di Mariano Pedrengo e Gigi Malabarba |
In Argentina più di 250 fabbriche occupate-recuperate danno lavoro a 30.000 persone: dall’esperienza della FaSinPat (Fábrica Sin Patrónes) a quella della RiMaflow in Italia
Incontro-dibattito presso il Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa (Milano), 19 giugno 2016, sul tema delle fabbriche occupate-recuperate: dall’argentina ex Zanon, oggi FaSinPat (Fábrica Sin Patrónes, Fabbrica Senza Padroni), alla RiMaflow di Trezzano sul Naviglio
Nell’Argentina della crisi esplosa nel 2001 nasce l’esperienza delle ‘fabbriche recuperate’, aziende abbandonate dagli imprenditori, occupate dai lavoratori e recuperate alla produzione in regime di autogestione operaia. La ceramica ex Zanon, oggi FaSinPat, 450 lavoratori all’attivo e sul fronte della lotta fin dall’inizio, è diventata uno dei simboli delle fabricas recuperadas. Oggi in Argentina le imprese autogestite sono più di 250, vanno dal settore manifatturiero a quello dei servizi e occupano 30.000 lavoratori. Dall’America latina l’esperienza è arrivata in Europa, in Francia, Grecia e Italia, dove nel 2012 è nata RiMaflow, una cooperativa di lavoratori licenziati dalla Maflow che ha recuperato la fabbrica, riconvertendola dalla produzione di automotive al riuso e riciclo di apparecchiature elettriche ed elettroniche (1).
Mariano Pedrengo (FaSinPat). Innanzitutto una premessa. La crisi del 2001 non ha innescato le occupazioni delle fabbriche: certamente molte sono state successive, ma tante erano già iniziate – la Zanon, per esempio, era già stata occupata, e oggi, grazie a una legge, è stata espropriata ed è di proprietà dei lavoratori. Tuttavia la crisi ha avuto un peso importante nel processo di autogestione, perché ha permesso un salto culturale rispetto all’idea di ‘legalità’: il governo si era rivelato corrotto, le banche avevano chiuso non restituendo i soldi alle persone, il concetto di legalità era entrato in crisi, aveva perso la sua sacralità.
È stata la classe media a ribellarsi, quelli che picchiavano sulle vetrine delle banche nelle immagini che hanno fatto il giro del mondo erano i piccoli imprenditori e i liberi professioni, e la loro rivolta, unita a quella dei disoccupati, è stata decisiva e ha contribuito a facilitare le occupazioni. Ma il movimento operaio, che aveva subìto la crisi precedente delle riforme neoliberiste del governo Menem, non è stato l’attore principale della ribellione. Dopo la realtà è cambiata e abbiamo temuto una dura repressione, perché quando alla classe media è stata restituita la possibilità di risparmiare, e i disoccupati sono stati tenuti buoni con un po’ di misure sociali, la situazione si è calmata ma a quel punto le fabbriche occupate erano sul fronte.
Per capire cosa significhi per noi autogestione, due parole su come siamo organizzati alla FaSinPat. Almeno una volta a settimana c’è la riunione dei delegati, che è una sorta di organo esecutivo, una trentina di lavoratori eletti dagli operai – ogni reparto elegge un delegato per ogni turno, revocabile in qualsiasi momento. È una riunione in cui si discute sia di temi legati strettamente alla produzione della fabbrica che di politica, nel senso che ci si confronta sulla posizione che l’azienda dovrà prendere in merito alle politiche nazionali. La logica sottesa è che la fabbrica si regge su due gambe, la parte produttiva e la battaglia politica.
Chi poi decide ogni cosa è l’assemblea generale, a cui partecipano tutti i lavoratori e che si riunisce almeno una volta al mese: si blocca la produzione – la FaSinPat produce 24 ore su 24 – e i diversi turni si riuniscono alle otto del mattino. Non ci sono limiti di tempo, in teoria l’assemblea dovrebbe chiudersi nelle otto ore di lavoro ma alcune sono durate due giorni, una anche tre, perché c’erano disaccordi; le decisioni infatti non si prendono al 51% ma a larga maggioranza, e se non c’è andiamo avanti a discutere finché non si trova un accordo che sia davvero maggioritario, sia sulle questioni politiche che su quelle produttive. Siamo 450 persone e tra noi ci sono posizioni politiche diverse, di sinistra, di destra, qualunquiste… quindi a volte non è facile, ma il nodo che ci unisce tutti è l’autogestione e la convinzione che debbano esistere i due aspetti, la produzione e la lotta politica.
