalle argomentazioni del Grece di Alain de Benoist: l’uso politicizzato del differenzialismo, che vede nel mondialismo – termine che nella destra designa la globalizzazione neoliberista e la relativa americanizzazione dei costumi – un mezzo per omologare e distruggere le differenze culturali che costituiscono i popoli, un’evoluzione da quello classico biologico e gerarchico a un razzismo che si presenta ‘eterofilo’, figlio del particolarismo, teso a preservare le differenze tra i gruppi da ogni forma di meticciato, minaccia suprema e presunto motore di una graduale decadenza, attribuibile a una logica ‘della differenza’ e fondato principalmente sui tratti espressamente culturali (cioè costumi, lingua, religione ecc.) e non biologico-razziali.
Ed ecco le origini delle dichiarazioni che Le Pen rilascia nel settembre 1987 in un’intervista per Arabies, rivista della comunità araba in Francia: “Adoro i magrebini, ma il loro posto è nel Maghreb […] Non sono razzista, ma nazionale […] Perché una nazione sia armoniosa, bisogna che abbia una certa omogeneità etnica e spirituale”, e propone la risoluzione “a beneficio della Francia, [del] problema dell’immigrazione. Con il ritorno pacifico, organizzato, degli immigrati”. Sull’Islam dirà: “Viene attizzata la paura dei francesi per quello che viene comunemente chiamato islamismo o integralismo islamico.
Coloro che attizzano o manipolano queste paure non esitano a snaturare in maniera grossolana il messaggio dell’Islam. Per farlo rientrare meglio nei loro schemi, fanno ciò in un’ottica ben precisa: quella dell’utopia mondialista e dell’ideologia dei diritti umani, che presuppongono la distruzione delle identità culturali e il rifiuto della trascendenza. Il loro sogno è quello di un Islam reso asettico e inoffensivo”. Al termine del primo semestre 1997, nessuno, in seno al nazionalismo francese, troverà da ridire sul fatto che Le Pen incontra Necmettin Erbakan, primo ministro islamista turco dal giugno 1996 all’aprile 1997.
“In seguito – scrive Christian Bouchet, oggi esponente dell’ala radicale del Front a Nizza ma un tempo membro dell’ala più dura del Grece e negli anni ’90 direttore di Lutte du peuple e capo della formazione nazionalbolscevica francese Nouvelle résistance – si è detto che si trattò di un colloquio informale, che ebbe luogo in maniera più o meno occasionale durante le vacanze del dirigente del Front national sulle spiagge turche. […] Ma bisognerebbe essere ingenui per credere che uomini politici di questo livello si incontrano per caso…
D’altronde, non è per puro caso che il capo del Fn partecipa regolarmente ai ricevimenti organizzati dall’ambasciata iraniana nell’anniversario della Rivoluzione islamica; o che, in visita in Libano, incontra alcuni deputati di Hezbollah per comunicar loro le sue posizioni sulle questioni del vicino Oriente” (3).
Le origini di questa fascinazione da parte della destra europea per il mondo arabo è molto forte in Italia, dove, vista la perdita delle colonie, l’estrema destra tutta, dal Msi alle formazioni più piccole, parteggerà nel dopoguerra per i movimenti anticolonialisti, che stanno ‘vendicando’ la sconfitta subita dall’Asse. Ma in Francia saranno pochi i fascisti filoarabi, vista la presenza di colonie, se si eccettua Maurice Bardèche, uno dei più noti collaborazionisti francesi, che dirà che “nel Corano c’è qualcosa di virile, qualcosa che si può chiamare romano”, se non addirittura “fascista” (4). Il grosso dell’area – che darà addirittura vita all’Oas, gruppo terrorista che avvierà una campagna terroristica nella Francia di de Gaulle, reo di aver favorito l’indipendenza algerina – scriverà violenti strali contro gli arabi.
