Alessia Bufo
Oltre la narrazione positiva, dentro la realtà: isolamento, mancanza degli standard di sicurezza, parcellizzazione, solitudine e debolezza del lavoratore
Smart working è un’espressione che salta fuori quasi dal nulla: man mano che cresce l’emergenza coronavirus lo sento nominare sempre più frequentemente. «Speriamo che ci fanno finalmente fare ‘sto smart working» dice un collega mentre rientriamo a casa in treno, «almeno non perdiamo tempo sui mezzi». Lavorare in un’agenzia di comunicazione già di per sé significa orari lunghi: si entra tardi, si esce tardi e si fanno straordinari spesso. Se poi ci aggiungi anche il treno due volte al giorno più metro e tram eventuali, significa rientrare a casa alle otto di sera nella migliore delle ipotesi. Meglio essere smart.
Quand’ero bambina era telelavoro e non lo faceva nessuno, poi è arrivato Internet e negli ultimi anni si è chiamato lavoro da casa. Fino a oggi erano termini privi di connotazione, nella quotidianità di pochi.
Finché un pomeriggio di sabato trapela la bozza dell’ultimo, preoccupante decreto: niente più spostamenti fuori dal proprio comune salvo necessità. Che si fa? Possiamo venire tutti al lavoro normalmente? Ci vuole un certificato? Mille messaggi, chiamate, email per capire come gestire un evento senza precedenti. I tecnici IT hanno la soluzione: un collegamento in remoto. È come se fossi in azienda, però non lo sei: è smart, è un modo ‘intelligente’ di lavorare.
Il contrario di intelligente è stupido e per definizione nessuno vuole essere stupido. Smart working ti promette qualcosa già nelle parole: se sei intelligente vuoi essere parte del futuro, del mondo iperconnesso delle smart city, dell’Internet of things, dello smartphone con cui puoi fare tutto, da un bonifico a pagare le bollette a ordinare la cena, e chi te la porta è all’altro lato di una app. A capo di questo mondo è un potente algoritmo che sa che cos’è meglio per te e sa qual è il tuo posto prima ancora che tu possa pensarlo perché se l’è già studiato mentre ti seguiva, in rete, fare altro. Per questo non ci viene chiesto se vogliamo lavorare smart: va da sé, chi non lo vorrebbe? Ed è la narrazione anche di giornali e social network: per fortuna abbiamo lo smart working!
Fin da subito smart working si lega a un altro termine già abusato a Milano: «Comunicate se siete operativi», «Io no», «Ok da adesso sono operativo». Come un’entità robotica la cui esistenza si risolve nell’essere acceso o spento, oppure come un soldato che rispetta la catena di comando e fa quello che gli viene detto senza discutere; perché stiamo facendo cose molto importanti, e per questo qualcuno lavora a partita Iva ma prende ordini come gli altri, per questo gli straordinari in settimana neanche si devono chiedere, si resta finché c’è da fare.
Ho iniziato a lavorare in remoto solo con il secondo decreto, più restrittivo, abitando lontano dalla sede dell’impresa e quindi, a causa degli spostamenti, ritrovandomi più vulnerabile al virus e ai controlli delle forze dell’ordine. Ho dunque vissuto anche dall’ufficio, all’inizio, questa modalità lavorativa, e ricordo bene la stranezza che ho provato guardando lo schermo di un computer fare delle cose, come se ci fosse qualcuno al tavolo. Che non c’era. Postazione vuota ma in mezzo a tante altre ed esposta allo sguardo di chiunque passa di fronte: senza neanche dover consultare log di sistema e guardare le date dei file, tutti possono sapere cosa stai facendo e cosa hai fatto finora. Ora che sono io quella a casa mi chiedo se dall’altra parte qualcuno stia guardando il mio schermo.