Un altro punto importante è il sistema di rotazione dei posti di lavoro: tutti i compagni possono cambiare mansione, passare dalla linea in produzione alla contabilità in ufficio. È un modo per combattere l’alienazione ma anche per avere una visione globale della produzione, e permette un passaggio del sapere: quando lavori in un’azienda dove voti tutto in assemblea, sai quanto costa una macchina, una piastrella, conosci ogni aspetto del funzionamento dell’impresa.
Apro una parentesi su questo tema. C’è una fabbrica autogestita che produce mattoni: sono settanta operai, con un’alta percentuale di analfabetismo, nessuno ha finito le scuole secondarie, e il 70% ha più di sessant’anni. Quando i dirigenti della ex proprietà hanno saputo che i lavoratori volevano autogestire la fabbrica si sono messi a ridere, dicendo che non avrebbero mai saputo farla funzionare. Oggi questa impresa è sotto gestione operaia da sei anni, e i lavoratori hanno un salario molto più alto di quello che abbiamo alla FaSinPat. Credo sia una dimostrazione chiara di quello che la gestione operaia può provocare nella testa delle persone. Quando si partecipa a queste cose, si ha la sensazione che siano il seme di quello che potrebbe essere il futuro.
Questo non significa che pensiamo che l’autogestione sia la soluzione obbligatoria. Per noi è stata la risposta al problema concreto del lavoro, per non ritrovarci disoccupati quando la fabbrica stava per chiudere. Ma non è solo questo. In Argentina è aperto il dibattito sul tema dell’autogestione, se è una specie di socialismo, o un territorio liberato, se è sufficiente per vivere… È chiaro che non lo è, perché anche se dentro la fabbrica si riesce a costruire uno spazio di libertà e di maggiore democrazia in una forma di gestione collettiva, fuori c’è il mercato capitalistico, e con quello ci si deve rapportare.
Per questo consideriamo la fabbrica una trincea di lotta, perché ci sentiamo parte del movimento operaio, del popolo argentino che lotta per i suoi diritti, e non si può pensare di salvarsi con un’autogestione in fondo alla Patagonia. Questo non significa solo solidarizzare con le altre lotte, vuol dire anche che la fabbrica è del popolo, che è una fabbrica aperta alla comunità, che ha una funzione sociale. Detto così sembra una semplificazione, ma nei fatti significa, per esempio, che dopo anni di lotta con il governo abbiamo ottenuto che all’interno della fabbrica si creasse una scuola secondaria pubblica, con un’organizzazione degli orari che tiene conto dei turni di lavoro, permettendo così agli operai di tutto il polo industriale della zona di poter frequentare le lezioni.
Significa anche organizzare eventi culturali dentro la fabbrica, come mostre e festival di musica. Nel 2011 – ma non solo in quell’occasione, ne organizziamo continuamente – per festeggiare i dieci anni dell’autogestione è venuto Manu Chao a cantare: 25.000 persone dalle quattro del pomeriggio alle quattro di notte, e non c’è stato un solo problema, e non c’era polizia in giro perché noi non permettiamo che entri in fabbrica, e imponiamo anche che non sia presente nel raggio di chilometri intorno allo stabilimento. Abbiamo fatto più di quindici giorni di concerti, sono passati migliaia di giovani e tutto è andato bene, a dimostrazione che la gioventù, sempre criminalizzata, è tranquilla quando gli si dà uno spazio di libertà.
