Il Manifesto sottoscritto da Rinascita, Patria e costituzione e Senso comune e la strada tracciata da Thomas Guénolé di La France Insoumise
La proposta politica di queste elezioni europee registrerà un vuoto a sinistra. Probabilmente inevitabile, in questa fase. Da un lato la sopravvivenza, nonostante il crollo di consensi, di un partito come il Pd, che pur avendo più nulla del pensiero di sinistra si posiziona ancora su quel lato dell’arco parlamentare, crea l’illusione che la sinistra sia ancora politicamente rappresentata e cattura i voti di un elettorato che nella gran parte non è nemmeno più socialdemocratico ma si sente ancora ideologicamente lì posizionato (se il Pd si decidesse a dichiararsi un partito liberale di centro farebbe un’operazione di verità, cosa che ovviamente non ha la convenienza elettorale a fare).
Dall’altro la difficoltà vissuta dal pensiero di sinistra nel comprendere il presente, le sue dinamiche economiche e sociali, e aggiornarsi di conseguenza, l’ha portato a essere assente per lungo tempo sul piano culturale, il primo da sviluppare per poter poi formulare una proposta politica, con il risultato che i partiti – al plurale, viste le numerose divisioni – di sinistra hanno perso terreno anno dopo anno fin quasi a scomparire. Intendiamoci: non si sta affermando che le categorie storiche del pensiero di sinistra siano superate: la principale, il conflitto Capitale/lavoro, è oggi più viva che mai, così come i meccanismi con cui il capitalismo riesce a superare ogni sua crisi; ma la realtà dei Paesi a capitalismo avanzato, ancor più in un sistema globalizzato come quello attuale, è divenuta più complessa di quella del Novecento.
Il lavoro è stato reso ‘flessibile’ e precario ed è dunque diventato una lotta individuale, molto è divenuto cognitivo mentre il lavoratore è stato trasformato in ‘capitale umano’ e l’idea di ‘classe’ è scomparsa; la finanziarizzazione, la libera circolazione dei capitali e la catena del valore divenuta internazionale hanno reso meno individuabile e raggiungibile, anche nelle lotte, la proprietà contro cui aprire il conflitto, mentre il dumping sociale ha innescato quello tra lavoratori; il capitalismo digitale ha messo a valore la vita e non più solo il lavoro. Il pensiero critico di sinistra non è riuscito a evolvere alla stessa velocità con cui la realtà mutava, ha tenuto fermi parole e schemi, teorici e pratici, del secolo scorso e ha perso la capacità di parlare alle nuove generazioni che quella realtà vivevano, il cui immaginario è stato dunque colonizzato dal pensiero dominante neoliberista; quando lentamente è riuscito a tornare a leggere la società, si è ritrovato a dover costruire su macerie.
Le ragioni per cui, all’interno di questa Unione europea, sia impossibile per un Paese attuare politiche economiche anche solo socialdemocratiche, sono state analizzate più volte su queste pagine, entrando nel merito dei Trattati che la costituiscono, nel loro percorso storico di costruzione e nella loro impostazione neoliberista e ordoliberista; allo stesso modo sono state analizzate le ragioni per cui quei Trattati non sono modificabili, e dunque la Ue stessa non sia riformabile – in estrema sintesi, non ci stancheremo mai di ripeterlo, molto banalmente solo un voto all’unanimità tra 27/28 Paesi – 19 per l’eurozona – può cambiare il contenuto dei Trattati, un’ipotesi irrealistica (1).
Un partito di sinistra dunque, che miri a realizzare un programma politico minimamente keynesiano, che ponga al primo posto la lotta alla diseguaglianza crescente, alla disoccupazione, all’erosione dei diritti sociali e della democrazia, allo svilimento del lavoro e allo stallo economico, non può che mettere al primo punto la questione dell’uscita dell’Italia dall’Unione europea. E anche su questo la sinistra è entrata in crisi.
