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Home Economia Lavoro

Profitti e povertà: l’economia del lavoro forzato

Rivista Paginauno by Rivista Paginauno
24 Aprile 2024
in Lavoro
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Profitti e povertà: l’economia del lavoro forzato

Fonte: "Profits and poverty: The economics of forced labour", Second edition, Geneva: International Labour Office, 19 marzo 2024

International Labour Organization (ILO)*

  • (Paginauno n. 86, aprile – maggio 2024)

I dati dell’ultimo rapporto dell’ILO fotografano 236 miliardi di dollari sottratti ai lavoratori: numeri in aumento negli ultimi dieci anni

236 miliardi di dollari. Questo è il livello osceno del profitto annuale generato oggi dal lavoro forzato nel mondo. Una cifra che riflette i salari o i guadagni effettivamente sottratti alle tasche dei lavoratori da chi li costringe al lavoro forzato, attraverso pratiche coercitive; denaro tolto a lavoratori che spesso già faticano a soddisfare i bisogni delle proprie famiglie e, per i lavoratori migranti, denaro prelevato dalle rimesse che inviano a casa. Per i governi, questi profitti illegali rappresentano una perdita di gettito fiscale, a causa della natura illecita dei guadagni e dei posti di lavoro che li hanno generati. Più in generale, i profitti derivanti dal lavoro forzato possono incentivare ulteriore sfruttamento, rafforzare le reti criminali, incoraggiare la corruzione e minare lo stato di diritto. […] Questa seconda edizione del Rapporto sui profitti e la povertà […] si basa sull’edizione del 2014 e sulle stime globali del 2021. Ciò che rivela è allarmante: i profitti illegali totali non solo sono estremamente elevati, ma sembrano essere aumentati notevolmente negli ultimi dieci anni, come risultato sia del maggior numero di persone impiegate nel lavoro forzato, sia dei livelli più elevati di profitto generati da ciascuna vittima. […]

Il ricorso al lavoro forzato dovrebbe essere considerato un reato penale e qualsiasi profitto ricavato da esso dovrebbe essere intrinsecamente illegale. Questo studio considera i profitti illegali registrati nell’economia privata, derivanti dal sotto-pagamento dei guadagni ai lavoratori. Vale la pena sottolineare che il sotto-pagamento, di per sé, non è lavoro forzato. In effetti, la maggior parte dei lavoratori sottopagati non sono sottoposti a lavoro forzato, mentre allo stesso tempo ci sono persone impiegate nel lavoro forzato che potrebbero non essere sottopagate. Tuttavia, il mancato pagamento del salario è una delle circostanze che possono dar luogo al lavoro involontario […].

A causa delle limitazioni dei dati, le stime non tengono conto dei profitti aggiuntivi ottenuti dai datori di lavoro e dagli intermediari attraverso le commissioni di reclutamento illegale, e altri costi correlati che le vittime del lavoro forzato spesso devono sostenere. I profitti illegali legati al reclutamento sono, tuttavia, valutati separatamente per i migranti internazionali impiegati nel lavoro forzato, l’unico gruppo per il quale sono disponibili questi dati. Anche i profitti aggiuntivi che gli autori del reato ottengono dalle tasse e dai contributi previdenziali non pagati, vanno oltre lo scopo di questo studio.

Ai fini della ricerca, il sotto-pagamento dei salari viene misurato come la differenza tra i guadagni che i lavoratori riceverebbero in circostanze normali, e i guadagni che invece ricevono perché sottoposti a lavoro forzato. Questi salari più bassi potrebbero derivare, per esempio, dal pagamento di una retribuzione inferiore al livello minimo legale, dal mancato pagamento degli straordinari quando richiesto, da detrazioni salariali illegali per infrazioni fittizie sul posto di lavoro, o dalla violazione di altre norme relative ai salari. In altri casi, come in quello dello sfruttamento sessuale forzato a fini commerciali, i profitti derivano dall’appropriazione, da parte degli sfruttatori, dei proventi derivanti da un’attività illegale o illecita. In alcuni casi, le persone costrette al lavoro forzato sono intrappolate in situazioni in cui viene loro negata del tutto la retribuzione, o addirittura devono affrontare ‘salari negativi’ sotto forma di debito, prodotto dai loro datori di lavoro come mezzo di controllo.