Significa inoltre che la produzione deve avere uno scopo sociale. La nostra è una regione ricca, petrolifera, eppure c’è molta povertà. Per dare un’idea, nella capitale vivono 350.000 persone e mancano 70.000 case, e anche scuole e ospedali. Quindi non solo abbiamo lottato insieme ai lavoratori della scuola e della sanità, ma abbiamo anche fatto pressione e imposto al governo di costruire nuove scuole e ospedali. Abbiamo detto: noi ci mettiamo le piastrelle, e qui lo Stato deve costruirli. Il punto è che in un mondo nel quale mancano cose necessarie, chiudere una fabbrica è un crimine sociale, per due ragioni: perché si perdono posti di lavoro, e questo significa fame per le famiglie, e perché si smettono di produrre beni che hanno un interesse sociale.
Significa anche riconoscere le altre lotte. L’argilla che usiamo, per esempio, si trova in territorio Mapuche. L’ex proprietario Zanon non la pagava, in pratica la rubava, e ci fabbricava piastrelle con nomi italiani: Venezia, Firenze… Dopo aver occupato abbiamo fatto un accordo con la comunità Mapuche e ora non solo compriamo l’argilla, rispettando la terra da cui proviene, ma abbiamo anche voluto dare un contributo culturale e ideologico alla lotta dei Mapuche, creando quattro nuovi modelli di piastrelle e chiedendo ai Mapuche di deciderne i nomi: hanno scelto quelli di quattro leader che hanno resistito all’invasione argentina, rimanendo uccisi. Per noi è un onore essere riusciti a fare un prodotto con la terra del popolo Mapuche, in una fabbrica occupata, rivendicando la loro storia e tradizione, ricordando la repressione che hanno subìto e che subiscono e riconoscendo legittima la loro lotta.
Tutto questo per noi vuol dire fare della fabbrica una trincea di lotta, e non è stato facile arrivare fin qui. Ci siamo riusciti perché non abbiamo ceduto ma soprattutto perché abbiamo avuto fin dall’inizio una politica di sostegno alla comunità, e la popolazione ha ricambiato.
Prima di arrivare all’autogestione siamo dovuti passare per il controllo operaio, che ha nulla a che vedere con la cogestione, che anche in Argentina esiste, compresa nella sua versione più perversa che è la partecipazione del lavoratore ai dividendi dell’azienda, che apparentemente sembra una conquista ma in realtà è un modo di partecipare allo sfruttamento e ai benefici del padrone – non facciamo sciopero così il bonus di fine anno è più alto, questa è la dinamica che innesca. Controllo operaio significa controllare la proprietà, non cogestire con la proprietà. Prima che occupassimo Zanon diceva che la fabbrica era in crisi, e molti compagni ci credevano perché tutto il Paese era in crisi. Eravamo una minoranza a dire una cosa sola: vogliamo vedere la contabilità. Perché facevamo i conti della produzione e delle vendite, contavamo i camion che uscivano, e dimostravamo che la fabbrica non era affatto in crisi, quindi chiedevamo di vedere i libri contabili; chiaramente Zanon non ce li ha mai dati.
Questa stessa posizione l’abbiamo tenuta alla Ceramica Stefani, e in questo caso la discussione era tra un compagno di sessant’anni con un pezzo di foglio e una penna e la proprietà con i computer, e sempre il confronto terminava dicendo: la fabbrica senza padrone può produrre, senza operai no.
Un altro caso è stato quello della Ceramica Neuquén, una fabbrica che, pur non avendo l’ultima tecnologia, ha impianti molto più avanzati dei nostri – per dare un’idea, con due presse e una sola linea e settanta lavoratori producono tanto quanto noi con 450 operai, quattro presse, sei linee e quattro forni. Nel 2008/2009 nel Paese c’è stata una piccola crisi economica e la proprietà ne ha approfittato per iniziare a dire che l’impresa andava male. I lavoratori non volevano la gestione operaia, noi gli abbiamo detto che erano loro a dover scegliere ma che come sindacato non potevamo accettare che ci fossero licenziamenti e diminuzione di stipendi senza vedere i libri contabili; ebbene, oggi la fabbrica è in autogestione e produce.