Il grosso scoglio da affrontare è stato il concetto storico di internazionalismo. Negli ultimi tre decenni – a eccezione del breve periodo del movimento no global, a cui è stata tagliata la testa al G8 di Genova del 2001 con straordinaria efficacia militare – la sinistra ha progressivamente confuso l’idea di internazionalismo con quella di cosmopolitismo, fino a non vederne più le differenze e a far confluire la prima nella seconda (2), ritrovandosi così a promuovere un concetto perfettamente integrato e culturalmente funzionale alla costruzione di una globalizzazione capitalista di impianto neoliberista, e a sostenere un’Unione europea che a quella costruzione fornisce un contributo attivo con la sua visione politica e le sue regole.
L’appropriarsi poi del concetto di nazione da parte della destra, che lo ha declinato in nazionalismo, ha fatto sì che a sinistra l’idea di sovranità nazionale, da riconquistare in quanto unico spazio all’interno del quale possa esprimersi un conflitto sociale che porti a un riequilibrio dei rapporti di forza tra Capitale e lavoro, fosse messo al bando (3).
Ma dopo anni di paralisi, qualcosa ha finalmente iniziato a muoversi.
Il 9 marzo scorso a Roma è stato presentato il “Manifesto per la sovranità costituzionale”, sottoscritto da Rinascita, Patria e Costituzione e Senso comune. Una realtà appena nata che ha l’ambizione a trasformarsi in partito, consapevole, nelle parole conclusive pronunciate a Roma, che la strada per farlo è tutta ancora da percorrere e per nulla semplice. In estrema sintesi si tratta di una proposta socialdemocratica, nel riconoscimento che in passato una simile posizione si sarebbe definita riformista ma allo stato attuale delle cose ha valenza rivoluzionaria, e di fatto è così.
Rimandiamo a una lettura integrale del Manifesto nei suoi vari punti (4), un aspetto tuttavia è da sottolineare: sorprende la puntualizzazione, fatta più volte, di voler tenere insieme un rinnovato socialismo con il “cristianesimo sociale”, “l’umanesimo laico della tradizione socialista e l’umanesimo cristiano”, la citazione di papa Francesco e della sua enciclica Laudato sii.
L’aver posto come snodo centrale la costruzione di una società nella quale i principi della Costituzione italiana siano attuati non solo sul piano formale ma anche sostanziale – uguaglianza, equità, solidarietà e giustizia sociale, piena occupazione, limitazione e governo del mercato e funzione sociale della proprietà privata – e affermare che storicamente nella stesura della Costituzione si siano tenute insieme la cultura socialista con quella cristiana – ma anche quella liberale, allora, da qui la prima parte dell’art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera” – non dovrebbe significare tuttavia sentire la necessità, oggi, in un programma politico, di includere un riferimento religioso. Ma tant’è. Una premessa che non entusiasma, ma vedremo come si declina.
Al di là di questo, qui interessa porre una riflessione a margine: occorre avere ben chiara la strada da percorrere, e dichiararlo.
Nel Manifesto è evidenziato come l’Unione europea ponga un limite invalicabile per l’attuazione di un simile programma politico, ed è scritto che il quadro europeo in cui muoversi non è l’attuale Ue ma “una confederazione di democrazie nazionali sovrane che affrontino assieme (ma non in antagonismo con il resto del mondo) le sfide della pace, della salvaguardia ambientale e della giustizia sociale”; non è tuttavia dichiarata esplicitamente l’intenzione di uscire dalla Ue né dall’eurozona. Negli interventi sul palco a Roma (5) qualche relatore l’ha affermato senza mezzi termini, ma l’impressione è che sia ancora l’elefante dentro la cristalleria che la maggior parte evita di guardare. E per le ragioni sopra evidenziate, questo è il primo punto da chiarire o l’intero programma resta chiacchiere.
Una volta sciolto questo nodo, ce n’è un altro altrettanto importante: come uscire?