Le cose, però, cambiano in seno al Grece nei primissimi anni ’80. È Guillaume Faye, uno dei più importanti teorici della nouvelle droite dopo de Benoist, a teorizzare l’alleanza euro-araba, ritenuta necessaria alla liberazione dell’Europa dai blocchi americano e sovietico, presentata nella primavera 1980 su Éléments n. 34 – dove appariva in copertina la Statua della Libertà in frantumi – con l’articolo Pour en finir avec la civilisation occidentale; nel pezzo è esposto il “terzomondismo di destra”, che si differenzia da quello di sinistra per le tesi differenzialiste, e si attacca l’America, continuatrice dell’imperialismo navale inglese, una talassocrazia mercantilista che si proietta, citando il Carl Schmitt di Terra e mare, nei mari e verso un dominio mondiale. Tesi ripresa e sviluppata da de Benoist in libri come Europe, Tiers monde, même combat, e prima ancora in Orientations pour des années décisives.
La ricerca di alleanze con il Terzo Mondo (partendo dall’alleanza euro-araba), un vero e proprio cambio di prospettive geopolitiche, che porta alla scoperta di un nuovo nomos della Terra e la tesi secondo cui il comunismo non è il vero nemico d’Europa ma piuttosto l’America, creerà rotture con la destra conservatrice per anni. Qualche tempo dopo, nella primavera del 1985, Éléments dedica il n. 53 all’Islam, facendo scandalo. Ciò è dovuto non a un giudizio globalmente positivo sugli arabi, ma alla posizione apertamente filoislamica dei redattori della rivista, che li porterà a pubblicare un intervento di Claudio Mutti – docente di lingua e letteratura ungro-finnica di formazione tradizionalista-rivoluzionaria, convertitosi all’Islam sufi nel 1979, vicino a Franco Freda, all’epoca colonna di Orion e oggi direttore di Eurasia – nel quale vengono spiegate le ragioni antimondialiste della sua conversione.
Nello stesso numero Guillaume Faye scrive: “Quali che siano i sentimenti che possono essere ispirati dalla visione del mondo islamica, il risveglio del mondo arabo-musulmano costituisce un evento oggettivamente favorevole al destino dell’Europa”. Ma le cose, con ripercussioni in seno alla destra francese ed europea per anni, cambiano gradualmente, prima con episodi marginali (l’esponente dell’ala integralista cattolica Jean Madiran, per esempio, nel suo libro Adieu à Israël, dopo aver espresso la sua ammirazione per “questa nazione valorosa e guerriera”, spiega questa fascinazione con il fatto che “l’alleanza franco-israeliana sembrava necessaria di fronte alla marea islamica”), poi con il rientro negli ambienti nazionalisti e identitari di Faye, dopo anni di inattività, e con l’uscita nel 1998 per le edizioni dell’Aencre di L’Archéofuturisme, pubblicato in Italia nel 2000 dalle edizioni Barbarossa, una sorta di manifesto che diventa libro di culto di tutta la generazione della destra post lepénista.
Il testo rimette in discussione la dottrina neodestra dell’alleanza euro-araba, base di gruppi come il Grece – che qui accentuerà la sua trasversalità, dialogando sempre meno con l’intellighenzia di destra e sempre più con la sinistra alternativa, in nome della critica della modernità e dei limiti dello sviluppo – o di Synergies européennes, aggregazione culturale nazionalbolscevica eurasiatista e filo-araba animata dal belga Robert Steuckers, che ha visto la confluenza di membri dell’estrema destra e dei settori più radicali della nouvelle droite e che, sulla falsariga del Grece, organizza annualmente le Università d’estate per simpatizzanti, dove vengono invitati militanti, intellettuali e accademici.
A partire da questo libro – che inizia con una dura requisitoria sulla presunta degenerazione terzomondista del Grece, che secondo l’autore non contrasta effettivamente l’immigrazione ma propone la nascita di microcomunità allogene dentro l’Europa – Faye sviluppata un’autocritica che coinvolge soprattutto le sue vedute di un tempo a proposito dell’Islam, da lui ora indicato come nemico giurato dell’Europa e della sua identità.
La tesi di fondo di L’Archéofuturisme, che rinnega quelle elaborate precedentemente (per esempio il continente da unificare non è né l’Europa né l’Eurasia, ma l’Eurosiberia, che comprende esclusivamente gruppi di “razza bianca”), parte dall’ipotesi della venuta del caos etnico nel periodo compreso fra il 2010 e il 2020, causato dall’immigrazione allogena e dalla volontà di distinguere il nemico che vuole distruggerci, l’Islam, dall’avversario che ci indebolisce senza tuttavia volere la nostra fine, gli Stati Uniti. Parallelamente Faye sviluppa la teoria di una “colonizzazione dell’Europa” (5), sottintendendo, dietro i flussi migratori, una volontà politica d’invasione portata avanti dalle organizzazioni mondialiste, come SOS Racisme, che favorirebbero la situazione per facilitare la formazione di una società francese meticcia e multirazziale.