Anche in Argentina, come in Italia, ‘autogestione’ era un concetto non immaginato, non considerato come possibile alternativa. Non era un percorso programmato, semplicemente ci siamo opposti alle chiusure delle fabbriche ed è saltato fuori. Oggi è una realtà che nessuno può più contestare, e con l’attuale crisi economica, non solo in Argentina ma in tutta l’America latina, stanno ricominciando nuove situazioni di autogestione. Non la consideriamo una soluzione definitiva, ma una politica alternativa di fronte ai licenziamenti. Il passaggio successivo è l’esproprio della fabbrica.
Noi siamo per la statalizzazione dell’impresa sotto controllo operaio, che non è il capitalismo di Stato, non è l’Unione sovietica, ha nulla a che fare con la logica della statalizzazione, al contrario rompe quella logica. Perché il problema sono le imprese grandi, non certo quelle piccole. In una micro azienda nella quale il costo della mano d’opera pesa molto di più di quello degli impianti si può anche creare una cooperativa ed economicamente sopravvivere, ma non è possibile farlo in una grande azienda a forza incidenza di capitale. Per questo la fabbrica deve essere dello Stato, perché si pone la questione degli investimenti. Noi diciamo che non esiste un’impresa al mondo a capitale intensivo che si possa costruire senza l’aiuto pubblico, e il nostro denaro, del popolo, deve andare a sostenere le fabbriche del popolo.
È un tema che negli ultimi mesi è tornato d’attualità, insieme alla coordinazione delle fabbriche recuperate, perché in questi anni le imprese sono rimaste indietro nello sviluppo dei lo-ro impianti e oggi la crisi le obbliga a mettere sul tavolo la questione del rinnovamento tecnologico. Per noi statalizzazione significa che lo Stato deve investire nell’impresa ma la fabbrica deve essere gestita in modo democratico dai lavoratori e non dai manager/burocrati statali, per due ragioni: la produzione deve avere un destino sociale e non rivolto al mercato, e la fabbrica deve essere aperta alla comunità, e sono entrambe possibili solo se c’è il controllo operaio. Quando abbiamo discusso questo aspetto in Parlamento i deputati sono rimasti allibiti, perché porre la questione del capitalismo non solo dentro la fabbrica ma nello spazio sociale è il punto di rottura, quello che non possono accettare perché sovversivo. Il capitalismo ti permette, anche legalmente, di fare una cooperativa, di crearti un piccolo spazio felice, quello che non ammette è la produzione in senso sociale e autogestita insieme alla comunità.
Un esempio concreto di cosa questo significhi è quello della Brukman, una fabbrica che produceva vestiti di alta qualità e che una volta in autogestione, per decisione delle sessanta lavoratrici, ha iniziato a confezionare divise per gli alunni delle scuole. Ce n’è bisogno, hanno detto, i poveri non possono permettersele, e quindi noi le produciamo e lo Stato deve pagarle. Oppure il caso di una tipografia, qualche anno fa, che stampava una rivista stupida e inutile e in autogestione ha deciso di produrre quaderni per le scuole, sempre pagati dallo Stato.
In questo modo noi espropriamo gli espropriatori, quelli che fino a oggi hanno usato i soldi del popolo per fare i loro investimenti; ora il popolo prende il denaro e decide dove è importante investirlo. Va detto che su queste posizioni siamo una piccola minoranza, la maggior parte del movimento delle fabbriche recuperate non pone obbligatoriamente questo aspetto come punto fondamentale, si limita a creare una cooperativa e si chiude nella propria impresa liberata, producendo per il mercato e non mettendo in discussione il capitalismo. Ma dimostrare che si può fare significa accendere una piccola luce che può indicare un cammino.
Certo oggi stiamo attraversando una situazione complicata, a causa della politica di Macri e della recessione economica che ha raggiunto l’America latina. Da una parte abbiamo un calo dei consumi, dall’altra un incremento delle tariffe energetiche – il gas, per esempio, è stato aumentato del 1.500 per cento da un giorno all’altro: per noi significa passare da una bolletta di un milione di pesos a 9 milioni. Dall’inizio dell’anno l’inflazione è aumentata del 25%, e nessuno sa che impatto avrà l’aumento del gas, probabilmente si arriverà a fine anno con un’inflazione del 40%, quando tutti gli accordi aziendali hanno previsto aumenti retributivi del 20%.
