Milano, 1 ottobre 2013. I problemi della sentenza di Cassazione
Attendibilità delle consulenze della procura e mancanza di step diagnostici, questi i cardini del teorema accusatorio che la Cassazione conferma; la perizia super partes DP li nega entrambi, sollevando forti dubbi sulla valutazione effettuata dai consulenti dell’accusa su tutti i casi del processo, ma i giudici la riportano in modo errato e parziale e non dispongono una perizia super partes su tutti i casi. Documenti alla mano, leggiamo cosa non va
Le 76 pagine che costituiscono le motivazioni della sentenza di Cassazione contengono diversi aspetti interessanti da analizzare; tra questi – che vedremo nel dettaglio – quello più paradigmatico, perché li contiene tutti, è il caso DP, o meglio, il modo in cui la Corte di Cassazione ha fatto i conti con la perizia super partes disposta da un tribunale civile sul caso DP.
Come abbiamo più volte evidenziato, l’esistenza della consulenza DP mette in crisi l’intero teorema accusatorio, perché i periti super partes hanno giudicato corretto l’operato del dottor Brega Massone, confermando l’indicazione chirurgica sullo specifico caso; hanno quindi condiviso la valutazione effettuata dai consulenti della difesa e negato quella dei consulenti della procura; ed essendo l’unica perizia super partes esistente sull’ottantina di casi portati a processo, pone un legittimo dubbio sull’attendibilità delle valutazioni operate dai consulenti della procura, su cui si basa l’accusa di lesioni dolose; un dubbio che i giudici per primi avrebbero dovuto voler sciogliere.
Al contrario, sia la Corte di appello che ora quella di Cassazione, non solo non hanno voluto disporre una perizia super partes su tutti i casi del processo, nonostante gli avvocati di Brega Massone l’abbiano più volte richiesta, ma hanno confermato la condanna di lesioni dolose anche per il caso DP.
E se a marzo del 2012 la Corte di appello ha fatto il gioco delle tre carte per salvare il teorema accusatorio, oggi la Cassazione ha fatto peggio, perché ha utilizzato il contenuto della consulenza DP in modo errato e parziale.
Vediamo nel dettaglio.
Scrive la Cassazione (pag. 51-52 motivazioni sentenza) che “nella sentenza [di appello, n.d.a.] è stato dato atto della produzione della consulenza disposta nella sede civile e dei suoi risultati: plausibilità, in riferimento al tipo di patologia in esame, delle diverse soluzioni diagnostiche e interventistiche, compresa quella adottata nel caso di specie che è stata giudicata, dagli stessi consulenti di ufficio, corretta”; la Corte definisce inoltre la scelta chirurgica operata da Brega Massone come un’opzione “plausibile fra altre pure plausibili (come sostenuto nella causa civile del c.t.u.)”.
Ora: la consulenza della causa civile (qui il documento) non dice affatto questo.
Vi si legge (pag. 38-41):
“Di fronte ad un reperto TAC di questo genere si è trattato di prendere una decisione:
1) proseguire con il follow-up
2) procedere con procedure diagnostiche più invasive (agoaspirato TAC guidato)
3) procedere ad una diagnostica definitiva e risolutiva.
Nel primo caso il follow-up appariva già congruo essendo trascorsi mesi dal riscontro dell’addensamento polmonare durante i quali la paziente aveva eseguito una decina di radiografie del torace e 3 TAC del torace.
Nel secondo caso l’esecuzione di una FNAB (agoaspirato con ago sottile) non sarebbe stata la scelta migliore trovandosi di fronte ad un soggetto obeso [età 50 anni, altezza 1,67 cm., peso 98 kg., n.d.a.], fumatore [all’epoca dei fatti di almeno 20 sigarette al giorno, n.d.a.] e già con dispnea da sforzo. Se si tiene presente l’elevato rischio di complicanze (pneumotorace) e l’elevata percentuale di falsi negativi che la metodica comporta, si conviene che l’esecuzione di un esame citologico mediante FNAB in un soggetto di questo tipo non era proprio la migliore procedura da attuare.
