Davide Corbetta
Russia, Algeria, Nigeria, il mercato di gas e petrolio, gli investimenti, i contratti esteri e le ricadute sociali di un Sistema mondiale
197 milioni di euro, è questa la tangente che il Cane a sei zampe, attenendosi ai documenti sequestrati dal nucleo di Polizia tributaria della Guardia di finanza, avrebbe sborsato per accaparrarsi la commessa da 11 miliardi riguardante gli appalti in Algeria del Progetto Medgaz e Mle. Una joint venture con la multinazionale di Stato algerina Sonatrach (prima società africana nel mercato del gas), pagatrice insieme a Saipem (1) della mazzetta versata alla Pearl Partners Limited di Hong Kong, intermediaria nell’operazione. Lo scambio sarebbe avvenuto per tramite di Farid Noureddine Bedjaoui, rappresentate legale della società cinese, nonché nipote dell’ex ministro degli Esteri algerino.
Ha tutti i connotati di un ‘intrigo mondiale’, quello spiegato dal ‘pentito’ Tulio Orsi, ex direttore generale di Saipem in Algeria, e che vede coinvolti, per concorso in corruzione internazionale, l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, e l’ex direttore dell’area Engineering & Construction di Saipem, Pietro Varone. Secondo la procura di Milano, Scaroni partecipò ad almeno uno dei cinque incontri avvenuti in alberghi di lusso di Milano e Parigi, cui presero parte esponenti delle società algerine sub-contrattiste di Saipem, i manager di Eni, e Farid Noureddine Bedjaoui; Varone, invece, fu l’uomo chiave per entrare nel mercato estero, e si occupò di emettere fatture su operazioni mai eseguite, atte a creare quei fondi neri che servirono a oliare faccendieri e politici algerini.
L’accusa, per il Cane a sei zampe e le sue consociate, poggia sul decreto n. 231/2011, che all’art. 5 disciplina la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche stabilendo che “l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)”.
Le prime teste a saltare sono state quelle del vicepresidente e amministratore delegato di Saipem, Pietro Franco Tali, e del suo direttore finanziario, Alessandro Bernini; altre eventuali responsabilità sono ancora tutte da ricercare, a partire dal presidente algerino Abdelaziz Bouteflika, che dopo il coinvolgimento della Sonatrach, messo con le spalle al muro da una parte dell’esercito e dell’intelligence a lui ostile, vede a rischio la rielezione per il 2014. Nel frattempo la magistratura algerina ha bloccato altri due conti correnti della Saipem Contracting Algerie (una società di Saipem in nord Africa), dopo che a gennaio erano già stati fermati depositi per 79 milioni di euro.
Tutte le accuse sono state respinte dall’imputato più in vista: “Le tangenti non solo sono illegali, ma danneggiano il nostro business. La nostra reputazione è sempre stata una delle nostre caratteristiche all’estero e, per quanto riguarda Saipem, società indipendente, né Eni né io abbiamo mai avuto un coinvolgimento in atti illeciti” (2). Così afferma Scaroni, che ha inoltre assicurato come, dall’inizio del suo mandato, Eni non abbia mia fatto uso di contratti con intermediari. Perché allora difendere Saipem? Salvo poi, in altre dichiarazioni, prenderne le distanze sostenendo che: sì, Saipem ha nel suo marchio il Cane a sei zampe, del resto Eni è azionista di maggioranza, “ma è un’azienda che non possiamo né vogliamo controllare perché lavora, e con grande successo, con i nostri competitor” (3). Una società quindi che Eni non vuole controllare, ma al cui consiglio di amministrazione Scaroni ha suggerito, vista l’indagine, un cambio di management.
Quanto è davvero estranea Eni, una delle principali aziende italiane, controllata dallo Stato attraverso una partecipazione del 30%, al sistema delle tangenti? Quali sono i suoi profitti, considerando che è uno dei più grandi operatori mondiali nel campo del gas e del petrolio, competitivo non solo sul mercato algerino ma anche in quello russo e nigeriano? E che impatto ha la sua supremazia, quasi monopolista, nei territori esplorati e colonizzati da pozzi di trivellazione, condutture per gas metano e oleodotti?
Dalla maxi-tangente Enimont alla presunta corruzione in Nigeria
Il fondo Knight Vinke, che da anni investe in Eni, ha chiesto lo spin-off della Saipem, che a causa degli scandali tangenti in cui è coinvolta ha fatto perdere valore sul mercato all’intero gruppo – per l’esattezza 7 miliardi di capitalizzazione in tre settimane. Una situazione inevitabile poiché Eni, oltre a prestare il logo all’azienda d’impiantistica, le fornisce clienti, manager, impiegati e persino l’amministratore delegato. “Il management dell’Eni sostiene che con Saipem ci sono sinergie, ma se ci sono è perché Saipem è controllata dall’Eni e allora è più difficile sostenere nel contempo che le gestioni delle due società sono separate” (4) scrive Eric Knight a Scaroni, e conclude affermando che l’unica soluzione è staccare la spina alla Saipem, distribuendo le azioni ai soci Eni, tra cui anche lo Stato italiano, in modo che gli investitori possano decidere autonomamente quali titoli e quali rischi mettere in portafoglio.