Negli ultimi sei mesi ci sono stati 150 mila licenziamenti, e i dati ufficiali forniti dalla Chiesa, l’unica fonte esistente perché non ci sono altre analisi, parlano di 1,5 milioni di poveri in più dall’inizio del 2016, in un Paese di 40 milioni di abitanti. È chiaro che in questa situazione le fabbriche recuperate sono in forte difficoltà, perché hanno problemi ad avere crediti. Ma questo dimostra una volta di più che non ci si può limitare all’autogestione di un’impresa quando fuori dominano il capitalismo e il libero mercato: la fabbrica deve essere una trincea di lotta, ed è bene che siano qui anche i compagni della RiMaflow, perché significa che quando i lavoratori devono lottare, la lingua, la cultura, le frontiere non sono un problema, si può combattere tutti insieme e nello stesso modo.
Gigi Malabarba (RiMaflow). Può essere interessante dire due parole sulle relazioni tessute da queste realtà. L’aspirazione del coordinamento internazionale delle fabbriche recuperate è riuscire a scambiare le esperienze, di modo che le situazioni più avanzate, che hanno fatto più strada e quindi hanno già dovuto affrontare una serie di difficoltà trovando degli sbocchi, possano essere riprese da altri Paesi. La RiMaflow ha partecipato sia all’incontro in Fralib, in Francia, due anni fa, che a quello in Venezuela nel luglio dell’anno scorso, e ci so-no anche incontri regionali suddivisi per aree – America latina, Stati Uniti, Messico, Europa… Quest’anno ci troviamo a ottobre alla Vio.Me di Salonicco, ora sotto attacco. Il tema sul tavolo è la costruzione di un’alternativa politica e sociale, di questo si discute.
Alla RiMaflow la pensiamo come in FaSinPat, ossia sosteniamo l’idea di un’autogestione conflittuale, proprio perché non può sopravvivere una fabbrica isolata, il socialismo in un piccolo angolo della Patagonia o a Trezzano sul Naviglio, dentro un mercato capitalistico. Quindi attraverso canali sindacali o di coordinamento tra le fabbriche recuperate cerchiamo di costruire dei fronti, perché la trincea de-ve essere strutturata, perché dobbiamo essere dentro il conflitto sindacale e sociale più generale, perché dobbiamo cambiare la situazione nell’insieme della società. Fin dall’inizio, co-me RiMaflow, abbiamo pensato esattamente a questo: diamo una risposta al bisogno immediato di lavoro, ma non riusciremo a sopravvivere da soli. E mentre dai questa risposta cerchi di capire qual è l’alternativa generale di società. Anch’io credo che l’autogestione della singola realtà non sia che un primo passo, anche se già dimostrare che è possibile produrre senza padrone prefigura una società diversa.
Per la RiMaflow, per Officine Zero, per quelle poche realtà che ci sono in Italia e in Europa, l’esempio argentino è stato fondamentale. Ci è arrivato attraverso i canali del movimento altermondialista di quegli an-ni, attraverso alcuni filmati, anche quelli non proprio ben fatti dal punto di vista contenutistico come il documentario di Naomi Klein, molto discutibile sotto diversi aspetti, però utile a far comprendere che esistono quelle esperienze. Italia e Argentina, tra l’altro, sono simili da diversi punti di vista, oltre a essere entrambi Paesi a capitalismo avanzato, quindi c’è sembrato possibile sperimentare esperienze analoghe.
Al di là delle singole realtà, però, è fondamentale costruire un movimento e anche cercare di convincere pezzi di sindacato sull’alternativa dell’autogestione; soprattutto durante le vertenze, quando non si riesce a ottenere uno sbocco di tipo tradizionale, è importante far capire che la storia non è finita, che è possibile avere un altro scenario, che gli operai possono fare andare avanti la fabbrica, perché quando se ne va un padrone e ne arriva un altro in genere è già una sconfitta, dato che la nuova proprietà mira sempre a dimezzare gli operai, aumentare gli orari di lavoro, porre condizioni più dure. Dovremmo cercare di convincere almeno i sindacati conflittuali, quelli che pensano sia possibile ancora oggi fare delle lotte, quindi soprattutto il sindacalismo di base e poi qualche pezzo di sindacato confederale.