Nel terzo caso la scelta sarebbe stata quella di procedere con una metodica più invasiva ma sicuramente più risolutiva, l’esecuzione di una VATS (video toracoscopia). […] La scelta di eseguire una toracoscopia (metodica mininvasiva) di fronte ad un nodulo di dimensioni superiori a 8 mm. (in questo caso si parla di nodulo di 2,5 cm.) che persisteva dopo una polmonite e dopo un congruo follow-up in un soggetto FUMATORE è stata appropriata. Sarebbe stato forse più criticabile un atteggiamento più conservativo con un follow-up prolungato, se poi alla fine ci si fosse trovati di fronte ad esame istologico con reperti di neoplasia maligna (gli elementi probabilistici potevano comunque propendere per questa evenienza)”.
Le tre scelte prospettate dai consulenti, quindi, non sono parimenti plausibili, come dichiarato dalla Cassazione; la prima (il follow-up) è considerata poco sensata e criticabile, e la seconda (agoaspirato) addirittura rischiosa. Secondo i consulenti il dottor Brega ha dunque preso la decisione più appropriata per la salute della paziente – che, per inciso, come scrivono sempre i consulenti che l’hanno visitata (pag. 19), è oggi “soggetto in buone condizioni generali”.
Sempre sul caso DP, la Cassazione poi scrive (pag. 52): “Il giudice dell’appello ha però potuto utilizzare un elemento che in sede penale è risultato la chiave di volta del ragionamento dei consulenti del pubblico ministero e che, viceversa, non risulta valorizzato né nella consulenza disposta in sede civile né nei motivi di ricorso: e cioè quello della considerazione, negli accertamenti per immagini, dell’addensamento polmonare e del nodulo definito come ‘persistente’, non solo con un trend positivo verso la risoluzione ma, quel che più conta, con un attestazione di decisa negatività nell’ultima RX effettuata”.
La valutazione positiva dei consulenti quindi, secondo la Cassazione, è inficiata dal fatto di non aver dato il giusto peso a un elemento della massima importanza (“quel che più conta”): l’ultima RX, risultata negativa. Sulla base di quell’esame, affermano i giudici, non si doveva effettuare l’intervento di Vats, perché la RX mostrava che il nodulo non c’era più.
Ma, ancora una volta, la Cassazione non riporta in modo completo il contenuto della perizia super partes.
Innanzitutto, i consulenti hanno evidenziato nel dettaglio i risultati di tutti gli esami disposti dal dottor Brega nel corso dei mesi, TAC e RX, sottolineando sia il miglioramento dell’addensamento polmonare che la persistenza del nodulo, e riportano anche l’esito dell’ultima RX effettuata prima dell’intervento.
Il punto, che pare essere sfuggito alla Cassazione, è che valorizzano quest’ultimo esame sulla base delle loro specifiche competenze di professionisti – il dottor Gennarino D’Ambrosi, che ha redatto la consulenza insieme al medico legale dottor Sergio Tentori, è chirurgo toracico all’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Scrivono infatti, appoggiandosi anche alla bibliografia scientifica (pag. 27): “La radiografia del torace è potenzialmente in grado di evidenziare noduli di diametro pari fino a 5-6 mm; la metodica presenta tuttavia un tasso elevato di risultati falso-negativi. Una percentuale pari fino al 20% dei carcinomi polmonari non a piccole cellule viene identificata in maniera retrospettiva al riesame di radiografie del torace che inizialmente erano state considerate normali. La TC del torace presenta specificità e sensibilità più elevate rispetto alla radiografia”.
Quindi, di fronte a una TAC effettuata una decina di giorni prima dell’intervento (il 27/5/2007) che evidenziava la persistenza del nodulo, la “decisa negatività” dalla RX del 7/6/2007 non è stata considerata dirimente nella decisione di operare; e questa scelta effettuata all’epoca dal dottor Brega ha un fondamento scientifico, come evidenziato anche dai consulenti.
Ma non solo. L’evoluzione della situazione ha dato ragione a Brega, perché la lesione c’era, a dispetto della negatività della RX.
Inspiegabilmente, infatti, la Cassazione fa un ragionamento monco, non includendovi quello che è stato l’esito dell’intervento in Vats.
