di Luciana Viarengo |
Recensione de Il rimorso, Alba De Cespedes
«Alba De Céspedes! Chi era costei?»
Non arriverete a ruminare secondo lo stile manzoniano, ma il nome richiederà uno sforzo di memoria, per qualcuno inutile, per altri foriero di un ulteriore quesito: « Non era una scrittrice “rosa” del dopoguerra?»
Purtroppo, come spesso accade, di una personalità vivace ed eclettica non è rimasto altro, quando è rimasto, che un ricordo distorto, confinato in un ambito che ne svilisce il lavoro.
Chi l’ha letta sa che ben poco accomuna gli scritti di Alba De Céspedes e la letteratura rosa, se non la grande diffusione di cui godettero i suoi libri in tutta Europa.
Il fraintendimento è certamente nato dal fatto che questa scrittrice fosse tra le più attente e sensibili osservatrici dell’animo femminile, che femminili siano i suoi personaggi principali e le tematiche portanti di molte sue opere, in una realtà storica e sociale in cui il maschile rappresentava l’essere umano e il femminile rappresentava soltanto il femminile – condizione non ancora del tutto superata.
Nonostante il successo (o forse proprio a causa di questo) di romanzi come Dalla Parte di Lei (1949) ritenuto oggi un’opera protofemminista, e Quaderno Proibito (1952), il grande pubblico ignora lo spessore della loro autrice.
Alba De Céspedes, non solo scrittrice di romanzi ma anche autrice di testi teatrali, di sceneggiature televisive e di programmi radiofonici, fu un personaggio di spicco nella società culturale della sua epoca.
Nacque nel 1911, nipote del primo presidente cubano e figlia dell’ambasciatore cubano a Roma, inevitabile quindi che al suo amore per la letteratura si affiancasse quello per la politica, con un impegno concreto che in pieno regime fascista le costò addirittura il carcere. Da Bari, con lo pseudonimo di Clorinda, fu la voce radiofonica della Resistenza con la rubrica “L’Italia combatte” e due suoi lavori, un libro di racconti e un romanzo, Nessuno torna indietro, che diventerà poi un bestseller internazionale, vennero bloccati dalla censura fascista.
Nel 1944, nella Napoli già liberata, fondò la rivista culturale Il Mercurio, che raccolse, insieme a quella di Hemingway, le firme più prestigiose nel panorama dell’immediato dopoguerra.
Proprio dalle pagine del Mercurio prenderà vita il carteggio con Natalia Ginzburg sul lato oscuro delle donne: l’immanenza, la tendenza femminile all’introspezione, il famoso “pozzo” nel quale le donne a volte sprofondano e che la Ginzburg vede come un limite; Alba De Céspedes, al contrario, non lo rinnega. La discesa nel pozzo rappresenta a suo parere il punto di rottura, il momento nel quale la donna può operare una scelta di libertà, prendendo coscienza (e forse distanza) dalle sovrastrutture sociali che ne condizionano l’esistenza . Grazie alla discesa nel pozzo, potremmo dire parafrasando Simone De Beauvoir, la donna può divenire consapevole dei mille legami sottili che la ancorano alla terra e ne stroncano lo slancio. Secondo Alba De Céspedes, in quel pozzo «sono proprio gli uomini a spingerci […] con le loro parole e più ancora con i loro silenzi» e quando parla di uomini la De Céspedes parla sì di figli, mariti e padri, ma anche di uomini del potere, i quali di spazio e di parola alle donne ne concedevano (forse l’uso del tempo imperfetto è improprio) davvero pochi.
La forte componente femminista contenuta in questa asserzione, tuttavia, non deve far perdere di vista un’altrettanto importante implicazione contenuta nel binomio parole/silenzi, essendo l’incomunicabilità – declinata come impossibilità di affidarsi ad un linguaggio condiviso fino all’estremo limite del silenzio-menzogna – una fra le tematiche portanti di uno dei suoi libri migliori, Il rimorso del 1962. Un romanzo certamente molto amato dalla sua autrice, basterebbe a testimoniarlo la veemenza con la quale, in una lettera conservata nel Fondo Mondadori, chiede la rescissione del contratto che la lega alla casa editrice, per poter pubblicare, una volta concluso il romanzo, con chiunque altro all’infuori di Mondadori.
