Davide Corbetta
Le spese militari e le ‘missioni di pace’ del Capitale
Il ruolo dell’Italia nel quadro internazionale della pace
Era il 21 agosto 2013 quando fonti dell’opposizione al governo siriano di Bashar al-Assad denunciarono l’uso di armi chimiche contro centinaia di persone, nei sobborghi di Ghouta, Ain Tarma, Zamalka e Jobar, nella regione di Guta. Alle parole sono seguite le immagini dei cadaveri, accatastati principalmente nei centri medici, mandate in onda dai canali al Jazeera e al Arabiya, accusati in seguito dal regime siriano di sostenere i terroristi.
Discordanti le reazioni delle due principali potenze mondiali, riunite a New York nel Consiglio di Sicurezza, dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon. Da una parte il fronte russo si è schierato in difesa del governo di Assad, valutando l’uso delle armi chimiche come una provocazione pianificata dai terroristi; dall’altra gli Usa, pronti a minacciare un tempestivo intervento armato contro il regime.
L’Italia ha deciso di seguire la via dell’Onu, rifiutando una immediata risposta militare, mentre la delegazione delle Nazioni Unite sta ancora indagando a est di Damasco. Ruolo, quello dell’Onu, apparso messianico nelle parole del premier Letta, che lo ha definito “guardiano ultimo della pace” (1), chiarendo che il compito del nostro Paese è di dare assistenza ai profughi siriani, aiuto umanitario supportato da un esborso finanziario di 80 milioni di dollari.
La ‘primavera araba’, tuttavia, non è l’unica priorità del ‘governo dalle larghe intese’, ed è stato sempre Enrico Letta a ricordare gli impegni presi con la Somalia per la costruzione di uno Stato federale. L’Italia, attraverso le parole del presidente del Consiglio, ha così pronunciato fedeltà all’Onu, ai suoi obiettivi, e al suo percorso ‘politico’ di pace, ribadito anche al G20 di San Pietroburgo; ma quanto è davvero ‘politico’ questo percorso?
Per essere assaliti dai dubbi basta leggere l’intervento del premier in Senato, quando definisce “essenziale” la partecipazione umanitaria in Siria “per evitare il collasso di economie di Paesi la cui stabilità è preziosa, come la Giordania, o il Libano dove, tra l’altro, opera in modo efficace un avamposto dell’Italia, l’Unifil” (2). La linea che divide ‘percorso umanitario di pace’, e ‘interessi economici di pace’ è molto sottile. Come si configura il quadro economico della sicurezza internazionale? Quanto costano le missioni militari alle casse pubbliche? E quali sono i moventi che spingono il governo a sostenere questi costi, a scapito di altri?
L’influenza del quadro internazionale negli equilibri economici
“L’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica” (3) e ogni anno il ministero della Difesa redige una direttiva concernente la politica militare che la Repubblica democratica dovrà sposare. L’ultima, per l’anno 2013, è stata terminata in data 19 dicembre 2012, dieci giorni prima l’approvazione del Disegno legge n. 3653 “recante proroga delle missioni internazionali delle Forze Armate e di Polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo, e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione”, presentato dal governo montiano dell’austerity.
La direttiva, nel pieno rispetto delle “forme politiche della società borghese” (4), cerca prima di tutto di delineare un quadro della sicurezza internazionale ascrivendolo a quelle dinamiche politiche che si sommano a trasformazioni culturali, come nuove lingue e religioni, che stanno modificando l’ordinamento sociale. “Il processo che ha condotto all’integrazione nell’Unione di un numero crescente di Paesi, ha messo in moto un profondo cambiamento culturale, oltreché politico e giuridico, capace di trasformare pacificamente il continente europeo e di proiettare i suoi effetti su tutte le regioni circostanti” (5).
Secondo il quadro delineato dal ministero della Difesa, dunque, sono gli stravolgimenti politici (e di modello politico) a influenzare i modelli sociali e culturali di una Europa definita prospera e altamente sviluppata; ma è bene ricordare che l’Europa, prima di tutto, è una ‘regione’ nata per le necessità economiche degli Stati dominanti che ne fanno parte. Il suo modello politico, così come il suo campo di potere militare, costituiscono la sovrastruttura di un modello economico, i cui equilibri risentono dell’espansione dell’area asiaticopacifica, che sgomita per ottenere maggior peso nei mercati internazionali.