Insomma, una netta presa di posizione sulla vicenda da parte di un importante azionista del gruppo, benché Scaroni continui a sostenere con assoluta certezza che “né Eni né io abbiamo mai avuto un coinvolgimento in atti illeciti”. Affermazione che ribadisce con forza l’estraneità della sua gestione Eni al vecchio sistema nato, cresciuto, e si credeva morto nella Prima Repubblica, quando la società è entrata di prepotenza nelle cronache di Tangentopoli.
Nel 1990 ci fu la cosiddetta “madre di tutte le tangenti”, 140 miliardi di lire che Montedison dovette pagare ai principali partiti italiani (socialisti, democristiani, socialdemocratici, repubblicani, liberali e leghisti) affinché Eni, all’epoca holding di Stato, acquistasse dal gruppo Ferruzzi le azioni (2.805 miliardi di lire) di maggioranza della joint venture Enimont. Un’operazione voluta degli stessi partiti che si erano opposti all’idea di Raul Gardini, patron della Montedison, di privatizzare la chimica italiana, e che fece anche guadagnare a Eni 10 milioni e mezzo di dollari, denaro che la Montedison avrebbe fatto pervenire alla stessa emettendo una fattura intestata all’Allied Engineering di Londra (5).
Sempre in quell’anno, però, ci fu un’altra vicenda meno nota e la cui trama ha tappe del tutto similari ‘all’intrigo mondiale’ che oggi vede coinvolti l’Ente nazionale idrocarburi e la Sonatrach. La decisione spettò all’allora presidente Eni, Gabriele Cagliari, e a Pio Pigorini, presidente di Snam, all’epoca società del gruppo. Gli incontri avvennero in alberghi di lusso, soprattutto Roma, e il tramite fu un certo mediatore libico, Omar Yehia, al quale Cagliari e Pigorini chiesero di intercedere col governo algerino affinché rivedesse i prezzi di fornitura del gas metano. Una ‘prestazione di intermediazione’ da 30 milioni di dollari, tale la commissione occultata con il solito criterio delle fatturazioni fasulle, emesse da società allocate nei paradisi fiscali e giustificate dalla necessità di “raddoppiare il gasdotto che collegava la Sicilia con l’Algeria, attraverso la Tunisia e il Canale di Sicilia. I lavori sarebbero stati appaltati alla Saipem” (6). A mangiare, oltre Omar Yehia (22 milioni di dollari), furono anche il presidente di Saipem, Paolo Ciaccia (2,1 milioni di dollari), la Dc (310 mila dollari e 1 miliardo di lire) e il Psi (3,5 miliardi di lire) (7).
E Paolo Scaroni? L’attuale amministratore delegato di Eni, quando la stessa contrattava con mediatori libici e politici concussi, era presidente della Techint, un’impresa che in quegli anni si buttò nella produzione del petrolio, specialmente in America latina. La Techint, come molte altre aziende italiane, entrò a far parte della cosiddetta “spartizione degli appalti ambientali” quando pagò mazzette per ottenere appalti da Enel. Fu lo stesso Scaroni a dichiarare, nel ‘92: “Dal 1985 a oggi, ho versato al Partito socialista circa 2 miliardi e mezzo, sempre su richiesta dell’onorevole Balzamo (segretario amministrativo del Psi, nonché cassiere delle tangenti pagate al partito, n.d.a.), consegnandogli denaro a volte in contanti e a volte su conti esteri” (8). Scaroni patteggiò 1 anno e 4 mesi, denunciando che in un Paese in cui affari e governo erano così collegati, dove i politici controllavano le istituzioni, era quasi impossibile lavorare diversamente.
Eppure fu proprio per volere della politica, del secondo governo Berlusconi, che nel 2002 Scaroni venne nominato amministratore delegato di Enel, e in seguito, circa due mesi dopo l’inizio del terzo governo Berlusconi, di Eni. Ed è sempre grazie alla politica, del fiduciario Berlusconi, che Eni ha potuto aggredire con successo il mercato russo dell’amico Putin. Proprio come la materia del corpo si rinnova sempre con nuovi atomi, quindi rimane lo stesso corpo, ma nel contempo è un altro, nuovo, corpo rinnovato, anche il Cane a sei zampe e il suo amministratore si sono rinnovati nel corso degli anni, come prodotto del moderno capitalismo neoliberista. E non solo in Algeria.