Gli scritti di Faye, che arrivano in Italia nel pieno della crisi della militanza politica di destra, vengono usati per aprire un dibattito (6) e scateneranno non pochi dissensi, creando così una spaccatura in seno a Synergie européennes fra chi è filo-islamico e la componente franco-belga che si avvicinerà con Faye al cosiddetto mouvance identitaire, una branca del radicalismo di destra gravitante attorno al Bloc Identitaire e all’associazione culturale Terre et Peuple, animata dall’ex esponente del Grece e poi del Front national Pierre Vial; le due realtà, pur riprendendo molti postulati dalle tesi elaborate da de Benoist come il regionalismo, l’euro-federalismo, il differenzialismo ecc., le declinano in senso islamofobo e addirittura occidentalista.
Tutte tesi esposte di recente nell’articolo La Troisième guerre mondiale: prédictions (La terza guerra mondiale: presagi) dove Faye, parlando dello scenario globale, predice ulteriormente una possibile guerra civile etnica in Francia: “L’immigrazione di massa in Europa (soprattutto dell’Ovest) sotto la bandiera dell’Islam sta progressivamente trascinando verso una guerra civile etnica. L’incapacità dell’Europa di arginare l’immigrazione invasiva proveniente dal Maghreb e dall’Africa continentale in esplosione demografica porterà inevitabilmente a un conflitto maggiore. La presenza in Europa di molte masse forti di manovalanza giovane, d’origine arabo-musulmana, sempre più islamizzate, con una minoranza formata militarmente che vogliono portare alla jihad le sommosse insurrezioniste e di terrorismo, sarà il fattore scatenante di una spirale incontrollabile” – dimenticando il ruolo chiave degli americani nel sostegno alla jihad islamica in vasti teatri di guerra come l’Afghanistan contro i sovietici, la Bosnia-Erzegovina, il Kosovo, l’Iraq, il Nord Africa (si veda in Libia) e in Siria, supportando i vari ‘ribelli’ islamisti.
L’islamofobia di Faye – fortemente criticata da Alain de Benoist in un’intervista rilasciata nel marzo del 2000 ad Area, mensile della destra sociale di An, per le “posizioni fortemente razziste” – farà presa nel nazional-populismo francese, anche condizionata da un altro autore, Alexandre del Valle. Nella tarda estate del 1999 Bruno Mégret, vice di Le Pen, si distacca dal partito e crea il Mouvement National Repubblicain, portando con sé ampi settori frontisti, spesso i più radicali sulle questioni dell’immigrazione e dell’Islam, anche se la stampa lo presenterà, per le posizioni geopolitiche occidentaliste e filoisraeliane, come un partito moderato.
Una delle prime azioni politiche è la promozione, il 6 novembre 2000, di un Osservatorio nazionale dell’islamizzazione in Francia. Fu una sorta di preludio al Front di Marine Le Pen, solo troppo avanti con i tempi e quindi non riuscirà ad attecchire (al punto che oggi, come altri settori del mouvance identitaire, dà il suo appoggio critico a Marine Le Pen, intrattenendo rapporti attraverso i settori radicali del Front). I modelli di Bruno Mégret, infatti, erano la Lega Nord, la destra italiana post-fascista (Alleanza nazionale) e l’ala modernista del Vlaams Blok fiammingo (Vlaams Belang), particolarmente nelle relazioni con la comunità ebraica. È con questa che il partito populista intende stringere relazioni.
“Bisogna rifiutare questa cattiva immigrazione”, spiega Mégret. “Un’immigrazione che non si integra, che sviluppa intolleranza e violenza, come dimostrano gli attentati contro le sinagoghe e le aggressioni contro gli ebrei”, spiega a Le Monde l’8 aprile 2002. Sull’organo del Mnr, nel n. 23 di Le Chêne del dicembre 2001/gennaio 2002, Christophe Dungelhoeff parla di “razzismo da immigrazione” e dedica le sue riflessioni alle inquietudini della comunità ebraica, da una parte lodata perché capace di mantenere le proprie radici identitarie, a differenza dei francesi ammalati di “politicamente corretto” e ottenebrati dalla propaganda mondialista che elogia il meticciato, e dall’altra vittima dell’islam: “Le istituzioni ebraiche scoprono, a loro volta, l’ostilità alla quale milioni di francesi sono quotidianamente esposti da parte dei delinquenti immigrati”. “Voi e noi [ebrei e francesi, n.d.a.] abbiamo gli stessi nemici. Pertanto dovete smettere di attaccarci, come state facendo da oltre vent’anni”.