Che cosa poteva averla spinta, a lavoro quasi ultimato, a decidere di abbandonare il suo editore storico, nonché amico? Semplice: il risvolto di copertina di un’ennesima riedizione del suo libro Dalla parte di lei per mano del direttore di collana, nel quale il romanzo rischiava davvero di apparire come un ennesimo prodotto della letteratura rosa. Il commento, infarcito di espressioni come “tormento interiore”, “toni dominanti che riflettono il suo cuore”, “disegno sfumato e dolce”, usate per descrivere la sua opera, fece infuriare Alba De Céspedes che con una lettera all’incauto direttore bollò tali parole come “escluse dal suo vocabolario”, precisando che avrebbe desiderato piuttosto vedere riconosciuta la validità artistica della sua scrittura, il contenuto etico e lo stile che tale contenuto esprimeva. Lamentò la disistima della quale era fatta oggetto proprio da parte di chi, in qualità di direttore di collana, avrebbe dovuto difendere e apprezzare il suo operato. Sostituire il risvolto di copertina, specificò, non sarebbe servito a farle cambiare idea, «poiché non è la presentazione ai lettori che importa ma quello che Lei pensa». E ciò che l’allora direttore di collana pensava, evidentemente non lo rendeva adatto, «per gli anni impiegati in questo lavoro e il valore che attribuisco al risultato artistico di esso», a ricevere il nuovo nato.
Se teniamo conto del fatto che la stesura de Il Rimorso aveva comportato, per stessa ammissione della scrittrice, l’abbandono di ogni collaborazione giornalistica, con una conseguente situazione economica tutt’altro che florida, non possiamo che apprezzare la sua coerenza, soprattutto pensando a tanti stipendiati dell’industria editoriale di oggi.
Proprio di intellettuali si occupa Il rimorso, di intellettuali fiaccati dal panorama politico e dal boom economico, nell’Italia di fine anni Cinquanta. Alba De Céspedes fotografa attraverso le storie private dei suoi personaggi la crisi di un sistema di valori e la disillusione di quanti avevano visto nella Resistenza un progetto di rinnovamento.
Sulla fabula che l’intreccio di queste storie individuali crea, si sviluppano tematiche molteplici, alcune delle quali coraggiose – come la religione e la maternità, spogliate della retorica iconografica – soprattutto se trattate, nell’ Italia di quegli anni, da una donna.
La trama: Francesca scrive a Isabella, amica d’infanzia con la quale non ha più rapporti da tempo, per chiederle aiuto. La richiesta è in realtà quella di leggere e conservare le lettere che Francesca sta per scriverle e consegnarle poi a Guglielmo, marito di Francesca, solo nel caso che “qualcosa di grave accada”. Come racconterà in queste lettere, Francesca, si è innamorata di un uomo incontrato durante una vacanza e la storia che ne è nata sembra evidenziare, per contrasto, tutti i limiti e le mistificazioni della vita matrimoniale. Per questo, e non tanto per l’amore che la lega a questo nuovo uomo, Francesca sta per abbandonare Guglielmo.
Le donne appartengono entrambe alla borghesia, Isabella per nascita e Francesca per matrimonio ma, mentre Isabella è integrata, conformista e religiosa nel senso più deteriore del termine, Francesca è lo sguardo laico e disincantato, dedito a smontare i meccanismi di facciata del mondo borghese e bigotto di cui è entrata a far parte.
Isabella cercherà, come prevedibile, di dissuadere Francesca, supportando le proprie argomentazioni con ogni possibile stereotipo religioso e sociale al quale possa attingere una donna italiana degli anni Cinquanta. Ma Francesca, attraverso una dolorosa analisi del passato e la presa di coscienza del suo vuoto presente, compie faticosamente il cammino verso l’emancipazione.