La crescita del benessere, prosegue la direttiva del ministero, favorisce due cose: la nascita di nuove classi medie nei Paesi emergenti, e l’aumento di consumo delle risorse primarie, come energia, acqua e cibo, provocando di conseguenza un “aumento dei consumi globali di risorse naturali molto più rapido rispetto alla crescita della disponibilità. Per alcune di queste risorse si è passati da un’era di relativa abbondanza, a un’era di scarsità” (6). Il bisogno, perciò, è quello di cercare nuove fonti d’energia, spingendo per un mutamento nelle condizioni geoeconomiche e negli equilibri politici esistenti. “Un’era di scarsità” che fa aumentare i costi alimentari, come prodotti agricoli e zootecnici, e quel fenomeno che tocca quotidianamente le coste del nostro Paese: le migrazioni, dovute sì alla diminuzione delle risorse naturali, ma anche alla mancanza di sicurezza in aree di conflitto, o prive di governo. Le difficoltà economiche dei Paesi occidentali, conclude il ministero della Difesa, stanno mettendo in pericolo anche gli equilibri internazionali, in special modo la disparità delle finanze pubbliche. Per questa ragione è stato sottoscritto un “trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione europea” (7), ovvero nuove regole per risanare i bilanci, che dal gennaio 2013 dovranno raggiungere nel breve termine una posizione di pareggio, riducendo il debito pubblico nel medio periodo a un livello non superiore al 60% del Pil.
Di conseguenza il dovere assunto dal nostro Paese nei confronti dell’Europa è di rafforzare la propria posizione di bilancio, e di migliorare la stabilizzazione finanziaria, senza venir meno, prima ancora che agli obblighi nei confronti dei cittadini, agli oneri militari per la ‘gestione della crisi’ e il ‘ripristino della sicurezza’. “L’Italia deve saper concorrere a iniziative multilaterali, caratterizzate da un significativo impegno militare, per affrontare in tempi brevi e in maniera risolutiva, crisi che dovessero accendersi in aree o contesti di critica rilevanza per la sicurezza del Paese e della stabilità internazionale” (8).
Una politica economica militare è inevitabile, poiché sono le forze armate a garantire la sovranità nazionale, specialmente in un contesto come quello della Ue, dove la sovranità ‘dovrebbe’ essere condivisa. Per fare ciò la direzione che dà il governo è quella di migliorare il livello, in termini di prontezza, addestramento ed equipaggiamento, del personale militare, anche a discapito, come avviene nelle logiche imprenditoriali per il massimo sfruttamento del capitale, di ridurre la dimensione quantitativa delle forze utilizzate. Appoggiare la Nato, l’Onu e gli altri partner europei influenzerà sempre le scelte nazionali, e le ‘missioni di pace’ fanno parte di queste scelte, in quanto schierano in campo risorse il cui compito è di condizionare lo stato geopolitico, e gli equilibri politici esistenti, soprattutto fuori dall’Europa. Basta dare un’occhiata agli obiettivi fissati nel Disegno legge n. 3653, e agli altri costi militari, per rendersene conto.
Le spese militari per le ‘missioni di pace’
I costi di ‘pace’ regolamentati dal Disegno legge n. 3653 si dividono in due Capi: disposizioni riguardanti le missioni internazionali eseguite dalle forze armate e dalla polizia, e disposizioni a sostegno dei processi di ricostruzione della pace e di stabilizzazione delle cooperazioni internazionali. Gli incarichi di impatto maggiore, sia per quantità di costo, sia per qualità degli obiettivi, sono presenti principalmente nel primo Capo.
Partendo dall’art. 1 comma 1 apprendiamo che l’Italia, per il periodo che va dal primo gennaio al 30 settembre 2013, ha autorizzato una spesa di 427 milioni di euro, prorogata poi nel 4° trimestre per altri 125 milioni di euro (9), al fine di sostenere le missioni Isaf ed Eupol in Afghanistan (vedi Tabella 1). Lo scopo non è solo quello degli aiuti umanitari, ma anche di supportare il governo afghano nell’estendere la sorveglianza, attraverso la costituzione di un corpo di polizia civile, che interagisca in modo corretto col sistema giudiziario penale. Un programma in cui è impegnata l’arma dei carabinieri, in attività di addestramento delle forze di polizia locali. Un investimento complessivo di 550 milioni di euro che sposta l’obiettivo umanitario di ricostruzione dell’identità sociale e civile, all’istituzione di un potere di controllo punitivo più efficace.