Allo stato attuale non è presente nei Trattati una norma che preveda l’abbandono dell’eurozona – esiste solo l’art. 50 che contempla l’uscita dall’Unione europea, e la Brexit rende evidente quanto sia difficoltoso attuarla anche senza la complicazione ulteriore della moneta unica. Ciò significa che si calpesterebbe non solo un terreno finora inesplorato, ma dove non esistono regole di sorta su cui fare affidamento. Un salto nel vuoto che spaventa la maggior parte dei cittadini, anche coloro che si rendono conto che restando all’interno dell’Unione nulla cambierà mai; per questo l’istinto conservatore ha il sopravvento. Diventa dunque fondamentale, se si vuole diventare partito e candidarsi a cercare consenso elettorale per poter realizzare il programma scritto nel Manifesto, mettere nero su bianco questo percorso; se non lo si fa, comprensibilmente non arriveranno nemmeno i voti che si potrebbero raccogliere, perché tutto assume il sapore dell’irrealizzabile.
Thomas Guénolé, politologo, membro di La France insoumise e co-direttore della Scuola di formazione politica del partito, pubblica un articolo su Le Monde diplomatique di marzo, che può offrire uno spunto di partenza per l’elaborazione di una strategia. È un intervento interessante perché estremamente ancorato alla realtà e delinea un percorso preciso da mettere in atto nei confronti dell’Unione europea. Non parte dall’obiettivo di volerne uscire, ma tracciando un processo a tappe non esclude di arrivarci.
Primo: disobbedire. In due modi: utilizzando la clausola dell’opting-out (6) per gli accordi non ancora sottoscritti, e non rispettando le regole di quelli già firmati (il Fiscal compact, per esempio). Una volta salita al governo, scrive Guénolé, anche all’interno di una coalizione più ampia ma concorde sugli obiettivi, La France insoumise inizierà a disobbedire a tutte le regole Ue che impediscano l’attuazione del programma politico presentato alle elezioni.
Secondo: iniziare a elaborare un nuovo Trattato europeo e proporlo ai governi degli altri Stati membri. Nulla impedisce infatti che un’organizzazione europea parallela nasca tra i Paesi che decidano di farlo, in una negoziazione che inevitabilmente lascerà sul tavolo qualcosa, e saranno poi i cittadini, tramite referendum, a decidere se l’accordo raggiunto debba o meno essere sottoscritto. In sintesi, per questo nuovo Trattato La France insoumise propone l’abolizione dei vincoli di Maastricht ai bilanci statali, la fine delle politiche di privatizzazione dei servizi pubblici e la possibilità di ri-nazionalizzare dove già si è fatto entrare il privato, una moratoria su debiti pubblici al fine di valutare la quota del ‘debito odioso’ (7), la modifica dello statuto della Bce che deve tornare a dialogare con la politica e porre al primo punto del proprio mandato la piena occupazione e l’acquisto dei titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona, l’introduzione della Tobin Tax (la tassazione sulle transazioni finanziarie) e la separazione tra banche d’affari e banche commerciali.
Terzo: nel frattempo, la disobbedienza messa in atto produrrà tre scenari possibili.
Il primo: la resa dei Paesi ordoliberisti e l’adozione di un Trattato di rifondazione dell’Unione europea da parte di tutti i suoi Stati membri; Guénolé evidenzia subito come questa possibilità sia altamente improbabile.
Secondo scenario: sottoscrizione tra i governi dei Paesi che intendono elaborare un nuovo Trattato di un accordo che metta immediatamente in atto un opting-out e una disobbedienza alle regole collettiva; Guénolé ritiene l’avverarsi di questa possibilità molto probabile.
Terzo scenario: interruzione dei negoziati da parte della Commissione europea e conseguente uscita unilaterale dalla Ue della Francia e dei Paesi che stanno elaborando un nuovo Trattato, successiva sottoscrizione del nuovo Trattato e nascita di un’altra Unione europea.