Le tesi di Guillaume Faye attecchiscono quindi fra quei settori del Mnr stanchi dell’iniziale terzomondismo lepenista e che iniziano a intrattenere – prima del Bloc Identitaire, radicato fra i giovani e nato recentemente – rapporti con Terre et Peuple, con cui Faye comincia a collaborare; anche se Vial non condividerà la successiva svolta di Faye, che nel 2009 entrerà nella direzione di Alliance pour la liberté, formazione nazional-conservatrice occidentalista (7). Per Vial coloro che “pretendono di opporsi all’immigrazione africana combattendo l’Islam […] sbagliano, o volontariamente – per timore di essere demonizzati – o involontariamente – per mancanza di coscienza ideologica”, definendo l’antislamismo fine a se stesso “una semplificazione che ha avuto un grande successo, perché è garanzia di agio intellettuale per gli spiriti sistematici”. Nonostante questo egli giudica l’Islam estraneo allo Volkgeist europeo.
Non può tale concezione essere in sintonia con quelle presenti nel Front national. Occidente giudeo-cristiano contro Islam conquistatore, ecco le tesi del Mnr, mentre il Fn rimane ancorato a una visione del mondo di tipo post coloniale, imbevuta di nostalgia per l’Impero e per la grandeur, che implica anche un approccio multiculturale e multireligioso, in particolare musulmana, della struttura imperiale. Le Pen, da ex combattete coloniale, non può ragionare in termini di scontro di civiltà e la cosa verrà poi tramandata alla figlia, che arriverà a candidare musulmani integrati nel suo ‘nuovo’ partito. Dopotutto – questa è la chiave di lettura frontista – il conflitto in Algeria non opponeva cristiani e musulmani, ma si presentava come una ribellione fomentata dai ‘nemici dell’Impero’, cioè i comunisti, l’Urss ecc. Sarà il Fln algerino, di posizioni marxiste e antimperaliste, a opporsi all’amicizia franco-musulmana, che ebbe in Bachaga Boualam il portabandiera. Inoltre l’impiego di più di 130.000 francesi di fede musulmana nella difesa dell’Algeria francese, episodio centrale nella memoria dei reduci, impedisce al Front, che pure è contro l’immigrazione, di aderire così radicalmente al discorso islamofobo di Faye.
Ed è per questo che Jean-Marie Le Pen non abbandonerà affatto la linea antioccidentale e antimondialista adottata con la guerra del Golfo, una linea che successivamente verrà adottata anche dal Carroccio – in piena fase di isolamento politico per le posizioni secessioniste e nel mezzo di un avvicinamento alla destra radicale classica – e che verrà ribadita anche in tempi recenti, come durante la festa del BBR (Blanque, Blue et Rouge, dai colori del tricolore francese, n.d.a.) tenutasi nel settembre 2001.
È lì che Le Pen, nel comizio conclusivo, cita le vittime dell’imperialismo americano dalla seconda guerra mondiale a oggi, da Dresda a Hiroshima e Nagasaki, dall’Iraq di Saddam Hussein – all’epoca vittima di un embargo che mieterà numerose vittime – fino alla Serbia di Milosevic – a sua volta difesa strenuamente da Bossi – descrivendo gli Stati Uniti come i più grandi criminali della storia, senza citare mai una volta l’Islam fra i nemici dell’Occidente. “Il vero pericolo – dichiara il leader del Fn – è l’assenza di sorveglianza alle frontiere e di controllo degli stranieri presenti sul nostro territorio”, poi richiamando il problema demografico rappresentato dagli “immigrati asiatici o africani” per i loro alti tassi di riproduzione.