Al di là della nostra specifica situazione, il controllo è parte fondante del lavoro a distanza proprio perché il lavoratore non è fisicamente in sede. Leggo un articolo su Il Sole 24 ore (1) in cui si specifica che sì, si può controllare un lavoratore anche a distanza “se il datore di lavoro ha il fondato sospetto che il dipendente stia commettendo degli illeciti”. Su quale base si possa fondare il sospetto non è chiaro: come si determina cosa sta facendo qualcuno che non è in azienda? Finora noi lavoratori non abbiamo avuto bisogno di saperlo, adesso all’improvviso sì. A parte l’evidenza della presenza su determinati siti (i vari social network, per esempio), l’unico indicatore che il dipendente, in orario lavorativo, potrebbe invece stare facendo altro è la produttività. Si apre quindi una nuova questione: come si stabilisce un criterio di giudizio sull’efficienza di un singolo a distanza? Già da tempo Amazon (2) traccia i propri dipendenti nei magazzini tramite un sistema automatizzato e arriva anche al licenziamento in caso il dipendente non stia entro gli standard. L’idea che un algoritmo governi tutte le attività è già qui: si usano app per gestire una varietà di aspetti della vita quotidiana e la gran parte dei servizi hanno una qualche forma di rating, gestito appunto attraverso algoritmi IA più o meno evoluti. L’assunto è che il calcolo del rating sia imparziale e perfetto. In un orizzonte culturale in cui il calcolo algoritmico è intrinsecamente preferibile al giudizio umano, non è distante un futuro in cui la produttività umana debba seguire dei canoni numericamente stabiliti. Se sei nei numeri bene, altrimenti non stai lavorando come dovresti e la colpa è tua.
Dopo un momento iniziale di caos informatico piano piano diventiamo tutti operativi, tutto quello che prima non viaggiava su Internet vi si riversa e sorgono chat di gruppo aziendali, sostitutive della vita lavorativa, come una sorta di ambiente virtuale per comunicare con gli altri in cui si ricrea tutto, ma proprio tutto, dell’azienda vera – anche l’ufficio del capo.
Iniziano le prime giornate lavorative vere e proprie e l’impatto dello smart working sulla vita quotidiana è enorme: per chi come me prendeva un treno significa potersi svegliare dieci minuti prima dell’orario lavorativo, oppure con anticipo e fare cose che prima sarebbe stato impossibile, come una colazione con calma, addirittura yoga. Se i benefici del lavoro da casa sono subito manifesti, non lo so-no altrettanto le insidie.
La vicinanza immediata al posto di lavoro, tale per cui si è a un click di distanza, è sì la comodità di non doversi spostare ma anche l’eventualità di potere o dovere lavorare più del previsto: in fondo che ti costa fare un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora in più? Non posso fare a meno di pensare che i datori di lavoro la vedano in questo modo, in un ambiente di lavoro come quello di oggi – soprattutto a Milano – in cui la cosiddetta ‘etica del lavoro’ (che chissà come è sempre richiesta al lavoratore e mai all’impresa, perché è il business, bellezza!) è al primo posto, e già in azienda alle sei di sera – quando in teoria finirebbe la giornata – siamo ancora tutti seduti, e alcuni fanno a gara a chi resta fino a tardi. In un sistema che si basa sulla competitività del singolo molto viene giocato su questo cosiddetto ‘attaccamento’ al lavoro, che può fare la differenza tra l’estensione o meno di un contratto o una partita Iva in più, che è il caso di parecchi miei colleghi. Non è casuale quindi che la mattina vedo utenti nella chat aziendale prima dell’orario canonico, perché forse già svegli e allora tanto vale lavorare. Ora che questo smart working è stato implementato, e lavorare è divenuto così facilmente accessibile perché basta accendere il computer, sarà semplice per un’impresa spingere a farlo anche in determinate situazioni – a casa in malattia, per esempio: stai davvero così male da non poter lavorare a un computer?
Oltretutto, la mancanza di separazione tra ambiente aziendale e ambiente privato significa che non c’è stacco fisico, e quindi anche mentale, dal lavoro: sei sempre lì con la testa. Più stress, insomma. E non sei protetto: improbabile garantire gli stessi standard da casa, ognuno si gestisce la postazione a modo proprio con buona pace delle leggi sulla sicurezza: non esiste schermo troppo vicino, sedia non a norma, rischi sul lavoro. Tutto quello che abbiamo imparato al corso aziendale non ha più senso.