In Nigeria, l’High Court inglese sta indagando su un’altra ‘mancia’: 1,1 miliardi di dollari che la Royal Dutch Shell avrebbe pagato al governo nigeriano nel 2011, in cambio dell’appalto per il blocco petrolifero OPL245. A beneficiare della tangente la zona assegnataria del blocco, Malabu, e più propriamente la persona che controlla il territorio, ovvero l’ex ministro nigeriano del Petrolio, Dan Etete, condannato nel 2007 per riciclaggio in Francia. È stato lo stesso Etete a dichiarare di aver accettato tangenti e usato identità false per coprire il titolare del denaro, reimpiegato per acquistare proprietà immobiliari. “Gli atti depositati presso l’High Court rivelano che in realtà Eni e il suo partner Shell erano preparati a trattare direttamente con Etete e che lo avevano incontrato di persona in diverse occasioni” (9). Funzionari di Eni, tra cui il direttore generale Claudio Descalzi, avrebbero avvicinato Etete nel 2009 e nel 2010, e almeno una volta all’Hotel Principe di Savoia, a Milano, proprio come avvenne nel 1990 con Yehia, e recentemente con Farid Noureddine Bedjaoui. “Riteniamo che il governo di una nazione sovrana non debba essere messo in discussione e che l’aver siglato un accordo direttamente con esso garantisca la completa trasparenza della transazione” (10) è la difesa di Eni, ma se la transazione era completamente trasparente come faceva il gruppo italiano a non essere a conoscenza del destinatario finale dei soldi?
Quello Eni-Shell non è l’unico caso aperto nel Paese africano. La procura di Milano ha chiesto per Saipem la confisca di 24,5 milioni di euro e una sanzione di 900 mila euro per un’altra “presunta corruzione in Nigeria” (11). Snamprogetti (incorporata da Saipem nel 2006) avrebbe pagato oltre 180 milioni di dollari in tangenti, versati a esponenti politici e dirigenti nigeriani tra il 1994 e il 2004, per aggiudicarsi sei impianti di trasporto e stoccaggio del gas a Bonny Island, del valore di 6 miliardi di dollari.
Dopo che la magistratura ha iniziato a scoperchiare il calderone delle tangenti degli ultimi vent’anni, non stupisce che, all’ultimo G8 americano, l’Unione europea si sia sentita in dovere di prendere l’impegno – a livello di etica ufficiale, ovviamente – di discutere nuove leggi sulla trasparenza dei pagamenti tra le compagnie petrolifere e i governi, scelta che vincola anche lo Stato italiano. Stupisce, piuttosto, che nonostante gli ‘intrighi mondiali’ e la guerra per il miglior appalto al prezzo più economicamente vantaggioso (vantaggioso per il Capitale), si chieda ancora ai governi, date le mutevoli condizioni del mercato, di farsi garanti nel procacciamento del gas. Anzi. Scaroni ha affermato, parlando di approvvigionamenti, che “le nuove regole del gioco non consentono più alle imprese europee di svolgere questo ruolo, che ritorna a essere un tema di carattere sovrano, di spettanza dei governi e dell’Unione europea” (12).
Di quali nuove regole si tratta, esattamente? Forse di quelle denunciate dal Servizio anti-corruzione e trasparenza del ministero della Funzione pubblica. Una recente indagine ha messo in evidenza come il giro di affari delle tangenti ammonti ormai a circa 60 miliardi l’anno, tanto che l’Italia si trova al 72° posto su 176 nella classifica di Transparency International sul CPI, ovvero l’indice che misura la percezione della corruzione sia nel settore pubblico sia privato, a livello mondiale. “Corruzione, opacità, scarsi livelli d’integrità, uniti a deboli sistemi di controllo e valutazione non comportano solamente una mancanza di moralità ed eticità nella governance del Paese, ma hanno un impatto negativo devastante sull’economia e la credibilità dell’intero sistema Paese” (13). “I mutamenti puramente quantitativi” diceva Marx, “si risolvono a un certo punto in differenze qualitative”. Com’è mutata la qualità del capitale di Eni?
Il bilancio Eni 2012 e i progetti futuri
Eni ha chiuso il 2012 con un utile netto di 7,13 miliardi, in crescita del 2,7% sul 2011, e ha staccato un dividendo di 1,08 euro per azione. Risultato che fa gola a molte aziende italiane, come lo stipendio dei due amministratori delegati sotto inchiesta per corruzione internazionale.