Cos’è il lavoro forzato?

La Convenzione dell’ILO sul lavoro forzato del 1930 (n. 29), articolo 2, afferma che il lavoro forzato o obbligato è “qualsiasi lavoro o servizio richiesto a qualsiasi persona sotto minaccia di punizione e per il quale detta persona non si è offerta volontariamente”. Per lavoro involontario si intende qualsiasi lavoro svolto senza il consenso libero e informato del lavoratore; la coercizione si riferisce ai mezzi utilizzati per costringere qualcuno a lavorare senza il suo consenso libero e informato. Il lavoro involontario e la coercizione possono verificarsi in qualsiasi fase del ciclo lavorativo: al momento dell’assunzione, per costringere una persona ad accettare un lavoro contro la sua volontà; durante il rapporto di lavoro, costringendo un lavoratore a lavorare e/o vivere in condizioni che non accetta; o al momento della separazione dal lavoro, per costringere una persona a rimanere nel posto di lavoro che desidera lasciare.

A fini statistici, il lavoro forzato può essere suddiviso in due grandi categorie: lavoro forzato imposto dallo Stato e lavoro forzato imposto dai privati. Quest’ultimo può assumere diverse forme, compresa la tratta di persone destinate al lavoro forzato, nonché il lavoro richiesto alle vittime della schiavitù e della servitù della gleba come definito nella Convenzione delle Nazioni Unite sulla schiavitù (1926) e nella Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, la tratta degli schiavi e istituzioni e pratiche simili alla schiavitù (1956). Può sussistere in gruppi o aziende e in qualsiasi ramo dell’attività economica; può includere attività come l’accattonaggio per terzi, che va oltre l’ambito della produzione di beni e servizi compresi nel confine generale di produzione del sistema dei conti nazionali. Ai fini della misurazione, è comunemente suddiviso in due sottotipi, entrambi considerati nelle stime dei profitti illegali:

  • 1. Sfruttamento del lavoro forzato (FLE) […]
  • 2. Sfruttamento sessuale a scopo commerciale forzato (FCSE) […]

Il lavoro forzato imposto dallo Stato si riferisce a forme di lavoro imposte dalle autorità statali, da agenti che agiscono per conto delle autorità statali e da organizzazioni con autorità simile allo Stato, indipendentemente dal ramo di attività economica in cui si svolge. Questa categoria di lavoro forzato va oltre lo scopo del presente studio.

Il lavoro forzato nel mondo

Quotidianamente, nel 2021, c’erano 27,6 milioni di persone costrette ai lavori forzati. Una cifra che si traduce in 3,5 persone ogni mille, nel mondo. Tra il 2016 e il 2021, il numero di individui costretti al lavoro forzato è aumentato di 2,7 milioni, con un conseguente incremento della prevalenza da 3,4 a 3,5 ogni mille persone. L’aumento complessivo si è registrato nell’ambito privato (Figura 1).

Nessuna regione del mondo è risparmiata. L’Asia e il Pacifico ospitano più della metà del totale mondiale (15,1 milioni), seguiti da Europa e Asia centrale (4,1 milioni), Africa (3,8 milioni), Americhe (3,6 milioni) e Stati arabi (0,9 milioni). Ma questa classifica regionale cambia considerevolmente quando il lavoro forzato viene espresso in termini di prevalenza (cioè come percentuale della popolazione): è più alto negli Stati arabi (5,3 per mille persone), seguito da Europa e Asia centrale (4,4 per mille), Americhe e Asia e Pacifico (entrambi al 3,5 per mille) e Africa (2,9 per mille) (Figura 2).

La maggior parte avviene nell’economia privata. Quasi nove casi su dieci (86%) sono imposti da attori privati: il 63% è sfruttamento del lavoro forzato e il 23% è sfruttamento sessuale commerciale forzato. Il lavoro forzato imposto dallo Stato rappresenta il restante 14%. Le stime dei profitti illegali presentate in questo studio non includono i profitti derivanti dal lavoro forzato imposto dallo Stato (Figura 3).