In altre occasioni, sulla stampa lepenista, opinionisti del partito si scagliano contro la dicitura creata dai mass media del “fascismo islamico”, perché “è un ragionamento disgustoso – commenta Olivier Marinella, ex responsabile del Fn in Corsica ed ex capo gabinetto del leader – si può condannare il terrorismo islamista, o considerare l’Islam una minaccia. Ma è intollerabile che si discrimini questa religione sulla base di un’inclinazione al fascismo”. Quando poi il socialista Lionel Jospin dichiara che “bisogna denunciare senza tregua i metodi dei terroristi”, Martinella si interroga: “Come si può contemporaneamente condannare il terrorismo di organizzazioni segrete e chiudere pudicamente gli occhi di fronte al terrorismo di Stato, come i bombardamenti delle popolazioni civili in Serbia e l’embargo che ha causato la morte di un milione di bambini iracheni dal 1991?”, e conclude: “È la politica mondiale degli Usa a partire dal 1989-1991 che spiega l’impiego di metodi terroristi da parte di coloro che si oppongono ai principî e ai metodi del nuovo ordine mondiale” (8).
Il partito denuncerà l’islamismo radicale e le moschee finanziate dall’estero o con fondi pubblici, ma mai, in nessun caso, l’Islam in quanto tale, né la costruzione di moschee in osservanza delle norme repubblicane. Ma quando una branca del populismo europeo, quella laica e libertaria, quella che si è affermata una decina d’anni or sono in Olanda, fa della lotta all’Islam uno dei suoi capisaldi non in nome della tradizione ma dei valori della laicità e di una libera sessualità e dell’eguaglianza uomodonna, magari rifiutando tale religione per la questione del velo o, come l’estate scorsa, del burkini, l’area si divide.
Quando scoppia la polemica sul foulard islamico nelle scuole, i redattori della rivista di destra Le Choc du mois non esitano a scrivere che alle nordafricane in jeans preferiscono le musulmane in chador. “L’anti-islamismo è gravido di alleanze contro natura e di situazioni paradossali di cui bisogna pur tenere conto – constata Bouchet – dovremmo forse, come sosteneva l’olandese Pym Fortuyn, difendere il modo di vivere degli omosessuali per opporci agli imam omofobi? […] Si deve difendere l’impudicizia nel vestire per il semplice motivo che gli islamici sono favorevoli all’uso del foulard?”
Jean-Marc Brissaud, dirigente storico del Fronte nazionale, scriverà: “[…] io preferisco, spiega, a ben pensarci, la riservatezza della fanciulla in chador all’arroganza sguaiata di queste tricoteuses che sfilano contro Le Pen…”. La denominazione tricoteuse, che si può interpretare sia in riferimento all’aborto sia alla Rivoluzione francese (le arpie rivoluzionarie), mette in luce un rifiuto viscerale dei valori della modernità nata nel 1789: dietro all’ostilità al velo islamico, Brissaud intuisce un fondamento di pensiero simile a quello da cui scaturisce l’opposizione al Fn e ai suoi valori: il primato del concetto di individuo e di cittadinanza sull’appartenenza identitaria e di sangue. La logica intellettuale che porta a condannare le discriminazioni razziali si basa, come il divieto di indossare il velo negli istituti scolastici, sullo stesso rifiuto di ridurre la visione dell’individuo a un legame identitario, che sia scelto o imposto.
“L’Islam – scrive infatti Alain Soral, ex esponente del Pcf passato all’area nazionalista e leader di Égualité et Réconcialition, associazione rossobruna promotrice di una sintesi fra nazionalismo e valori comunisti – è una via verso l’integrazione. L’Islam educa l’uomo ai valori. Preferisco vedere gli immigrati volgersi verso i valori millenari dell’Islam, piuttosto che verso i rapper”. Bouchet ribadisce quindi, facendo suoi i valori del differenzialismo, che “la battaglia dei patrioti e dei nazionalisti deve essere una battaglia di neutralità religiosa, di aconfessionalità nazionale, né islamofoba né islamofila.