Al comma 2, invece, per “creare le condizioni di pace” in Libano e al confine con lo Stato di Israele, le spese autorizzate ammontano a 119 milioni di euro, più la proroga del 4° trimestre di 40 milioni. Un costo che agevolerà il passaggio del personale delle Nazioni Unite e il “dispiegamento delle forze armate libanesi”.
Obiettivi simili per le missioni dei carabinieri Msu, Eulex Kosovo, e Joint Enterprise-Balcani (comma 3), uno sforzo da 52 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti altri 22 milioni di proroga per il “mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica, a supporto delle autorità locali e per il reinserimento dei rifugiati”. Tutto sempre in nome dello sviluppo di un sistema giudiziario locale.
Discorso a parte, che dopo vedremo, merita il comma 11, inerente i 45 milioni di euro per l’antipirateria, e le missioni Ue Atalanta e Nato Ocean Shield nelle acque somale, dalle quali è giunto il barcone di cinquecento immigrati che nell’ottobre scorso si è inabissato al largo di Lampedusa, causando più di trecento vittime.
Ciò che ci interessa adesso, piuttosto, è ricordare che ai costi delle missioni sopra esposte, vanno aggiunti ancora i 144 milioni di euro autorizzati (comma 18) per “assicurazioni trasporti infrastrutture”, ovvero esborsi per infrastrutture utilizzate durante le missioni, i contratti di assicurazione del personale, e le spese di trasporto.
Ci sono poi le iniziative di cooperazione in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Myanmar, Somalia, Sudan e Sud Sudan, che hanno lo scopo di sostenere la ricostruzione di questi Paesi, ma anche di formare il loro sistema giudiziario penale, altri oneri che aggiunti a quelli sopra esposti compongono la cifra finale che il Disegno legge n. 3653 ha autorizzato per i mandati di pace: 936 milioni di euro totali, ai quali vanno aggiunti i 303 milioni di euro della proroga per il 4° trimestre 2013 (vedi Tabella 1).
Una cifra esorbitante, incrementata dal governo in un trimestre in cui l’opinione pubblica doveva già fare i conti con l’aumento dell’aliquota Iva dal 21 al 22%, che porterà le famiglie a spendere in media 300 euro in più all’anno. Quando i prezzi di benzina e diesel crescono ancora di 1,5 e 1,4 centesimi euro/litro, la disoccupazione giovanile raggiunge il record del 40,1% (10) e il fabbisogno statale di settembre è cresciuto sino a 4,1 miliardi di euro in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Del resto, come ci ricorda Marx con la concezione materialistica della storia: “La produzione, e con la produzione lo scambio dei suoi prodotti, sono la base di ogni ordinamento sociale”. Ciò che si produce (‘missioni di pace’) e il modo in cui si distribuisce ciò che viene prodotto, sono le cause ultime di ogni mutamento della società (11).
Malgrado ciò, quelli del Disegno legge n. 3653 e proroga, non sono gli unici costi militari.
Altri costi militari: gli F-35 Joint Strike Fighter
Ritornando per un attimo alla direttiva ministeriale in materia di politica militare, si può notare come il ministero della Difesa presti molta attenzione alle attività che concorrono allo sviluppo economico e tecnologico. L’ottimizzazione delle capacità industriali nazionali, nel settore della difesa, avviene soprattutto in ambito europeo. “La conseguente accelerazione del processo di realizzazione di un mercato europeo della difesa costituisce un’esigenza ineludibile per garantire equipaggiamenti avanzati al minor prezzo possibile in un mercato di dimensioni continentali, anche al costo di una maggiore competizione sui mercati nazionali” (12).
Il ministero dello Sviluppo economico favorisce l’industria nazionale della ‘difesa’, specialmente nel settore aerospaziale, sviluppo e produzioni di sistemi d’arma ecc., per la creazione di prodotti che soddisfino le esigenze nazionali, ma anche le esportazioni internazionali, al fine di “garantire al Paese il giusto ritorno economico degli investimenti” (13).
La visione di un mercato europeo condiviso non ha tuttavia impedito di cercare collaborazione con soggetti industriali statunitensi, come è avvenuto per l’appalto degli F-35 Joint Strike Fighter, un esempio di spreco bellico. Il supercaccia verrà prodotto nello stabilimento di Cameri, in provincia di Novara, proprietà della Alenia Aermacchi, società del gruppo Finmeccanica, uno dei leader nel settore aeronautico internazionale, che “fornisce prodotti e sistemi di qualità e prestazioni superiori per costruire un portafoglio di capitali intangibili che comprende le competenze di tipo tecnologico, manageriale e imprenditoriale” (14).