È una puntata della trasmissione Report sugli ‘affari’ del Cane a sei zampe a rivelarci che i compensi di Paolo Scaroni nel 2011 sono ammontati a 4,8 milioni di euro (più un bonus di 1 milione per “il significativo apporto professionale profuso nella realizzazione degli obiettivi aziendali” e comprendente il trattamento di fine mandato 2008-2011 [14]), cifra aumentata fino a 6,3 milioni nel 2012. Salario di tutto rispetto che l’ad ha giustificato sostenendo che “la gran parte delle persone che io conosco e che fanno il mio mestiere lavorerebbe anche se guadagnasse la metà, me compreso. Ma c’è il mercato del quale non si può non tenere conto. Credo che la strada giusta sia quella di una maggiore sensibilità più che quella di una rigidità regolamentare” (15). L’ex amministratore delegato di Saipem, Pietro Franco Tali, nel 2012 ha invece percepito compensi per 6,95 milioni di euro, comprensivi di una buona uscita per Tfr e incentivazione all’esodo da 3,81 milioni, e un bonus da 2,28 milioni.
Insomma, l’economia dell’Ente nazionale idrocarburi fa pensare a tutto fuorché alla crisi, che rimane per la piccola industria, mentre il grande Capitale pare difendersi grazie al sistema corruttivo reiterato dagli anni Novanta e all’internazionalizzazione dei processi di produzione e distribuzione. “La circolazione delle merci” diceva Marx, “è il punto di partenza del capitale. Esso appare solo lì dove la produzione delle merci e la loro circolazione sviluppata, vale a dire il commercio, sono arrivate a un certo grado di sviluppo”, dal XVI secolo in poi inteso come sviluppo del commercio nel mercato mondiale. Proprio a causa della condizione economica globale, nel rendiconto dell’esercizio 2012 Eni ha preannunciato un 2013 incerto, specialmente per gas e petrolio che sono soggetti ai rischi geopolitici. Nonostante ciò, la produzione degli idrocarburi è prevista in crescita rispetto all’anno trascorso, mentre quella del gas è in linea col passato. Questo perché, se da una parte è vero che, a causa della crisi, i consumi del gas sono calati del 15% in cinque anni (ovvero 150 miliardi di metri cubi di gas in meno rispetto ai 630 miliardi preventivati), dall’altra l’Italia rimane pur sempre un Paese che consuma annualmente 78 miliardi di metri cubi di gas.
Punti forti del Cane a sei zampe, a suo dire, sono i miglioramenti dei progetti di sviluppo, che hanno incrementato le riserve, e le esplorazioni, che hanno fatto crescere la produzione del 7%. Oltre alle zone d’interesse di cui abbiamo parlato finora, e su cui torneremo più avanti, il gruppo italiano sta concentrando le proprie attività, esplorative e non, in Mozambico (Africa), nel mare di Barentes (Indonesia), nell’isola cipriota e in Norvegia.
Proprio sull’isola di Cipro, un consorzio formato all’80% da Eni e al 20% dalla coreana Kogas ha vinto la gara internazionale per le attività di esplorazione e produzione in tre blocchi situati nelle acque del bacino del Levantino, più di 12 mila chilometri quadrati. Nel mare norvegese, invece, Eni è riuscita a ottenere il giacimento di Skuld di Norne, bacino con riserve fino a 90 milioni di barili, capitalizzati in un investimento di circa 10 miliardi di corone norvegesi.
E si tratta solo dell’inizio, per un’azienda che punta ad avere 20 miliardi di flusso di cassa entro il 2016, registrando una crescita del 5-6% l’anno (700 miliardi di barili di petrolio al giorno) che permetterebbe di coprire impieghi programmati con 56,8 miliardi tra il 2013 e il 2016, investimenti che fungerebbero anche da ‘polizza assicurativa’ nel caso in cui il petrolio tornasse a 90 dollari al barile. Aggredire il mercato internazionale ha i suoi costi, e forse per questo l’Italia è uno dei Paesi che paga più caro il gas, circa il 30% in più rispetto alle altre nazioni della zona euro. Perché, allora, non impiegare maggiori risorse nella penisola? Piano di disinvestimenti nel mercato italiano degli idrocarburi Prima di tutto occorre dare un’occhiata al piano di investimenti di Snam, società ex gruppo Eni e dall’ottobre scorso controllata dalla Cassa depositi e prestiti, ossia il ministero del Tesoro.