Tocca praticamente tutti i settori dell’economia privata. I quattro grandi ambiti che rappresentano la maggioranza (89%) sono l’industria, i servizi, l’agricoltura e il lavoro domestico. […] Altri settori esprimono quote minori ma rappresentano comunque centinaia di migliaia di persone: queste includono persone costrette a mendicare per strada e ad attività illecite.

Le persone costrette al lavoro forzato sono sottoposte a molteplici forme di coercizione, per costringerle a lavorare contro la loro volontà. Il trattenimento sistematico e deliberato dei salari è la forma più comune (36%), utilizzata dai datori di lavoro abusivi per costringere i lavoratori a mantenere il posto di lavoro nella paura di perdere i guadagni maturati; segue l’abuso della vulnerabilità attraverso la minaccia di licenziamento, che è stato sperimentato da uno su cinque (21%) di coloro che lavorano forzati; forme più gravi di coercizione, tra cui la reclusione forzata, la violenza fisica e sessuale e la privazione dei bisogni primari, sono meno comuni ma non trascurabili.

Per quanto riguarda lo sfruttamento sessuale a fini commerciali, si stima che nel 2021 circa 6,3 milioni di individui si trovassero, quotidianamente, in questa condizione. Il genere è un fattore determinante: quasi quattro persone su cinque (78%) intrappolate in questa realtà sono ragazze o donne; i bambini rappresentano uno su quattro (27%) dei casi totali.

Profitti illeciti derivanti dal lavoro forzato

Il totale dei profitti illegali generati dal lavoro forzato ammonta a circa 236 miliardi di dollari ogni anno, quasi 10.000 dollari per vittima. Nel caso dei lavoratori, questi guadagni rappresentano la differenza tra ciò che i datori di lavoro pagano effettivamente ai lavoratori e ciò che pagherebbero loro in circostanze normali e in assenza di lavoro forzato. In altre parole, sono i salari che appartengono di diritto alle tasche dei lavoratori, e che invece rimangono nelle mani dei loro sfruttatori a causa delle pratiche coercitive. Per lo sfruttamento sessuale forzato a fini commerciali, dove non esistono livelli standard di pagamento, i profitti illegali rappresentano tutto tranne la minima parte che va alle vittime. Va ricordato che questa stima, sebbene oscenamente elevata, non include ulteriori guadagni derivanti da commissioni di reclutamento e costi correlati, o da tasse e contributi previdenziali evasi; la stima quindi sottostima il totale dei profitti illegali derivanti dal lavoro forzato.

L’importo complessivo sembra essere drammaticamente aumentato nell’ultimo decennio. Un semplice confronto con i precedenti dati pubblicati nel 2014 (al netto dell’inflazione) indica un incremento di 64 miliardi di dollari. Uno sguardo più attento ai numeri suggerisce che questo aumento è stato determinato da un maggior numero di persone costrette al lavoro forzato, e da maggiori guadagni illegali generati da ciascuna vittima. Il profitto annuo per vittima è stato stimato a 8.269 dollari nel 2014 (al netto dell’inflazione) e a 9.995 dollari nel 2024, un aumento del 21%; allo stesso tempo, oggi ci sono molte più vittime del lavoro forzato rispetto a dieci anni fa. L’attuale stima si basa su un totale di 23,7 milioni di persone costrette nell’economia privata, mentre la stima del 2014 ne vedeva quasi 18,7 milioni: un aumento del 27% negli ultimi dieci anni (Figura 4).