Scrive un altro professionista, Franco Giampaglia (qui il documento), direttore fino al 2006 del dipartimento di chirurgia toracica all’ospedale Cardarelli di Napoli e consulente della difesa di Brega: “L’RX del torace è negativo ma una nuova TC del torace è stata eseguita 14 giorni prima del ricovero e dimostra la presenza di un piccolo nodulo sub pleurico. Il chirurgo [Brega Massone, n.d.a.] asporta una lesione di 2 cm. di diametro che il patologo descrive come «un’area a margini netti violacei di cm. 2,5 x 2 x 0,5» e definisce «infarto emorragico» all’esame istologico. Quindi la lesione c’è ed è solida”.
E anche il prof. Giampaglia, nel corso del processo di primo grado (udienza del 9/12/2009), ha affermato lo stesso concetto relativo ai falso-negativi espresso nella consulenza super partes (che è successiva, del 5 agosto 2011): “Non esiste il paragone tra radiografia del torace e TAC perché la TAC ha una sensibilità e una specificità cento volte superiore alla radiografia del torace, più volte abbiamo visto che le radiografie sono negative o dicono un qualcosa, la TAC invece entra dello specifico e dice molto di più”.
Documenti alla mano – gli stessi documenti che avevano in mano i giudici di appello e di Cassazione – diventa una volta di più incomprensibile come i giudici abbiamo potuto emettere una sentenza di condanna sul caso DP.
Ognuno tragga le proprie valutazioni.
Ma c’è dell’altro. Abbiamo detto che il caso DP è paradigmatico di tutti gli aspetti problematici di questa inchiesta giudiziaria, ed è proprio per questo che doveva sollevare forti dubbi sulle valutazioni effettuate su tutti i casi.
Sia in appello che in Cassazione la difesa ha posto la questione della competenza soggettiva dei consulenti della procura, in particolare del medico di base Paolo Squicciarini e del chirurgo toracico Francesco Sartori. Anche la Corte di Roma ha ribadito la loro attendibilità, dichiarando che, in ogni caso, sono di sua competenza solo le “ragioni di incompatibilità e incapacità” e non “la correttezza (o la opinabilità) della scelta di un soggetto capace e non incompatibile”. Peccato che, a nostro avviso, sia proprio la capacità di Squicciarini e di Sartori il nocciolo del problema, e non certo la correttezza o la opinabilità.
Capacità che la Cassazione poteva testare proprio sul caso DP, per un interessante dettaglio.
Nella sua consulenza (qui il documento), Paolo Squicciarini scrive: “La paziente non è stata sottoposta a PET total body, né ad agobiopsia tac guidata che rappresenta l’iter diagnostico corretto standard”.
Lo stesso fa Francesco Sartori (qui il documento, ben 5 righe dedicate al caso…): “Non viene considerata la biopsia transparietale (lesione periferica!)”.
Entrambi suggeriscono quindi quella procedura (agobiopsia e/o agoaspirato) che i consulenti super partes hanno valutato come rischiosa per le condizioni specifiche del soggetto (obeso e fumatore).
Valutazione di rischio che aveva espresso anche il prof. Franco Giampaglia, scrivendo nella sua consulenza: “La paziente è fumatrice, in sovrappeso, accusa dispnea da sforzo, tosse, broncospasmo per cui il pneumotorace, che è una complicazione frequente dopo FNAB, in queste condizioni si sarebbe presentato con una incidenza ancora maggiore. Specialmente per l’obesità, che impone un tragitto più lungo con maggiore difficoltà tecnica per raggiungere il nodulo bersaglio, e per la tosse che, se non riesce a trattenere durante l’esame, comporta oscillazioni traumatiche dell’ago con relativo traumatismo del parenchima polmonare”.
Dunque, con quale capacità i consulenti della procura hanno valorizzato – per citare un verbo caro alla Cassazione – gli elementi clinici del caso in questione? E la stessa capacità l’hanno applicata a tutti gli ottanta casi? Perché il disaccordo tra le valutazioni dei consulenti della difesa e quelli dell’accusa si è registrato su tutti i casi, non solo sul caso DP; qui analizziamo unicamente quest’ultimo perché sugli altri sarebbe facile obiettare che quelle della difesa sono consulenze di parte – dimenticando, tra l’altro, in genere così accade, che anche quella della procura sono di parte – mentre il caso DP è l’unico su cui si possa mettere a confronto una perizia super partes.