Entro il 2020 l’ex consociata prevede di stanziare 10,8 miliardi con lo scopo di svilupparsi in campo internazionale e rafforzare le infrastrutture in Italia: 6,2 miliardi saranno infatti destinati ad aumentare la flessibilità del sistema italiano, per diminuire la dipendenza energetica attraverso flussi bidirezionali con l’Europa centrale. Più nello specifico: 3,7 miliardi saranno impiegati per incrementare di 1.000 km la rete di trasporto, 1 miliardo nello stoccaggio e 1,5 miliardi nella distribuzione. Eni, dal canto suo, continua a ribadire le difficoltà nel settore del gas per il nostro Paese: nel Piano strategico 2013-2016 evidenzia come “le prospettive per il mercato del gas, in particolare in Italia, rimangono difficili soprattutto a causa del contesto macroeconomico che continua a essere debole. Di conseguenza, sul mercato italiano persiste un eccesso di offerta, dovuto anche a una mancanza di capacità fisica di esportazione che permetta il flusso verso l’estero dei consistenti volumi di gas acquistati e trasportati in Italia grazie a contratti di fornitura ‘take or pay’”. L’unico progetto italiano del gruppo prevede di ottimizzare i cicli di produzione e ridurre i costi, con la conversione in bioraffineria dello stabilimento di Sannazzaro.
Di opinione diversa è il presidente di OMC 2013 (Offshore Mediterranean Conference & Exhibition 2013), che nel corso della fiera tenutasi a Ravenna il marzo scorso ha evidenziato l’importanza dell’Italia come punto di collegamento tra due continenti, quello europeo e quello africano, ma anche col Medioriente e l’Asia. Una posizione geografica che può creare vantaggi al business, attirando l’interesse delle principali Oil Company europee, del nord Africa e del Medioriente (16). Da parte sua, l’allora sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico, Claudio De Vincenti, ha affermato come sia evidente “l’interesse dell’Italia all’efficienza energetica e allo sviluppo delle rinnovabili contestualmente alla valorizzazione delle risorse nazionali di idrocarburi. Due gli obiettivi raggiungibili: l’incremento dell’attuale produzione di olio e gas portando il contributo al fabbisogno energetico nazionale dal 7% al 14%, investimenti per circa 15 miliardi di euro e un incremento dell’occupazione nel settore (17)”.
Il nostro Paese, dunque, potrebbe trarre ricchezza dagli idrocarburi, nonostante ciò Eni continua a sostenere l’impossibilità di lavorare a causa di impedimenti sulle esplorazioni, dettati dalla politica, dai comitati e dai sottocomitati, che spingono la società freneticamente verso l’estero. Bisogno incombente di emigrare, che deriva dalla preoccupazione di un incremento dell’export del gas dagli Usa.
Si tratta del cosiddetto shale gas, ovvero di gas non convenzionale estratto da una particolare roccia argillosa, grazie al quale la produzione interna degli Stati Uniti è aumentata del 50% e ha toccato quota 624 miliardi di m3 nel 2009, con oltre il 10% di shale gas e prospettive al 2035 di una produzione di gas da shale pari al 26% della produzione nazionale. Il nuovo shale gas impone la rinegoziazione dei contratti take or pay per riallineare i prezzi del gas acquistato alle nuove condizioni di mercato, che vedranno a breve una massiccia esportazione di gas liquido dagli Usa all’Europa. Per queste ragioni Eni sta chiudendo (a quale prezzo?) altri contratti take or pay in Egitto, Libia e Algeria, dove ha sempre lavorato senza perdite di produzione. Uno sviluppo maggiore verso l’area nordafricana, dato che i rapporti con la Russia si stanno incrinando a causa di una grossa vertenza con l’Unione europea sulla rivendita del gas.
Il motivo è semplice: Mosca non accetta che le società europee, cui smercia gas naturale, lo rivendano ai distributori europei, quindi ai consumatori finali (privati o industrie) a prezzi di mercato, impedendogli così di controllare le tariffe finali. La russa Gazprom sta cercando di staccarsi dalla collaborazione col Cane a sei zampe, attraverso nuovi progetti che escluderebbero l’Ucraina dal transito del metano proveniente dalla Russia, estromettendo di conseguenza la maxi-pipeline (63 bmc di gas l’anno) in programma con Eni e altre due compagnie petrolifere. Il primo progetto è quello stipulato con la polacca EuroPolGaz, per ampliare il gasdotto Yamal-Europa che porta gas dalla Siberia occidentale fino in Germania: 33 miliardi di metri cubi l’anno che si vorrebbero aumentare di 15 miliardi per giungere in Ungheria e Slovacchia; il secondo riguarda l’olandese Gasunie e il raddoppio, da 55 a 110 miliardi di metri cubi, del North Stream che collega Russia e Germania, in futuro anche il Regno Unito.
Nell’Antidühring Engels scriveva che le funzioni sociali di produzione e scambio sono influenzate da azioni esterne, si condizionano l’una con l’altra e agiscono l’una con l’altra; le loro condizioni mutano a seconda del Paese e della generazione (epoca storica). Produzione e scambio stanno quindi condizionando non solo il mercato del gas, nel quale Eni si muove, ma anche i rapporti sociali, sia nazionali che internazionali.