Capitali ‘intangibili’ come i 90 velivoli destinanti ad aeronautica e marina, che costeranno circa 100 milioni di euro ciascuno (15), importo compreso nei 2 miliardi e mezzo già investiti dall’Italia in questo progetto nato nel 2001. Gli F-35 dovranno rimpiazzare le 250 unità formate dagli AV-8B HARIER della marina, gli AMX e i Tornado dell’aeronautica.
Lo stabilimento di Cameri, che rappresenta il restante miliardo investito, è stato costruito apposta per l’assemblaggio dei supercaccia la cui produzione, secondo il generale Domenico Esposito, dirigente dei programmi di armamento dell’aeronautica, porterà 18,6 miliardi di dollari alle imprese nazionali, e lavoro a 10 mila italiani. Una previsione che, tuttavia, pecca di un problema di fondo: i Paesi coinvolti nel programma (Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Olanda, Turchia, Canada, Australia, Danimarca e Norvegia) non sono obbligati ad acquistare gli aerei dallo stesso stabilimento, potendo scegliere di approvvigionarsi presso il produttore diretto, ovvero l’americana Lockheed, già ai ferri corti proprio con Finmeccanica per la contesa sulla gara di appalto dei nuovi aerei di addestramento Aermacchi M346. Terminate le 90 unità già pianificate, dunque, la spesa di 2 miliardi e mezzo, e l’impiego di 10 mila lavoratori, potrebbe rivelarsi un investimento a perdere nel lungo periodo.
La costruzione della pace, più nello specifico degli strumenti per la pace, deve passare dalle regole del capitale, nella proprietà privata dei mezzi di produzione. La domanda, a questo punto, è se gli interessi che il massimo capitalista, lo Stato, ha nella sicurezza del nostro Paese, si limitino soltanto agli armamenti.
Missioni di pace del capitale: le risorse energetiche nei Paesi in conflitto
Siria, Libia, Iraq, e più in generale Medio Oriente e Nord Africa, oltre a essere le zone in cui l’Italia investe di più in termini di missioni di pace, formano anche uno degli snodi centrali per le filiere di idrocarburi, gas-naturale e petrolio, gestiti dal nostro Ente Nazionale degli Idrocarburi: l’Eni. Dando uno sguardo alla Relazione finanziaria 2012 del Cane a sei zampe, è facile capire come mai, a discapito della situazione economica nazionale, si approvino costi internazionali delle forze armate e di polizia per 1,27 miliardi di euro.
Nel 2012 la crescita del 7% nella produzione degli idrocarburi è dovuta soprattutto all’apertura del pozzo esplorativo A1-108/4, il quale ha permesso di riavviare le attività esplorative onshore in Libia, e che grazie ai suoi impianti, e a quelli presenti in Iraq, ha portato l’utile operativo 2012 adjusted della Divisione Exploration & Production a 18,52 miliardi di euro, +15,2% rispetto al 2011.
Libia e Iraq dove sono presenti una missione per “attività di assistenza, supporto e formazione”, una della guardia di finanzia, e la cosiddetta “Giustizia – Partecipazione magistrato EUJUST LEX-Iraq”, per un costo totale nel 2013 di 17,6 milioni di euro (16).
Il settore degli idrocarburi, invece, è sostenuto dallo sviluppo di altre aree in Nord Africa, Africa Sub-Sahariana, Venezuela e Kazakistan, “con la possibilità di sfruttare i vantaggi legati a un’approfondita conoscenza geologica delle zone, alle significative sinergie tecnico-produttive e alle consolidate relazioni con i Paesi produttori” (17), Paesi per i quali sono previsti “fondi fiduciari Onu destinati a Middle East North Africa e al Gruppo di Contatto per la lotta alla pirateria”, sovvenzione di 700 mila euro (18), e la “partecipazione ai processi di pace nell’Africa sub-sahariana, rifinanziamento dell’Italian African Peace Facility Fund e per l’erogazione di un contributo all’UNPOS”, dal totale di 2,6 milioni di euro (19).
Le stesse zone, inoltre, sono spinte dalla maggior presenza di pozzi produttivi dei quali Eni, nel 2012, detiene il 33,2% per la produzione di petrolio, e il 29,7% per la produzione di gas naturale (vedi Tabella 2), che tradotto in termini di lavorazione giornaliera, sempre nel 2012, diventano 614 mila barili di petrolio e condensati, 81 milioni di metri cubi di gas naturale e 1,1 milione di boe di idrocarburi (vedi Tabella 3).