Guénolé considera questa terza opzione altamente improbabile perché una rottura drastica, che porterebbe a un tuffo nel vuoto, non conviene a nessuno, nemmeno alla Germania, ed è dunque ragionevole pensare che davanti alla possibilità di negoziato offerta dal secondo scenario, le trattative con i Paesi paladini dell’ordoliberismo possano trovare un punto di accordo in un compromesso che porti a una riscrittura delle regole.
Ma, sottolinea Guénolé, è indispensabile che La France insoumise abbia un Piano B nel caso il terzo scenario si verifichi. Perché “in qualsiasi negoziato, per ottenere un accordo soddisfacente bisogna avere una ‘soluzione alternativa’, vale a dire una via d’uscita unilaterale di fronte all’interruzione delle trattative; e, soprattutto, essere realmente preparati ad attuarla se il ca-so lo richiedesse. Non prevedere un tale scenario significa indicare fin dall’inizio agli interlocutori che sarà sufficiente far saltare i negoziati per la capitolazione dell’altra parte”. La France insoumise dunque, intraprende questa strada pronta a uscire dall’euro, sul piano ideologico e soprattutto pratico.
La Francia non è l’Italia. Ha più forza contrattuale da spendere all’interno dell’Unione, soprattutto nel rapporto con la Germania, quindi le pressioni che può esercitare sono indubbiamente maggiori. Questo non esclude tuttavia che il Capitale cosmopolita non possa mettere in atto un attacco finanziario anche sui titoli pubblici francesi, facendo impennare il famigerato spread e innescando le conseguenze note, come ha più volte agito su quelli italiani – e prima ancora sui cosiddetti PIIGS – per piegare le politiche governative ai dettami neoliberisti, qualora se ne volessero allontanare. Il movimento dei gilet gialli, oltretutto, rende la realtà sociale francese tutt’altro che doma, quindi la situazione è delicata.
Per quanto diversa dunque, non si può dire che oggi la Francia si trovi in una fase tale per cui, il percorso che traccia Guénolé per La France insoumise possa essere ragionevolmente ipotizzato oltralpe ma non in Italia. Questo significa che la strada che propone Guénolé può essere un buon punto di partenza per riflettere e disegnare un percorso simile.
Il Manifesto per la sovranità costituzionale offre un’analisi teorica per comprendere dove siamo e dove andare, ma un partito ha anche l’obbligo di tracciare la via pratica. La sinistra italiana, finalmente tornata a leggere il presente, deve liberare il cittadino dalla sensazione di impotenza di trovarsi in un vicolo cieco, e può farlo solo se offre un modo concreto per cambiarlo, il presente.
Occorre dichiarare senza mezzi termini i passi che si vogliono fare nei confronti dell’Unione europea, scrivere questo benedetto Piano B, e presentare tutto con chiarezza. A quel punto anche la democrazia riacquisterà un senso, perché si potrà tornare a scegliere tra alternative politiche reali e non fittizie come ora, tra due diverse proposte di società e futuro. Tra darwinismo sociale e diritti sociali; tra sfruttamento e dignità del lavoro; tra diseguaglianza ed equità; tra competizione individuale e solidarietà; tra destra e sinistra.
1) Cfr. Articoli sull’Unione europea, a firma di Giovanna Cracco, a far data da dicembre 2010
2) Cfr. Domenico Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur
3) Cfr. Alessandro Somma, Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale, Derive e Approdi
5) Cfr. http://patriaecostituzione.it/gli-interventi-del-9-marzo-2019/
6) L’opting-out è la possibilità concessa a uno Stato membro di non aderire o aderire successivamente a talune disposizioni di un accordo
7) Per ‘debito odioso’ si intende un debito non vincolante in quanto illegittimamente contratto da un governo nel nome di uno Stato e destinato a soddisfare interessi diversi da quelli pubblici e collettivi, nella piena consapevolezza dei creditori e nell’incoscienza dei cittadini; i prestiti devono essere stati utilizzati per attività che non hanno portato benefici alla cittadinanza nel suo complesso