Vi è poi la questione della competenza oggettiva delle consulenze dell’accusa, perché redatte, in tutti gli ottanta casi, senza aver visionato l’intera documentazione clinica, come esami effettuati precedentemente e le immagini iconografiche. Su questo la Cassazione risponde (pag. 48): “Quanto infine alla doglianza della difesa a proposito di quelli che sarebbero stati i limiti obiettivi della conoscenza dei consulenti del PM, privi, a differenza della difesa, di materiale documentale sanitario ulteriore rispetto a quello sequestrato, è appena il caso di rilevare la assoluta genericità della doglianza”.
Anche per questo aspetto, grazie al caso DP, la Cassazione aveva modo di verificare quanto la ‘doglianza’ fosse tutt’altro che generica, e soprattutto fondamentale.
Scrive Paolo Squicciarini nella sua consulenza: “Nella cartella clinica manca il referto TAC torace che potrebbe spiegare il perché, malgrado l’RX torace negativo, il chirurgo abbia deciso la via chirurgica per una lesione rivelatasi all’esame istologico un infarto emorragico polmonare (patologia priva di indicazione chirurgica)”.
Ora: se, paradossalmente (per le conclusioni in merito che ha tratto la Cassazione), anche Squicciarini sembra avere presente quanto una TAC sia ben più dirimente di una RX, non sospende il proprio giudizio ma conclude che “il caso non era chirurgico” senza avere in mano quella TAC; né le precedenti, oggetto di follow-up; scrive infatti la propria consulenza analizzando solo quanto contenuto nella cartella del ricovero dal 7 all’11 giugno, quando la specifica storia clinica della paziente inizia a marzo.
Nella medesima situazione si trova Sartori, che nella consulenza parla di “Vats immediatamente eseguita” e di “una certa fretta nel non attendere l’evoluzione spontanea del quadro clinico”.
Il punto è che la Cassazione scrive che la mancanza di indicazione chirurgica rilevata dai consulenti della procura poggia sul fatto che non sono stati rispettati gli step diagnostici indicati nei protocolli clinici, che stabiliscono una successione di esami, dal meno invasivo al più invasivo; da qui, il giudizio di anticipazione dell’intervento, e dunque l’accusa di lesioni. Ma proprio su questo aspetto, come può essere considerata attendibile una consulenza redatta senza tutta la documentazione medica?
Nel caso DP, Squicciarini e Sartori evidenziano il fatto che non è stata fatta una agobiopsia, step diagnostico meno invasivo rispetto a una Vats, ma non era possibile effettuarla date le caratteristiche della paziente: i consulenti non avevano in mano i documenti da cui potevano ricavare le informazioni sul fatto che la signora fosse obesa e forte fumatrice? O la loro capacità non ne ha tenuto conto?
Sartori parla di “fretta” e lamenta la mancanza di follow-up: ma per scrivere la consulenza, esattamente come Squicciarini, aveva in mano solo la cartella del ricovero di giugno, mentre la paziente era seguita da marzo.
Al contrario, i consulenti super partes, così come i consulenti della difesa di Brega Massone, avevano in mano tutti i documenti clinici, immagini comprese, e guarda caso concordano sul fatto che il follow-up era già stato congruo – anzi, continuarlo sarebbe stata una scelta criticabile, secondo la perizia super partes – e che l’agobiopsia non era praticabile.
Quindi, quali step diagnostici non sono stati rispettati?
E dato che la documentazione in mano ai consulenti della procura era parziale per tutti i casi del processo, quanti casi DP esistono?
La cosa più inspiegabile, in tutto questo, è l’atteggiamento dei giudici. Chi scrive non è chirurgo toracico – così come non lo sono i magistrati. Non possiamo quindi valutare, sulla base delle nostre conoscenze, l’esistenza o meno dell’indicazione chirurgica per un intervento; possiamo solo analizzare le diverse consulenze, registrare incongruenze e mancanze, e utilizzare la logica. E nel caso DP, incongruenze e mancanze abbondano e la logica non è davvero di casa.