Esistono differenze importanti tra le regioni. I profitti illegali totali sono più alti in Europa e Asia centrale (84,2 miliardi di dollari), seguiti da Asia e Pacifico (62,4 miliardi), Americhe (52,1 miliardi), Africa (19,8 miliardi) e infine Stati arabi (18 miliardi). Questi modelli sono guidati da differenze interregionali sottostanti sia nel numero totale di vittime (Figura 2) che nel profitto per vittima (Figura 5). In Asia e nel Pacifico, dove i guadagni per vittima sono relativamente bassi, il totale dei profitti illegali riflette il gran numero di vittime nella regione; al contrario, in Europa, Asia centrale e nelle Americhe, dove il numero totale delle vittime è molto inferiore rispetto all’Asia e al Pacifico, l’elevato livello di profitto per vittima è un fattore più importante dei guadagni complessivi. In Africa, sia il totale delle vittime che il profitto per vittima sono bassi rispetto ad altre regioni.

La quota maggiore dei guadagni illegali deriva dallo sfruttamento sessuale commerciale forzato: sebbene rappresenti solo il 27% di tutte le persone costrette al lavoro forzato imposto privatamente, rappresenta il 73% del totale dei profitti illegali derivanti dal lavoro forzato (Figura 6). Dei 236 miliardi di dollari complessivi, quasi 173 sono stati generati dallo sfruttamento sessuale. Questi numeri sono spiegati dall’enorme differenza nel profitto per vittima tra lo sfruttamento sessuale e lo sfruttamento del lavoro: 27.252 dollari per il primo contro 3.687 dollari per il secondo (Figura 6b).

Gli elevati profitti per vittima riflettono la quota estremamente limitata di guadagni che ricade sulle vittime stesse, la stragrande maggioranza delle quali sono donne e ragazze. In effetti, il database Global Sex Trafficking Metrics 2016, su cui si basa la stima dei profitti, indica che nella maggior parte dei casi le persone vittime di sfruttamento sessuale a fini commerciali sono pagate molto poco, o addirittura nulla. In alcuni casi segnalati, viene loro negato il pagamento perché devono saldare un debito nei confronti del trafficante, apparentemente contratto a seguito della tratta; potrebbero contrarre nuovi debiti quando passano nelle mani di altri trafficanti; detrazioni per cibo, vestiti, affitto, alcol o per interessi esorbitanti sono tra gli altri pretesti utilizzati. Allo stesso tempo, il fatto che lo sfruttamento sessuale a fini commerciali sia illegale nella maggior parte dei Paesi, significa che le vittime hanno un ricorso limitato o nullo alla giustizia.

Questo tipo di profitti sono consistenti in tutte le regioni. Come riportato nella Figura 7, essi variano da 58,6 miliardi di dollari in Europa e Asia centrale, 48,4 miliardi in Asia e Pacifico, 34,9 miliardi nelle Americhe, 16,1 miliardi in Africa e 14,6 miliardi negli Stati arabi.

Nel lavoro forzato, l’industria è il settore in cui i profitti illegali totali e per vittima sono più alti: 35,4 miliardi di dollari totali annuali e 4.944 dollari per vittima. Seguono il settore dei servizi (rispettivamente 20,9 miliardi e 3.407 dollari), l’agricoltura (5,0 miliardi e 2.113 dollari) e infine il lavoro domestico (2,6 miliardi e 1.570 dollari).

Il sotto-pagamento dei salari può avvenire attraverso una varietà di meccanismi. […]

I sistemi di pagamento a cottimo utilizzati nell’industria delle fornaci di mattoni sono collegati, in alcuni contesti, a salari ben al di sotto degli standard salariali minimi. I pagamenti a cottimo sono associati a sotto-pagamenti anche in agricoltura e in altri settori del manifatturiero, soprattutto quando i lavoratori sono tenuti a raggiungere obiettivi di produzione non realistici.

Nel pesca, i sistemi di pagamento della quota di cattura controllati dagli armatori, dai capitani o dai supervisori, vengono manipolati per sottopagare i pescatori. Ci sono poi il sotto-pagamento o il mancato pagamento dei bonus, la mancanza di chiarezza su come i bonus vengono calcolati o pagati, le detrazioni illegali (come per cibo e acqua) o le detrazioni eccessive per voci come le telefonate a bordo o le sigarette.

Nel settore edile, forme documentate di sotto-pagamento includono straordinari non pagati, salari inferiori a quanto concordato, trattenute illegali o eccessive.