Dopodiché occorre fare anche una battaglia politica per cercare di strappare provvedimenti legislativi che possano consentire ai lavoratori di gestire le fabbriche. Personalmente non credo nell’istituzione che cambia il mondo, ma credo nella mobilitazione di massa che impone delle forme legislative che consentano delle modalità di autogestione. Questa è l’ispirazione della nazionalizzazione sotto controllo operaio, un concetto che ha matrici teoriche storiche e che, come diceva Mariano, non è il carrozzone burocratico gestito dalla Stato con i propri manager ma una proprietà, che in Nicaragua hanno chiamato ‘proprietà del popolo’, gestita direttamente dai lavoratori. Occorre dunque creare un quadro di regole che permetta l’attività di autogestione, anche solo nel fondamentale passaggio di ‘fuga’ del padrone.
L’imprenditore se ne vuole andare a produrre in Polonia, come è accaduto alla RiMaflow e alla Fralib? Bene. Ha preso finanziamenti pubblici fino all’altro giorno? Bene. Allora lascia qui gli impianti, la fabbrica, tutto. Che se ne vada pure in Polonia ma a condizione che i lavoratori possano prendere in mano l’impresa, come risarcimento sociale del fatto che ha intascato soldi pubblici e poi se n’è andato. Questo dovrebbe consentire una legislazione a favore del popolo, dei lavoratori. Ma la si può ottenere solo con un movimento di massa, un fronte sociale ampio che imponga e strappi una legge di questo genere.
È la ragione per cui se ne discute in Val di Susa, perché lì c’è una potenzialità di lotta che anche se diversa nella tematica è dentro le lotte ambientaliste, degli spazi sociali, dei movimenti sindacali, degli studenti. Tutti questi fronti dovrebbero unirsi per creare una alternativa dal basso che strappi delle regole migliori, e non perché, dal mio punto di vista, si possa creare uno Stato migliore, ma per costruire delle istituzioni di contropotere dal basso che sono ben altra cosa rispetto alla gestione del potere in una società capitalistica borghese.
Quindi credo che l’esperienza delle fabbriche recuperate possa aprire una strada, mostrare una possibilità, essere, come diceva Mariano, un pezzo di trincea di lotta. Anche qui in Italia è diffusa la tendenza a volersi creare un piccolo spazio liberato, una cooperativa, e finirla lì. Ma è un’illusione. Dalle nostre parti poi, più che fabbriche recuperate abbiamo esperienze di occupazioni di terre, che diventano situazioni di attività produttiva con una gestione diretta da parte dei lavoratori, ma proprio in campagna è presente, anche se minoritaria, quella logica per cui me ne vado dalla città e mi creo la mia isola felice, un posto dove poter vivere meglio.
È una spinta più che legittima, ma parecchio limitata nella possibilità di costruire un’alternativa. Se invece anche quel tipo di occupazione di terra si inserisce in un percorso di autogestione conflittuale, che quindi si collega alle lotte bracciantili, dei migranti, ambientali, di fabbrica, urbane ecc., ecco che si crea un contesto di costruzione di un’alternativa generale invece di rinchiudersi nel proprio piccolo. Anche perché se ti lasciano gestire la tua micro situazione felice è perché non conti nulla: stai certo che se costituissi un elemento serio di alternativa, cercherebbero di impedirtelo.
Quindi collegarsi e coordinarsi, anche attraverso gli incontri regionali e internazionali, si inserisce in questa logica: creare fronti di lotta e costruire una conflittualità con un progetto politico dal basso. Produzione e politica, insieme.
1) Per approfondire il tema cfr. Le fabbriche recuperate, Andrés Ruggeri, Alegre edizioni, recensito a pag. 81 e il documentario Historias recuperadas, Alejandro Barrientos, http://www.empresasrecuperadas.org/videoteca.php