Ma il punto è che il caso DP non è solo il caso DP, per tutto quello che rende manifesto, come abbiamo sopra evidenziato; e il punto è che questo processo si basa sulle consulenze medico-scientifiche. Tutto il resto è un contorno, ed è per tale ragione che la consulenza DP era una “zeppa all’intero impianto accusatorio”, come aveva dichiarato il procuratore Fontana nel processo si appello – salvo poi chiedere conferma di condanna (?!) – nell’unico momento in cui la logica ha fatto capolino in questo dibattimento.
Ma la Cassazione, anziché disporre finalmente una perizia super partes, ha blindato il teorema accusatorio, con una interpretazione della legge a dir poco sorprendente.
Ha ribadito che data l’assenza di indicazione chirurgica (dedotta dalle consulenze della procura), il fine dell’intervento non era terapeutico. Si prefigura quindi il reato di lesione dolosa, per il quale non ha importanza dimostrare il dolo, né quale fosse il fine – la procura asserisce il profitto economico – perché (pag. 62) una volta resa evidente l’assenza di fine terapeutico, “il dolo necessario e sufficiente per la configurazione del reato di lesioni […] è quello generico anche nella sola forma eventuale”, e dunque “non è necessario (proprio perché non è richiesto il dolo specifico) che sia individuata la finalità non terapeutica perseguita dal medico (che può anche non voler perseguire uno specifico fine) essendo invece sufficiente l’estraneità dell’intervento ad ogni ipotizzabile scelta terapeutica indipendentemente dalla circostanza che l’agente ne persegua una specifica o che non ne esistano proprio”.
L’accusa non deve dimostrare nulla, dunque, se non la mancanza di indicazione chirurgica.
Questa posizione presa dalla Cassazione ‘risolve’ la questione spinosa delle intercettazioni telefoniche, che, come abbiamo più volte ribadito sulla base della loro lettura integrale, non contengono alcuna prova né del dolo né del fine economico – parlare di soldi non significa operare solo per soldi – e sono servite, con evidenti forzature interpretative e stralci sapientemente selezionati, per cucire addosso a Brega Massone un giudizio di ‘immoralità’.
Risolve anche la questione del profitto economico, altrettanto spinosa perché crea qualche problema di credibilità il fatto che un primario di chirurgia toracica abbia fatto tutto questo per circa 81.000 euro lordi, in tre anni, da dividere in tre, ossia Brega e i due aiuti dell’equipe. Perché è questa la valorizzazione economica della ‘truffa’ in capo ai tre medici sui casi di lesione oggetto del processo. Ed è significativo il fatto che la procura non si sia mai preoccupata di valorizzare quel profitto che riteneva essere il movente, limitandosi a sventolare davanti ai giornalisti cifre da milioni in capo alla clinica Santa Rita, cifre che comprendevano truffe ipotizzate in diversi reparti (la maggior parte delle quali non confermate in appello), ma, contemporaneamente, non abbia mai contestato questo calcolo, effettuato dalla difesa Brega Massone conteggiando i Drg degli interventi effettuati.
Quindi stiamo parlando di circa 22.300 euro lordi per il 2005, 36.300 euro lordi per il 2006, 22.400 euro lordi per il 2007. Dunque, a spanne, quanto? 13.000 euro al netto di imposte nel 2005, 20.000 euro nel 2006, 13.000 euro nel 2007. Da divide in tre.
Risolve anche un’altra questione scomoda: l’esistenza del presunto danno al paziente.
Il reato di lesioni, disciplinato dall’articolo 582 del codice penale, recita: “Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi e tre anni”. Perché sussista il reato di lesione, dunque, deve sussistere anche la malattia da esso causata.
Abbiamo ribadito più volte che in questo processo nessuna malattia è stata dimostrata, perché i pazienti non sono stati visitati e dunque non è stato verificato se l’intervento chirurgico abbia o meno compromesso la loro salute; aspetto che è stato risolto, appunto, affermando che l’intervento è lesivo di per sé, per la sua mancanza di indicazione chirurgica.