Contratti take or pay e ribassi del costo benzina, gli effetti sociali della produzione in Italia
Secondo Marx, “la produzione e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale; […] in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione dei prodotti, e con essa l’articolazione della società in classi o stati, si modella su ciò che si produce, sul modo come si produce e sul modo come si scambia ciò che si produce (18). Se questo è vero, allora bisognerebbe capire come produzione e scambio condizionino un Paese che consuma 78 miliardi di metri cubi di gas all’anno, di cui 20 derivano da contratti take or pay stipulati con la russa Gazprom.
Si tratta di contratti d’acquisto che prevedono, per l’acquirente, l’obbligo di pagare, per intero oppure parzialmente, il prezzo di una quantità minima di gas o petrolio stabilita in fase contrattuale, anche nel caso che tale gas o petrolio non vengano poi ritirati; questo fa sì che il conseguente calo della domanda ricada sull’acquirente (e fornitore sul mercato), in questo caso Eni, che infatti sta cercando di rinegoziare l’80% delle forniture stipulate non solo con Gazprom ma anche con Statoil, Noc e Sonatrach, che costano all’azienda 1,5 miliardi di euro.
Come abbiamo detto l’Italia è il Paese in cui il gas costa più caro, e la colpa principalmente è dovuta a questi contratti, che sono stati formalizzati nel 2007 quando lo shale gas americano era già più competitivo. Perché quindi stipulare un accordo a prezzi sfavorevoli in partenza? Tornando alla puntata di Report sugli ‘affari’ del Cane a sei zampe, ci interessa la dichiarazione di Bill Emmott, ex direttore di The Economist: “In Gran Bretagna si dà per scontato il rapporto politico e d’affari tra Berlusconi e Putin. Ho parlato con uomini dei nostri servizi segreti e sanno bene che si tratta di un business personale. Poi certo, tutto passa per gli accordi con le aziende di Stato in Italia, ma è innanzitutto una questione personale. […] I servizi segreti britannici ritengono che con Putin abbia relazioni corrotte sulle questioni riguardanti il gas”.
La puntata di Report ha scatenato una denuncia da parte di Eni a Milena Gabanelli, e una richiesta di risarcimento alla Rai di 25 milioni di euro per danni all’immagine dell’azienda. “Nella citazione che ci è arrivata, contestano tutto” ha dichiarato la conduttrice, “a partire dal titolo. Contestano che il maggior costo del gas dovuto ai contratti take or pay con la Russia finisca sulle bollette, quando lo stesso Scaroni ha chiesto in un’audizione al Senato che non siano gli azionisti a farsene carico. La ricostruzione dell’opacità nei contratti con il Kazakistan. Le critiche alla campagna sconti della scorsa estate. La questione ambientale in Basilicata. Perfino la remunerazione di Scaroni, pubblicata sul sito dell’Eni, e di cui abbiamo spiegato il meccanismo delle stock option pagate per cassa. Ce n’è di spazio in 145 pagine…” (19).
La stessa Eni che poi destina decine di milioni di euro alle campagne di marketing, come quella della scorsa estate sul ribasso dei costi del carburante alle stazioni Eni e Agip, dopo aver segnato rincari continui nei mesi precedenti. Secondo le stime del gruppo è stato venduto, senza alcun guadagno, 1 miliardo di litri di carburante, applicando 20 centesimi in meno al litro nei fine settimana. Un’operazione che ha reso la situazione dei gestori ancora più critica: secondo la Cisl Fegica, sindacato dei benzinai, le circa 4.300 pompe a marchio Eni sono indebitate di oltre 300 milioni di euro, e per poter aderire all’iniziativa Iperself h24, ovvero offrire gli sconti alla macchinetta self service anche di giorno, il gestore doveva rinunciare fino al 70% del margine definito sindacalmente.
Eni, in questo modo, non ha violato solo la norma che obbliga al rispetto degli accordi sindacali, ma anche la legge 27/2012 sulle liberalizzazioni. Per i gestori significa niente mercato all’ingrosso, che potrebbe rendere più trasparente la formazione del prezzo della benzina. E niente nuovi contratti per liberarli dal controllo delle grandi compagnie, e servirsi direttamente sul mercato, come avviene per le pompe bianche.
Per quanto il mercato possa non essere affatto sinonimo di concorrenza. La Guardia di finanza di Varese ha infatti avviato un’inchiesta nei confronti di diverse compagnie petrolifere – Shell, Tamoil, Eni, Esso, TotalErg, Kuwait Petroleum – che tra gennaio 2011 e marzo 2012 hanno aumentato ingiustificatamente i prezzi. Le accuse sono di truffa, rialzo e ribasso fraudolento dei prezzi sul mercato e manovre speculative su merci. Anche l’Authority per la concorrenza e il mercato e il ministero dello Sviluppo economico hanno aperto un’istrutoria. Pare che fondi d’investimento in materie prime come petrolio, rame, argento ecc. e i fondi indicizzati quotati in borsa, gli EFT sul petrolio, siano stati influenzati da azioni speculative messe in atto dalle compagnie petrolifere sotto indagine, attraverso strumenti di finanza derivata finalizzati al mantenimento di prezzi elevati sui mercati del greggio di loro proprietà, allo scopo di poter imporre alti prezzi alle pompe. Il Condacons ha lanciato una class action sui prezzi dei carburanti cui possono aderire 34 milioni di automobilisti, che si costituiranno parte offesa, per richiedere il risarcimento.