Nel minerario, la schiavitù per debiti può verificarsi quando i minatori su piccola scala sottoscrivono un prestito dagli ‘sponsor’ per acquistare attrezzature, in cambio di una percentuale del minerale che raccolgono: spesso non guadagnano abbastanza e contraggono prestiti aggiuntivi per il cibo. Questo ciclo, alla fine, li porta a perdere la propria libertà, poiché sono costretti a continuare a lavorare per ripagare i debiti.

I lavoratori domestici – di cui 8 su 10 svolgono un lavoro informale – sono particolarmente vulnerabili al sotto-pagamento dei salari. Straordinari non retribuiti, mancanza di periodi di riposo e trattenuta della retribuzione sono tra le violazioni documentate.

Nel settore dell’ospitalità e delle attività ricreative e in altri ambiti in cui l’informalità è comune, l’assenza di contratti formali significa minore trasparenza salariale e maggiore vulnerabilità agli abusi; la trasparenza è spesso compromessa anche dall’assenza di buste paga che dettagliano salario di base, bonus e detrazioni.

In tutti i settori, i lavoratori classificati come stagionali e occasionali sono spesso esclusi dalla tutela del salario minimo concessa ai lavoratori regolari, lasciandoli particolarmente vulnerabili al sotto-pagamento.

Profitti illeciti derivanti dal reclutamento: il caso dei migranti internazionali

Un’altra fonte critica di profitti illegali derivanti dal lavoro forzato proviene dalle tariffe di reclutamento illegali e dai relativi costi che i lavoratori devono spesso sostenere. Queste commissioni possono essere addebitate da datori di lavoro, intermediari di reclutamento o di viaggio, o da funzionari corrotti che richiedono tangenti o bustarelle. Possono anche essere addebitate dai trafficanti, per il costo presunto della tratta. Per pagare le spese di assunzione e i relativi costi per assicurarsi un lavoro o un collocamento, molti lavoratori si indebitano pesantemente, il che può portare a situazioni di servitù per debiti. Gli studi dimostrano che l’addebito ai lavoratori di commissioni di assunzione e relativi costi è una pratica diffusa in tutti i Paesi e in tutti i settori.

Sfortunatamente, i dati su questa ulteriore fonte di profitto illegale sono disponibili solo per i migranti internazionali vittime del lavoro forzato, pertanto non sono considerati nelle stime generali dei profitti presentate in questo studio. Tuttavia, questo sguardo offre alcune informazioni sulla loro importanza più ampia. La Figura 9 riporta i profitti illegali totali generati dai migranti internazionali, sia dalle commissioni di reclutamento e dai relativi costi, sia dai salari sottopagati: i risultati indicano quanto siano sostanziali. Hanno prodotto 5,6 miliardi di dollari annuali, ovvero il 15% del totale dei profitti illegali annui derivanti dai migranti internazionali impiegati nei lavori forzati. La loro incidenza è maggiore per lo sfruttamento del lavoro forzato (26%), rispetto allo sfruttamento sessuale a scopo commerciale forzato (11%).

*Estratto dal Rapporto Profits and poverty: The economics of forced labour. Second edition, Geneva: International Labour Office, 19 marzo 2024. Traduzione a cura di Paginauno. “This is a translation of a copyrighted work of the International Labour Organization (ILO). This translation has not been prepared, reviewed or endorsed by the ILO and should not be considered an official ILO translation. The ILO disclaims all responsibility for its content and accuracy. Responsibility rests solely with the author(s) of the translation.” “This is an adaptation of a copyrighted work of the International Labour Organization (ILO). This adaptation has not been prepared, reviewed or endorsed by the ILO and should not be considered an official ILO adaptation. The ILO disclaims all responsibility for its content and accuracy. Responsibility rests solely with the author(s) of the adaptation.” Per le note, la bibliografia e il rapporto originale completo qui https://www.ilo.org/global/topics/forced-labour/publications/WCMS_918034/lang–en/index.htm

Tags: lavorosfruttamento
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