Chiara Vimercati
Tra tagli e slogan, il cortocircuito degli avanzamenti di carriera nella pubblica amministrazione
Mentre i tagli agli stipendi dei dipendenti pubblici vengono confermati anno dopo anno, la parola ‘merito’ è diventata uno dei punti chiave della comunicazione politica, ha permeato la corsa a Palazzo Chigi di Renzi e ricorre pressoché sempre negli interventi governativi: ultimi in ordine di tempo, la riforma Giannini della scuola lo prevede al primo posto – scatti di carriera basati sul merito e non sull’anzianità, dice il ministro – e il testo sulla pubblica amministrazione – che Renzi, nell’immancabile tweet, ha così sintetizzato: “Più merito, più mobilità, più qualità” – è stato preceduto da una lettera ai dipendenti pubblici scritta a quattro mani con il ministro Madia in cui si sottolinea che “il cambiamento comincia dalle persone. Abbiamo bisogno di innovazioni strutturali: programmazione strategica dei fabbisogni, […] valutazione dei risultati fatta seriamente e retribuzione di risultato erogata anche in funzione dell’andamento dell’economia”.
Il settore pubblico è sotto attacco, e non può essere diversamente in tempi di politiche neoliberiste, e il richiamo ossessivo al merito fa parte della propaganda sui tagli alla spesa; è indubbio tuttavia che premiare il merito sia uno dei modi per avere all’interno dell’amministrazione statale persone che sappiano svolgere con efficienza ed efficacia il proprio lavoro. Significa mettere in atto meccanismi incentivanti e, soprattutto, che consentano la selezione di figure realmente competenti nei diversi ruoli. Oggi non è così.
La legge prevede che per accedere a un posto di lavoro statale si deve vincere un concorso, e allo stesso modo per ottenere un avanzamento di carriera in un ente statale si deve vincere un concorso. Ma è la stessa cosa? E quanto è effettivamente importante il merito sia nella selezione che nella promozione?
La modalità di accesso a un posto pubblico è fissata direttamente dalla Costituzione, che all’art. 97 sancisce che “agli impieghi delle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”. Sono poi leggi successive a dettagliare e rinforzare quanto stabilito dalla Carta Costituzionale. L’art. 1 del Decreto n. 487/1994 spiega che l’assunzione “avviene per concorso pubblico aperto a tutti […] volto all’accertamento della professionalità richiesta dal profilo professionale di qualifica o categoria”, mentre l’art. 2 prescrive che “il concorso pubblico deve svolgersi con modalità che ne garantiscano l’imparzialità”. L’articolo 35 del Decreto legislativo 165/2001 riporta che “l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto individuale di lavoro: tramite procedure selettive, […] volte all’accertamento della professionalità richiesta, che garantiscano in misura adeguata l’accesso dall’esterno”.
Questioni focali, quindi, sono la garanzia che tutti i cittadini possano accedere a un posto pubblico tramite concorso, e che quest’ultimo valuti il livello di professionalità del candidato per lo specifico profilo richiesto. Il cortocircuito avviene nel momento in cui si parla di avanzamento.
Le progressioni sono di due tipologie: orizzontali e verticali. Le prime riguardano solo l’aspetto economico, ossia aumenti di stipendio oltre il livello base, e sono state introdotte con il Contratto collettivo nazionale del 31 marzo 1999, che ha determinato il nuovo ordinamento professionale dei dipendenti delle autonomie locali, sostituendo alle precedenti qualifiche funzionali (dalla prima all’ottava) le quattro categorie A, B, C, D. Il successivo Decreto legislativo 165/2001, all’art. 52, ha poi stabilito che queste progressioni sono decise dai responsabili apicali di struttura (come i capi area, diretti superiori dei capi settore, a cui rispondono a loro volta i capi ufficio e i dipendenti), e avvengono secondo principi di selettività in funzione delle qualità culturali e professionali, dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’assegnazione di fasce di merito che il Decreto legislativo n. 150/2009 (la cosiddetta legge Brunetta) ha individuato in alta, media e bassa. Quindi più soldi a seconda della produttività e delle proprie effettive capacità, attraverso l’attribuzione di un cosiddetto salario accessorio, mentre i ‘fannulloni’ continuano a percepire solo lo stipendio base così come indicato dal proprio livello contrattuale. Per inciso, le progressioni orizzontali rientrano nei tagli agli stipendi pubblici operati dal 2010, anno in cui sono state congelate sul piano economico, e lo saranno fino a tutto il 2015, così come annunciato dal ministro Madia il 4 settembre scorso.
Fin qui, sembrerebbe che il principio del merito sia effettivamente applicato – se fosse anche erogato economicamente. Ma è nelle progressioni verticali, ovvero gli avanzamenti di carriera veri e propri, che iniziano i problemi.