“Bisogna che l’Islam abbia in Francia il suo posto, il posto che gli spetta. Né più né meno. A questo proposito, citerò uno che non è della mia parrocchia, ma ha delle basi ideologiche alquanto lontane dalle mie. Si tratta di Michel de Rostolan, fondatore del Cercle Renaissance ed ex consigliere regionale del Front national d’Ile-de-France. Egli afferma saggiamente: «Mi sembra necessario che vengano compiuti tutti gli sforzi necessari per consolidare un Islam alla francese, adatto alla popolazione musulmana di nazionalità francese, guidato da ministri del culto di nazionalità francese.» Si potrebbe continuare dicendo che è necessario che vi siano delle moschee, ma che siano francesi e costruite nel rispetto delle norme francesi. Per concludere: se c’è una battaglia da combattere, è quella di un’opposizione chiara e risoluta a ogni immigrazione extraeuropea e alle sue cause. Torniamo perciò al concetto che ho precisato più sopra: il vero nemico è la società mercantile, il sistema liberale, il Nuovo Ordine Mondiale” (9).
E se da una parte un nazionalista identitario ed ex neodestrista come Dominique Venner, l’“ultimo samurai” come è stato dipinto con immensa devozione da tutto il neofascismo europeo, collegandolo al seppuku del poeta-guerriero Yukio Mishima, arriverà a immolarsi dentro Notre Dame nel 2013 a seguito dell’emanazione della legge Taubira sul “matrimonio per tutti” e l’immigrazione islamica, e non tanto in nome dei valori cristiani dato che era pagano (10), saranno proprio una parte degli islamici, riuniti in seno all’associazione Fils de France, fautrice di un Islam francese, a trovare una sponda politica con vasti settori della destra francese, da quella cattolica tradizionalista a quella laica; realtà che nella lotta contro la legalizzazione del matrimonio tra individui del medesimo sesso si trovano nella stessa posizione, contro quella che è definita la ‘decadenza’ o l’avanzata del Nuovo Ordine Mondiale.
1) J.-Y. Gallou, Réflexion sur l’armée américan et ses buts de guerre dans le Golfe, in Présent, 10-11 settembre 1990
2) Uno di questi è il nazionalista di formazione tradizionalista-rivoluzionaria Carlo Terracciano, decano di geopolitica vicinissimo a Freda ed ex collaboratore di Elementi, Diorama letterario, Risguardo delle Edizioni di Ar, L’Italiano, Intervento ecc.; scriverà su Orion che il Fis algerino, rovesciato dopo aver vinto le elezioni da un golpe sostenuto dagli americani, la cui strategia “per la stabilità e la pace nei Paesi della periferia meridionale dell’Europa” ricalca quella di Carter messa in atto contro l’Iran rivoluzionario di Khomeini, era sostenuto dai vari gruppi come Hezbollah in Libano, la guerriglia curda e gli sciiti in Iraq ecc. Gli Stati Uniti d’America, affermava Terracciano, caduto l’Urss hanno visto nell’Islam l’ultimo baluardo contro il loro progetto mondialista, e nella vittoria del Fis qualcosa da arginare. Infatti l’Algeria – per Terracciano – è stata vittima dell’ingerenza atlantico-sionista perché è uno snodo fondamentale a livello geopolitico in una fase di crisi economico-energetica: oltre al petrolio, confina a est e ovest con altri Stati sunniti con una densità di popolazione scarsa, con la Libia di Gheddafi, mentre al di là c’è l’Egitto, che dall’esecuzione di Sadat tiene a freno “la marea islamica”, mentre al sud confina col Sudan, le cui autorità si orientavano in senso islamista cooperando con l’Iran; C. Terracciano, La battaglia di Algeri, in Orion, aprile 1992, pp. 14-21
3) C. Bouchet, Filoislamici e islamofobi nella destra francese, in Eurasia. Rivista di studi geopolitici, 31 luglio 2016