La vicenda si dipana così attraverso lo scambio epistolare tra le due donne, fino a quando Isabella, incapace di portarne il peso da sola e all’insaputa di Francesca, non scriverà a Guglielmo, permettendogli di entrare nel romanzo come voce narrante.
Quest’ultimo, direttore di un importante quotidiano romano, ex-partigiano bianco, uomo della democrazia cristiana è il personaggio che nel corso della vicenda non cambia perché il cambiamento più drammatico è già avvenuto prima che il lettore entri nella vicenda.
«Il concordato aveva imbrogliato le carte tra religione e politica e io, allora, in un campo e nell’altro, credevo negli assoluti. Oggi non credo che nei compromessi».
Con la sua facciata di uomo integro e moralista, ha imparato a chiamare “doveri, necessità, concessioni” ciò che una volta chiamava peccati. Si scopre via via la sopraggiunta usura del suo spessore morale, ormai diventato inconsistente, e come sia in realtà il simulacro di tutto ciò che Francesca reputa insostenibile.
Isabella non si rivelerà migliore, la sua amicizia con Francesca, così come la sua vita domestica, nasconde silenzi-menzogne. Dietro la parvenza di amica integerrima e moglie fedele, Isabella annovera una serie di tradimenti: un rapporto con il primo amore di Francesca, una relazione con Guglielmo che ha lasciato segni ben più tangibili del solo ricordo, una serie di incontri sporadici con sconosciuti occasionali. Ciò che maggiormente colpisce nello svelarsi degli aspetti più sordidi è l’assoluta ipocrisia che Isabella, a differenza di Guglielmo ben conscio del proprio essere, mantiene anche nei confronti di se stessa, fino a quando lo stesso Guglielmo non la obbligherà a guardarsi, metaforicamente, allo specchio. Una vista che, si suppone per un rimorso tardivo, Isabella non riuscirà a sopportare.
Parallelamente a questa storia e apparentemente senza motivo, se non per un legame professionale con Guglielmo, ci viene offerto uno spaccato della vita di Gerardo, giornalista presso il quotidiano diretto da Guglielmo, deciso a rinunciare al ruolo di inviato e più tardi all’impiego stesso per la stesura di un libro del quale non riesce neppure a scrivere l’incipit, ma per il quale non fa che accumulare riflessioni e appunti. Fino alla decisione di tenere un diario per monitorare il suo impasse. Sono proprio le pagine del suo diario a comparire nel romanzo, come testimonianza diretta del disagio intellettuale della sua generazione.
I destini di Francesca e Gerardo si uniranno casualmente nelle ultime pagine del libro, accomunati nel viaggio da Roma a Milano, in un percorso abbastanza emblematico dall’immobilismo e dall’ipocrisia culturale verso un futuro incerto ma immensamente più stimolante.
Il romanzo è quindi polifonico: tre voci narranti attraverso uno scambio epistolare e una quarta per mezzo di un diario. Questa scelta stilistica, piuttosto desueta per gli anni Sessanta, è funzionale ad alcune importanti tematiche del romanzo, prima fra tutte l’incomunicabilità. I personaggi molto di rado comunicano verbalmente tra loro, poiché la reciproca comprensione attraverso la parola detta sembra essere preclusa; ogni individuo possiede un linguaggio proprio, non condivisibile. Tuttavia scrivono – ciascuno di loro ha anche un legame con il mondo della scrittura, per professione o velleità – e la scrittura, intesa sia come letteratura sia in senso oggettivo come prodotto dello scrivere (lettere, diario, romanzo) diviene così il solo mezzo di auto-riflessione e di analisi, l’unico strumento per guardare criticamente se stessi e la realtà nel suo aspetto più peculiare, la frammentarietà.