Lavorando in un gruppo relativamente numeroso, il social distancing di cui parlano i telegiornali cambia completamente la dinamica dei rapporti: larga parte dei momenti che rallegrano la giornata spariscono, per fare una battuta al collega devo passare da una chat, scrivo e mi risponde minuti dopo. I canali audio si usano solo per riunioni o cose veloci, non perché la struttura informatica non lo preveda per il semplice contatto umano ma perché socialmente non è codificato farlo: siamo passati dal caffè a metà mattina allo stato di emergenza nel giro di quarantotto ore, non c’è stato il tempo per costruire un’etichetta di comportamenti specifica o sviluppare consuetudini. E anche se l’avessimo fatto, sarebbe lo stesso? In questi giorni su Facebook sono nate improbabili aggregazioni sostitutive della vita sociale, come un gruppo di ragazze in cui già mi trovavo quasi per caso. Ogni mattina e ogni sera fanno rispettivamente caffè collettivo e aperitivo di gruppo, persone che non necessariamente conosci randomicamente distribuite in una sequela di eventi. Il mancato collegamento che si cerca disperatamente di costruire a posteriori è un altro nodo critico dello smart working: parlo con gli altri perché già li conosco e pur conoscendoli lo scambio è molto ridotto, come sarebbe se non li conoscessi affatto? Non è uno scenario così lontano, già prima del coronavirus molto del settore della comunicazione a Milano era basato su collaborazioni con i freelance: lavorano un po’ qua un po’ là, in genera a partita Iva, occasionalmente dall’estero, alcuni non hanno mai messo piede in azienda. Nessuno di loro sa come l’azienda si rapporta agli altri lavoratori – un’idea l’abbiamo a stento noi che ci passiamo la giornata – come si può pensare di avere la minima coesione? Ognuno pensa ai fatti propri. Non a caso si osanna la partita Iva («Alla fine mi conviene») e i sindacati «non servono a niente», sempre che esistano e sappiano che esisti come lavoratore.
In questa situazione mi metto nei panni dei tecnici IT che non hanno modo di entrare in contatto con gli altri se non attraverso un problema da risolvere, notificato prevalentemente via email e ora tassativamente solo via email, per cui ogni messaggio che arriva per loro rappresenta un’altra incombenza. Immagino la pressione che devono aver subìto nel ricreare in pochi giorni un emulo virtuale dell’azienda, con tutto quello che comporta: trovare una soluzione che funzioni per tutti, che poi non funziona e vanno risolte decine di situazioni diverse, e se non si risolvono le persone non lavorano e si perde tempo produttivo.
La pressione aumenta per tutti anche in termini di quantità di cose a cui stare dietro per colmare il vuoto: tutte le azioni che normalmente si svolgevano nella vita reale, come un banale riunirsi in quattro e giudicare un certo video da mandare al cliente, ora comportano una serie di passi aggiuntivi. Quindi esportare il video, mandarlo per approvazione al collega, poi lo deve approvare anche il capo, il tutto rispettando dei passaggi tecnici e una serie di standard che il sistema non è in grado di gestire completamente a distanza. E per ogni cosa ci vuole più tempo, non contando che i mezzi a casa sono quelli che sono e chi lavora su qualcosa di visivo non può sperare di avere la stessa resa che aveva in azienda con uno schermo grande il doppio.
Il lavoro nella comunicazione viene narrato – nelle scuole, dalle aziende – come una professione creativa e artistica; esiste questo lato, ma non viene narrato l’aspetto più tecnico che, soprattutto in un lavoro di squadra, soggetto ad approvazioni successive, non si distanzia fortemente da una catena di montaggio: il grafico o il montatore non sono poi così lontani dall’operaio. In questo senso, separazione fisica significa anche che non si ha più la visione globale del progetto: prima facevo la mia parte ma avevo un’idea di quello che facevano gli altri, perché me ne parlavano o perché lo vedevo direttamente mentre lavoravano, ora so solo com’è fatto il mio pezzetto e so a malapena come s’incastra con gli altri.
La nota dominante dello smart working è la solitudine: il lavoratore è solo mentre lavora e solo a difendersi dal basso, in un rapporto univoco e unilateralmente a vantaggio di chi sta sopra; che forse non ha ancora ben compreso come sfruttare pienamente la situazione ma è una mera questione di tempo, tanto più che nessuno glielo impedisce. Un lavoratore solo, insomma, è un lavoratore debole.
1) G. Falasca, Lo smart working ammette verifiche su pc e posta aziendali, Il Sole 24 ore, 9 marzo 2020
2) Cfr. C. Lecher, How Amazon automatically tracks and fires warehouse workers for ‘productivity’, The Verge, 25 aprile 2019 https://www.theverge.com/2019/4/25/18516004/amazon-warehouse-fulfillment-centers-productivity-firing-terminations