4) Maurice Bardéche durante la crisi di Suez del 1956 parteggia per il raìs Nasser, nonostante l’appoggio sovietico. Secondo lui “la struttura della Repubblica d’Egitto riproduce i caratteri della struttura politica fascista. Il capo dello Stato riunisce nelle sue mani i diversi poteri, […] i partiti politici sono sciolti e il contatto col popolo è mantenuto per mezzo del partito unico, l’Unione Nazionale. […] Nasser e i suoi fascisti hanno trovato [la] mistica fascista nell’Islam […] Nel Corano vi è qualcosa di guerriero e di forte, qualcosa di virile, qualcosa che si può chiamare romano. Perciò Nasser è così ben compreso dagli arabi; parla la lingua che parla la loro razza nel profondo dei cuori”. Per Bardéche “l’Islam non appartiene né al mondo democratico, né al mondo comunista; per la sua essenza e per la sua collocazione è un vero ‘terzo mondo’ […] Nasser e i suoi fascisti hanno trovato questa mistica fascista nell’Islam, che è il loro passato e che è anche, nel senso più largo della parola, la loro cultura […] La rivoluzione egiziana non è solamente Egitto, svegliati; è la legge di Maometto che sveglia l’Egitto alla rivoluzione nasseriana, è il Corano in marcia. La rivolta di Nasser non fu soltanto contro l’occupazione coloniale, ma anche contro tutto ciò che tale occupazione comporta e rappresenta; il regno dell’oro, l’insolenza del ricco, il potere dei venduti allo straniero e degli arrivati e l’adorazione del Vitello d’Oro che essa reca con sé […] Tutto ciò è condannato nel Libro, sono gli idoli di Mammona. Fra tutte le mistiche fasciste forse quella di Nasser sarà quella che lascerà una traccia più profonda nella storia per le sue durature conseguenze”. M. Bardèche, Che cosa è il fascismo?, Roma, Volpe, 1980, pp. 88-92
5) A cui Guillaume Faye dedicherà un apposito saggio, La Colonisation de l’Europe. Discours vrai sur l’immigration et l’Islam, Æncre, 2000
6) Le tesi sull’archeofuturismo verranno esposte da Guillaume Faye durante l’Università d’Estate 1998, tenutasi a Trento, e gli atti pubblicati su Orion nn. 167-168 dell’agosto e settembre dello stesso anno. Riconoscendo il rapido esaurimento dell’area neofascista, che ormai era divenuta priva “di importanza, vitalità e soprattutto [delle] caratteristiche fondamentali che [la] consacravano tale sotto il profilo politico e sociale”, come notava Rainaldo Graziani, figlio di Clemente, il fondatore del Centro studi Ordine nuovo (R. Graziani, Dal neofascismo… all’archeofuturismo, Orion n. 169, ottobre 1998, p . 11), Murelli, conscio di tale crisi, percepita da più parti dell’area (in vari documenti redatti in quel periodo, che si pongono nella prospettiva di una chiamata a raccolta delle forze militanti disperse per un rilancio della militanza, si è costretti a riconoscere che l’estrema destra italiana è “un mondo ormai disabituato al dibattito”, M. Consoli, Il soggetto che manca. Analisi dell’opposizione nell’Italia di oggi, in L’Uomo libero n. 45, 1998, p. 1), proporrà – pur condannando l’islamofobia di Guillaume Faye – di opporre alla rete mondialista “una rete composta da gangli che si autogenerano e che si autocontattano non più verticalmente ma orizzontalmente. L’ideologia e l’ortodossia non possono più essere la discriminante per un coordinamento efficace” (M. Murelli, Mondialismo è…, in Orion n. 168, settembre 1998, pp. 1, 2). Se si tiene presente che “la nostra civiltà è giunta alla fine di un ciclo e non alla soglia di un nuovo progresso” (Orion n. 167, agosto 1998, p. 3) come spiega Faye, la via proposta per uscire dalla “modernità occidentale” è la costruzione di nuovi clan, al fine di edificare una società fondata sui vincoli di solidarietà riproducendo forme comunitarie ancestrali, pur rispondendo alla situazione attuale; una prospettiva che romperebbe con “l’utopia moderna di una concordia universale”, ripensando quindi a quelle macro-solidarietà che furono l’Impero romano o la Cristianità, una tesi archefuturista che riconcilia Evola a Marinetti (Cfr. G. Faye, L’archeofuturismo, applicazioni concrete, in Orion n. 168, settembre 1998, pp. 3-12). La tesi viene condannata da Alessandra Colla, all’epoca ai vertici di Synergies européennes, che si dimetterà per il prevalere di tali tesi islamofobiche: “Scaricare sull’Islam e sul Sud del pianeta la responsabilità di quanto sta accadendo significa solo due cose: o