Questi, dunque, sono gli effetti prodotti dal modo di distribuzione e di produzione di Eni, gli effetti del capitalismo globalizzato che gode quando aumenta la produzione e soffre nel momento in cui diminuisce, e la distribuzione diventa diseguale. Un modo di distribuzione e produzione, non dimentichiamolo, che secondo le indagini della magistratura ancora in corso poggia anche sul pagamento di tangenti.
L’inquinamento al delta del Niger, conseguenza della moderna distribuzione del Capitale
Mentre per l’High Court inglese e la procura italiana fioccano mazzette, sversamenti di greggio che inquinano la zona e rovinano la vita di contadini e pescatori – più di 20 milioni di persone dipendono dall’ecosistema del territorio – sono le conseguenze dell’attività estrattiva di petrolio al delta del Niger. In questa zona, dalla fine degli anni ‘50, sono state autorizzate a trivellare petrolio sia Eni che Shell. Da allora, al delta si stima siano stati riversati più di 1 milione di galloni di petrolio. A detta delle compagnie petrolifere, la causa del disastro ambientale è nei sabotaggi e nei furti, mentre per la popolazione i problemi sono da cercarsi nella mancata manutenzione e nelle tubature vecchie. Il sospetto più diffuso, per molti, è che questi sversamenti, mai quantificati, siano un metodo utilizzato dalle compagnie petrolifere per coprire ammanchi fiscali, ed estrarre sottobanco quantità indefinite di petrolio.
A marzo di quest’anno Eni è stata costretta a chiudere gli impianti onshore della Swamp Area a causa del cosiddetto bunkering, il sabotaggio degli oleodotti per rubare il greggio, azione che produce inevitabilmente danni ambientali. Associazioni ambientaliste come l’Environmental Rights Action accusano invece Eni e la sua Nigerian Agip Oil Company di aver provocato loro stesse il disastro ambientale nella zona. E, oltre a Eni, anche Shell, che invece di rispondere alle accuse ha messo in discussione le competenze del tribunale olandese, attivato da un gruppo di pescatori e contadini stanchi della situazione.
Nel maggio 2012 Amnesty International ha organizzato una mobilitazione contro Eni e la Nigerian Agip Oil Company, affinché revisionassero tutti i progetti degli impianti relativi al petrolio e al gas, soprattutto in merito al loro impatto ambientale, consultando la popolazione della zona, rendendo pubblici i risultati, e bonificando le aree inquinate dal petrolio. Secondo Amnesty International le aziende Eni, Total e Shell sono avvantaggiate dal debole tessuto normativo nigeriano, tanto da scavalcare anche i più elementari diritti umani. “L’inquinamento ha contaminato il suolo, l’acqua e l’aria del delta del Niger contribuendo inoltre alla violazione del diritto alla salute e a un ambiente sano, del diritto a condizioni di vita dignitose, inclusi il diritto al cibo e all’acqua, nonché del diritto a guadagnarsi da vivere attraverso il lavoro.
Basti considerare che la maggior parte della popolazione vive di fonti di sostentamento tradizionali, come la pesca e l’agricoltura” (20).
Le persone bevono acqua contaminata e cibo avvelenato dal petrolio, e il governo nigeriano (corrotto?) non prende alcun provvedimento. Problemi esistenti fin da quando Eni opera in Nigeria. “Nei siti produttivi di Eni sono inoltre presenti le torce di gas, bruciato durante l’estrazione del petrolio. A causa di questa pratica, detta gas flaring, gli abitanti convivono con una polvere nera che si deposita nelle case, sui vestiti e sugli alimenti e in molti lamentano problemi di salute, per effetto degli agenti nocivi e cancerogeni sprigionati da tali torce.
La qualità di vita viene inoltre compromessa dal rumore delle torce di gas nonché dall’odore acre e dall’illuminazione che esse producono nell’area circostante ventiquattro ore su ventiquattro” (21). Secondo il rapporto UNEP 2001, ci vorranno trent’anni e miliardi di dollari per ripristinare l’ecosistema naturale, ed Eni e Shell dovrebbero farsi carico del peso economico di questa immensa operazione.