Lesivo, scrive la Cassazione (pag. 58-59), indipendentemente dall’esito fausto dell’intervento stesso – da un punto di vista diagnostico e/o terapeutico – perché “il giudizio positivo sul miglioramento apprezzabile delle condizioni di salute del paziente” deve essere “ragguagliato anche alle ‘alternative possibili’ date dalla scienza medica” – i famosi step diagnostici – e indipendentemente anche dal consenso espresso dal paziente, perché “se il consenso del paziente costituisce uno dei presupposti di liceità del trattamento medico, la mancanza di un consenso opportunamente ‘informato’ del malato, o la sua invalidità per altre ragioni, determina l’arbitrarietà del trattamento medico e la sua rilevanza penale”.
Ma una simile interpretazione della legge creare un problema: la valutazione del presunto danno al paziente. Ed è qui che la Cassazione fa un passo ulteriore.
Il tribunale di primo grado ha raggruppato gli ottanta casi in cinque fasce – da 50.000 a 80.000 euro – senza effettuare singoli calcoli in capo a ogni soggetto; non poteva fare altrimenti, essendo mancata la visita clinica e dunque la valutazione dell’eventuale danno subìto.
Ora la Cassazione afferma (pag. 65), confermando gli importi, che non è necessaria una maggiore precisione e valutazione perché “il danno liquidato alle persone fisiche offese dai reati di lesioni è stato ritenuto essenzialmente nella tipologia ‘morale’”, per aver subito interventi chirurgici inutili e per il tradimento della fiducia che avevano riposto in Brega Massone.
La Cassazione quindi, paradossalmente, mette nero su bianco quel che già si sapeva: la signora DP non è l’unica a essere in buone condizioni di salute generali, come rilevato dai consulenti super partes che l’hanno visitata.
In questo processo, dunque, il danno causato dal reato di lesioni è di tipo morale.
Ognuno tragga le proprie conclusioni.
Da un punto di vista giudiziario, la vicenda si è conclusa. Il dottor Brega Massone e il primo aiuto, il dottor Presicci, sono in carcere.
Le sentenze si possono criticare ma vanno rispettate, è il mantra che accompagna le inchieste giudiziarie. Ma verso una sentenza costruita in questo modo, si può portare rispetto? Da un punto di vista etico e intellettuale?
Siamo convinti che se in questa storia la stampa avesse fatto il suo dovere, ossia sospendere il giudizio quando è scoppiato lo scandalo mediatico invece di creare il ‘mostro’, non tradurre acriticamente le veline della procura in articoli, valutare in modo autonomo quanto stava accadendo dentro l’aula giudiziaria, le cose sarebbero andate diversamente. Sicuramente il giudizio popolare non trova posto nella valutazione dei magistrati, ma se oggi nessun giornalista si prende la briga di leggere questa sentenza e di ragionarci sopra, è perché, miseramente, il mostro della clinica degli orrori non vende più; e non vende più perché la gente non è interessata a seguire una vicenda giudiziaria su cui si è già formata una granitica opinione. Brega Massone è stato arrestato il 9 giugno 2008, e lo stesso giorno è stato condannato da una stampa compattamente colpevolista che ha creato un’opinione pubblica compattamente colpevolista. Di questo sono responsabili i giornalisti, che hanno abdicato al proprio dovere di informare in modo corretto i cittadini.
A maggio di quest’anno, davanti alla Corte di Assise, è iniziato un secondo processo, fotocopia di questo: l’accusa a carico del dottor Brega Massone e della sua equipe è di lesioni dolose per 46 casi e omicidio volontario per 4 casi. L’inchiesta giudiziaria è la stessa – il dibattimento è uno stralcio del precedente – il teorema accusatorio è lo stesso, i consulenti della procura sono gli stessi. Ogni processo fa storia a sé, è indubbio, ma se sul primo ha pesato l’indignazione popolare verso il mostro, sul secondo pesa una sentenza definitiva della Cassazione e l’indifferenza: non ci sono giornalisti in aula.
Noi continueremo a esserci e a informare i nostri lettori con le controcronache delle udienze.