Questa costruzione narrativa diaristico-epistolare dà spazio, attraverso la metascrittura – che troviamo sia nelle pagine-monologo costituite dalle lettere con le quali i personaggi comunicano sostituendole al dialogo e sull’utilità e efficacia delle quali si interrogano e disquisiscono, sia nel diario di Gerardo, dove spesso l’oggetto della scrittura è la Scrittura stessa – a un’altra tematica portante del libro, la crisi degli intellettuali. Così, la difficoltà di Gerardo nello scrivere il libro contrapposta alla continua e fluente redazione del diario simboleggia l’avvitamento su se stessi operato da quegli intellettuali delusi dal clima politico, incapaci di diventare analisti ed esegeti del proprio tempo.
Gerardo sente di appartenere a una generazione incapace di testimoniare criticamente le vicende della sua epoca, perché schiacciata dal rimorso di aver assistito, senza aver potuto prendere parte attiva, al passato di coscienza politica e Resistenza che ha contraddistinto quella dei loro padri – nel quale però questi ultimi si sono arroccati, facendone un salvacondotto per il futuro – e in grado, come dice lui stesso, di parlare solo della «sua squallida vicenda personale».
Ad aggravare la difficoltà dello scrivere, si unisce la consapevolezza, reale e metaforica, «che tutto sia già stato scritto» e che, come dice un collega di Gerardo, «ci vorrebbe qualcosa come Ulisse, o Musil….». Come ribadirà Francesca alla fine, è necessario reinventare il senso stesso delle parole.
Anche la crisi di Francesca, in realtà, non è riducibile banalmente a una crisi personale per cause sentimentali; è una crisi di valori e lei è il personaggio che compie con coraggio, fino alla fine, il suo doloroso percorso di miglioramento, il cammino che la porterà a comprendere che non è in un’altra storia sentimentale (quindi nel piccolo orticello privato) la risposta ai suoi bisogni.
Il rimorso che Francesca prova per essersi lasciata inghiottire dal mondo borghese che disprezza è l’emblema di quello degli intellettuali, imbavagliati e messi a tacere da un sistema di falsi valori.
Non a caso Francesca si affrancherà dal suo ruolo di moglie borghese mantenuta attraverso una scelta professionale legata alla scrittura, e stimolerà Gerardo a concludere il diario e a lasciarsi alle spalle il rimorso di vivere.
«Basta di tutto questo, basta. Sono scuse, pretesti. Queste cose lasciale scrivere a loro. […] La colpa sta diventando la nostra Resistenza. Perché sentire la colpa di vivere? I credenti possono continuare a scrivere della colpa, come certuni continuano a scrivere della Resistenza. Loro possono anche buttarla via la vita». Il messaggio è chiaro, il passato serve a capire il presente, ma è l’impegno per il presente che l’intellettuale deve riscoprire.
Sembra un’ esortazione più che mai attuale, oggi che gli intellettuali sembrano aver abdicato alla loro funzione di pensatori critici, proprio nel momento in cui, come allora, fallimenti culturali, politici e morali ne reclamano la presenza.
Tristemente attuale anche un articolo di Alba De Céspedes, “Quando l’Italia perse le illusioni” apparso nel ‘94 sul Corriere della sera, testimonia quanto forte fosse stata la disillusione di chi aveva riposto nella Resistenza una speranza di rinnovamento poi disattesa dagli eventi: «Vedevo i protagonisti politici della Resistenza avvilirsi e spegnersi nell’accettazione dei riti della democrazia parlamentare. La tragedia diveniva commedia. Il mio paese d’adozione usciva dalla Storia e il mio paese d’origine, Cuba, si preparava a rientrarvi, ma ciò sarebbe accaduto solo una decina di anni più tardi ».
Parlare di Alba De Céspedes come di una scrittrice di romanzi rosa significa disconoscerne l’impegno umano e intellettuale.
La sua scrittura ha un colore diverso.
Il Rimorso, Alba De Céspedes, Arnoldo Mondadori Editore, 1963