Comrade Sunny Ofehe, fondatore e direttore dell’ong Hope for Niger Delta Campaign, intervistato da Africa News nel marzo scorso, ha spiegato come le aziende petrolifere creino, oltre ai disastri già visti, anche emissione di gas serra – il gas estratto viene subito bruciato e introdotto nell’atmosfera – e disoccupazione. Le aziende petrolifere non sono infatti tenute ad assumere forza lavoro locale, che viene utilizzata solo per impieghi dequalificanti e di breve durata. “Le compagnie del petrolio non permettono occupabilità in loco. Se invece questo avvenisse, i nigeriani non sarebbero costretti ad andarsene. E se anche decidessero di farlo, una maggiore cultura e specializzazione gli permetterebbe di integrarsi più facilmente” afferma Comrade Sunny Ofehe. I contadini non ricevono nemmeno i rimborsi per l’usufrutto dei loro terreni. E conclude: “Le popolazioni del delta del Niger potrebbero ritornare a vivere di pesca e agricoltura se calasse la domanda di greggio: una risorsa che si è rivelata più un costo che una benedizione per il popolo nigeriano”.
Un’altra soluzione, tuttavia, potrebbe essere che, una volta “stabilito il carattere sociale dei mezzi di produzione, sia la società ad appropriarsi dei mezzi e delle forze produttive, sottraendole a qualsiasi altra direzione. Così il carattere sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti viene fatto valere con piena consapevolezza dai produttori e si trasforma nella più potente leva della produzione stessa. Le forze socialmente attive agiscono allo stesso modo delle forze naturali che, una volta comprese, vengono assoggettate per i propri fini” (22).
La politica delle mance dei grandi monopoli di fatto, dunque, non è più solo un contratto tacito che mette in rapporto di lavoro corruttori e concussori, presidenti e ministri di governo, con dirigenti e amministratori delegati; non è più solo un sistema che danneggia esclusivamente il loro business o la loro reputazione, nazionale e internazionale; è un meccanismo finanziario occulto e consolidato che ha visto il suo sviluppo maggiore con la politica neoliberista, la libera circolazione dei capitali e la globalizzazione dei mercati. Un nuovo ingranaggio, nel sistema di produzione e distribuzione delle materie prime necessarie a soddisfare i bisogni primari, che incide direttamente sulla popolazione dell’intero pianeta, peggiorandone le condizioni di vita.
(1)Società d’impiantistica del gruppo Eni che “ha un forte orientamento verso attività oil & gas in aree remote e in acque profonde ed è leader nella fornitura di servizi d’ingegneria, di procurement, di project management e di costruzione, con distintive capacità di progettazione ed esecuzione di contratti offshore e onshore, anche ad alto contenuto tecnologico quali la valorizzazione del gas naturale e degli oli pesanti”. Fonte: sito dell’azienda
(2) G. Navach, Eni, Scaroni: “È possibile fare affari senza pagare tangenti”, Reuters Italia, 15 febbraio 2013
(3) M. Panara, Scaroni l’esploratore “Dalla rendita al rischio come sarà l’Eni di domani”, in La Repubblica, 18 marzo 2013
(4) A. Olivieri, «Per Eni meglio scorporare subito Saipem», in Il Sole 24 ore, 28 febbraio 2013
(5) Cfr. G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, Mani Pulite. La vera storia, Editori riuniti, 2001
(6) Ibidem
(7) Ibidem
(8) Ibidem
(9) Eni era a conoscenza che il pagamento di 1,1 miliardi di dollari era destinato a un pregiudicato che riciclava denaro, in globalwitness.org, 11 marzo 2013
(10) Ibidem
(11) Eni-Nigeria, pm Milano: confisca di 24,5 mln più sanzione per Saipem, Reuters Italia, 26 marzo 2013
(12) L. Pagni, Gas, in Europa il mercato è crollato del 15% in quattro anni e ora arriva lo “shale” dagli Usa, in La Repubblica, 20 marzo 2013
(13) Transparency International Italia, CPI 2012 Indice di percezione della corruzione, dicembre 2012
(14) R. Ricciardi, Eni, la remunerazione di Scaroni sale da 4,9 a 6,4 milioni in un anno, in La Repubblica, 9 aprile 2013
(15) M. Panara, Scaroni l’esploratore “Dalla rendita al rischio come sarà l’Eni di domani”, in La Repubblica, 18 marzo 2013
(16) Cfr. L’Eni: “In cinque anni consumi di gas calati del 15%”, in Romagna noi, 20 marzo 2013
(17) Ibidem
(18) F. Engels, Antidühring, 1878
(19) S. Rizzo, Gabanelli: “Difendo il diritto di fare inchieste in un Paese civile”, in Corriere della Sera, 2 aprile 2013
(20) Petrolio, inquinamento e povertà nel delta del Niger, Amnesty.it
(21) Ibidem
(22) F. Engels, op. cit.