non aver compreso gli ultimi cinque secoli di storia, o non averli voluti comprendere. È dal momento in cui prende piede la mentalità del borghese mercante e colonizzatore che gli equilibri sociali, economici, politici e culturali mutano – a livello prima continentale e poi planetario. […] Faye e molti francesi ragionano come se l’emiro ‘Abd al-Rahman fosse ancora alle porte di Poitiers. Vorrei rammentare loro che Carlo Martello gliele ha suonate, agli ‘infedeli’, e che da allora sono passati 1.266 anni […]. L’Islam è un monoteismo, e come tutti i monoteismi avanza pretese di assolutismo – l’ha fatto, come è noto, la religione cattolica […] e, in tempi più recenti, un altro singolare tipo di monoteismo, l’illuminismo razionalista […] Quanto al Sud del pianeta, la gente di là non ci si è messa spontaneamente in certe situazioni: anzi, deve ringraziare tutti quei simpatici europei che gli hanno buttato tutto per aria e, come se non bastasse, per secoli gli hanno ripetuto quanto fossero ignoranti e incivili e quanto bella e appetibile fosse la terra dei ‘bianchi’”; A. Colla, Ancora sull’archeofuturismo. Adelante, Guillaume, con Juicio. Risposta a Guillaume Faye, in Orion n. 170, novembre 1998, pp. 11-13
7) “Guillaume Faye collaborerà attivamente con Terre et Peuple di Pierre Vial, ed è in sua compagnia che parteciperò, l’8 e 9 giugno 2006 a Mosca, alla Conferenza internazionale sull’Avvenire del mondo bianco, da cui nacque il Consiglio dei popoli di origine europea. Per la Germania ci sarà Pierre Krebs (Thule-Seminar, ex Neue Rechte tedesca, avvicinatasi all’etnoregionalismo più radicale), il bretone Yann-Ber Tillenon, lo spagnolo Enrique Ravello (di Tierra y Pueblo), il greco Lephterios Ballas (Arma), i russi Vladimir Ardeyev, Anatoli Ivanov per Synergies européennes e Pavel Tulaev (per il think tank Atheneum), e l’ucraina Galina Lozko”. Cfr. S. François, Réflexions sur le mouvement “Identitaire”, 2/2, http://tempspresents.com/2009/03/05/stephane-francois-mouvement-identitaire-22/, 3 marzo 2009
8) O. Martinella, in Français d’Abord n. 350, ottobre 2001, p. 15
9) C. Bouchet, Filoislamici e islamofobi nella destra francese, cit.
10) In un’intervista con Christopher Gerard, Dominique Venner dichiara: “Il mio testo sacro non è la Bibbia, ma l’Iliade, fondatore della psiche della poesia occidentale. Sono troppo europeo per sentirmi coscientemente figlio spirituale di Abramo e di Mosé. Mi sento, invece, pienamente figlio di Omero, di Epitteto”; il cristianesimo “è stato imposto su di noi da una serie di incidenti storici” di cui però non è possibile tracciare una linea. “La cattedrale di Chartres è parte del mio mondo, così come Stonehenge o il Partenone”. Dominique Venner, all’interno dell’editoriale della Nouvelle Revue d’Historie, riporta: “Esistere è dedicarsi e consacrarsi. Ma morire è un altra faccia dell’esistere. Esistere davanti a un destino”. Egli ha anche aggiunto che “la morte può diventare una fonte di orgoglio” e quella volontaria – dei samurai o degli antichi romani – “può essere la più forte protesta contro un oltraggio come una provocazione alla speranza”. Nel suo blog il 21 maggio Venner solleva lo spettro di una “immigrazione afro-magrebina” alla quale hanno lavorato, a suo parere, politici di ogni colore e la Chiesa. Ora “la Francia è caduta nelle mani di una parte islamista”. La lotta dei manifestanti contro il matrimonio gay non può quindi limitarsi alle proteste di piazza: “Richiederà un nuovo, spettacolare e simbolico gesto di scuotere la sonnolenza, mettere in agitazione una coscienza anestetizzata e risvegliare la memoria delle nostre origini. Stiamo entrando in un periodo in cui le parole devono fare spazio alle azioni”. Cit. in J.-F. Mayer, Notre Dame e l’Islam: la versione di Venner, in La Bussola Quotidiana, 24 maggio 2013. Cfr. inoltre M. L. Andriola, Il suicidio di Dominique Venner: rivolta contro il mondo moderno o intolleranza omo-xenofoba?, in Paginauno n. 34, ottobre-novembre 2013, pp. 42-51