L’art. 7 della legge 312/1980 stabiliva che alla qualifica superiore si poteva accedere solo mediante concorso pubblico, nel quale potevano essere riservati al personale interno non più della metà dei posti disponibili: il dipendente che aspirava ad avanzare di livello non aveva dunque altra possibilità se non quella di partecipare a un concorso bandito per posti liberi in quello specifico livello. Meccanismo ribadito anche dal D.Lgs 165 del 2001, secondo cui “le progressioni verticali fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso. La valutazione positiva conseguita dal dipendente per almeno tre anni costituisce titolo rilevante ai fini della progressione economica e dell’attribuzione dei posti riservati nei concorsi per l’accesso all’area superiore” (art. 52).
Tuttavia, già nel 1999 l’articolo 15 del Contratto collettivo nazionale aveva introdotto una ulteriore possibilità, ovvero che i dipendenti potessero frequentare un corso di riqualificazione professionale e in caso di valutazione finale positiva, da parte di una commissione interna o esterna, ottenere la promozione: “I passaggi dei dipendenti da un’area alla posizione iniziale dell’area immediatamente superiore avviene dall’interno […] mediante procedure selettive volte all’accertamento dell’idoneità e/o della professionalità richiesta previo superamento di corso-concorso con appositi criteri stabiliti dall’amministrazione”.
Ma nel 2009 interviene la legge Brunetta a chiarire la situazione in via definitiva: “Le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico” (art. 62). Basta promozioni interne, basta corsi di riqualificazione: per passare di grado bisogna fare il concorso.
Il nodo da sciogliere è dunque questo: il principio della progressione verticale di un dipendente interno va conciliato con il principio della accessibilità per tutti i cittadini ai concorsi che assegnano i posti vacanti nella pubblica amministrazione. Un principio ribadito dalla Corte Costituzionale con la sentenza 4 gennaio 1999 n. 1, che sottolinea come “il concorso pubblico, quale meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci, resti il metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie funzioni in condizioni d’imparzialità e al servizio esclusivo della nazione”, e aggiunge che al regime del concorso “non si è ritenuto sottratto nemmeno il passaggio a una fascia funzionale superiore, nel quadro di un sistema, come quello oggi in vigore, che non prevede carriere o le prevede entro ristretti limiti, nell’ambito dell’amministrazione […]. In tale passaggio è stata, infatti, ravvisata una forma di reclutamento che esige anch’essa un selettivo accertamento delle attitudini”.
Quindi il dipendente che si è distinto nelle sue mansioni e magari ha svolto anche compiti propri di una qualifica più elevata, e che dunque merita una promozione, può accedere a un livello superiore di inquadramento solo attraverso un concorso pubblico, affrontando la concorrenza dei colleghi (che aspirano anch’essi alla promozione) e, soprattutto, di persone esterne che poco o nulla conoscono della realtà pubblica dove andrebbero a inserirsi.
Per cercare di tenere uniti i diversi aspetti, le amministrazioni indicono procedure concorsuali ‘generiche’. Una università, per esempio, può mettere a bando due posti di categoria D1, area amministrativa gestionale: secondo il principio di garanzia dell’accesso, potranno partecipare al concorso sia persone esterne all’università che ambiscono a entrare, sia tutti coloro che già vi lavorano, e che sono inquadrati in una categoria inferiore alla D1.
Se a un’occhiata superficiale le mansioni oggetto del concorso possono sembrare specifiche, in realtà coprono settori molto vasti e diversi fra loro: sotto il cappello “area amministrativa gestionale” rientrano comparti che vanno dalla ricerca agli affari legali, dalla gestione del personale all’orientamento per gli studenti, dai sistemi informativi alla didattica, dal rettorato all’economato, dalle risorse immobiliari alla comunicazione. Il dipendente interno che vuole passare di livello deve quindi prepararsi su materie totalmente estranee alla propria sfera lavorativa, e magari inutili per la sua professionalità (in questo caso soprattutto se lavora in settori quali la comunicazione all’orientamento o alle segreterie studenti), come contabilità di Stato e diritto amministrativo – e nel caso vinca il concorso, la promozione non passa quindi attraverso la valutazione del lavoro svolto né delle sue specifiche competenze – mentre il candidato esterno, che non ha alcun modo di capire in quale area sarà collocato una volta assunto, rischia di andare a svolgere un lavoro per cui è richiesta una competenza specifica che magari non possiede (un ragioniere nell’ufficio legale, o un sociologo alla gestione bandi e assegni di ricerca).
Il risultato finale è quello di avere da una parte personale competente e con esperienza, ma demotivato, perché non vede riconosciuto il valore del proprio lavoro, e dall’altra nuovi assunti privi della professionalità e dell’interesse necessari a ricoprire una mansione di cui vengono a conoscenza solo nel momento dell’entrata in servizio.
Al di là degli slogan, quindi, a tutt’oggi la soluzione alla questione del merito appare decisamente lontana: non solo vengono congelate per il quinto anno di fila le progressioni orizzontali, ma nell’ultima riforma Madia della pubblica amministrazione non si fa cenno alle modalità di avanzamento di carriera, che dunque non cambiano. Mentre i tagli continuano, e difficilmente potranno conciliarsi con il ‘merito’ diminuzioni di risorse finanziarie, professionalità demotivate e lavoratori senza le adeguate competenze.