Per rendersi conto della portata di approvvigionamento che hanno questi territori basti pensare che in Italia, dove ci sono 242 pozzi di petrolio, dei quali Eni detiene l’81%, e 621 pozzi di gas naturale, in quota Eni per l’86%, nel 2012 sono stati prodotti, al giorno, soltanto 63 mila barili di petrolio e condensati, 19,7 milioni di metri cubi di gas naturale, e 189 mila boe di idrocarburi. Nello stesso periodo, Eni ha poi acquistato 62,21 milioni di tonnellate di petrolio, di cui il 19% dall’Africa Occidentale, il 10% dall’Africa Settentrionale e l’8% dal Medioriente.
La sicurezza nei principali Paesi produttori di petrolio, gas e idrocarburi, significa dunque sicurezza di approvvigionamenti, di ricerca, e di crescita degli utili, e forse per questa ragione il Cane a sei zampe ha riavviato di buon animo le attività onshore in Libia, e incrementato lo sviluppo in Iraq grazie a nuovi contratti che ne espanderanno la capacità di trattamento, raddoppiando nel 2014 l’attuale livello produttivo. Dato confortato anche dall’impiego degli investimenti tecnici nell’anno 2012, che mentre per Africa settentrionale, Africa Sub-Sahariana, Kazakistan e il resto dell’Asia è di ben 6,1 miliardi di euro, in Italia arriva soltanto a 776 milioni (vedi Tabella 4).
Nel corso del 2012 Eni ha riavviato le attività produttive e le esportazioni di gas in Libia, bloccate l’anno precedente a causa del conflitto, con ovvie ripercussioni sul volume di affari e il reddito operativo, ma la Libia non è l’unico territorio che ha messo a rischio il commercio internazionale degli idrocarburi. Anche per la Siria degli aiuti umanitari, e degli 80 milioni di dollari di finanziamento, gli interessi della pace hanno ceduto il passo agli interessi della produzione. In base al Regolamento UE n. 442/2011 del Consiglio datato 9 maggio 2011 “concernente misure restrittive in considerazione della situazione in Siria”, l’Unione europea ha congelato ogni risorsa economica (20), imponendo il divieto di acquistare, importare o trasportare dalla Siria il petrolio greggio o altri prodotti petroliferi (21).
Dalla Siria, l’Italia importava 55 mila barili di greggio al giorno (22), che insieme ad altri prodotti petroliferi si traducevano in 1,04 miliardi di euro l’anno. La decisione della Ue di chiudere i rapporti commerciali col Paese arabo ha portato perdite di 1,13 miliardi di euro in importazioni, e 1,6 miliardi di euro in esportazione, oltre ad avere chiuso l’accesso alle riserve di gas del cosiddetto ‘bacino del levante’ (esteso tra le acque siriane, israeliane e libanesi), un giacimento da 3,4 trilioni di metri cubi di gas e 1,7 miliardi di barili di petrolio. Guadagno che andrà nelle tasche di chi foraggerà con armi e munizioni le fazioni in rivolta nel regime di Assad.
“Le cause ultime di ogni mutamento sociale, e di ogni rivolgimento politico, vanno ricercate non nella testa degli uomini, nella loro crescente conoscenza della verità eterna, e dell’eterna giustizia, ma nei mutamenti del modo di produzione e di scambio” (23), e se la chiusura dei rapporti commerciali con la Libia prima, e con la Siria poi, ha causato danni principalmente all’industria, cosa succede quando a essere toccate sono le vite umane di chi, da quei Paesi, tenta di fuggire ogni giorno?
La tragedia di Lampedusa: il primato della violenza
Come accennato sopra, a ottobre scorso le coste italiane hanno dovuto vivere l’ennesima tragedia del mare, con l’affondamento, nei pressi dell’isola di Cipro, di una nave con a bordo 500 profughi in fuga dalla Somalia. Il carrozzone della politica si è stretto nel cordoglio e nello sgomento, mentre la procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta, a carico di ignoti, per omicidio plurimo colposo, naufragio colposo, e favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
Secondo Fortress Europe, osservatorio sulle vittime dell’immigrazione (24), nel canale di Sicilia, dal 1994 a oggi sono morte oltre 6.200 persone. Molti imputano la colpa della tragedia alla legge Bossi-Fini, e alla mancanza di una politica di accoglienza degli immigrati nel nostro Paese, nondimeno proprio in quei territori da cui ogni giorno i profughi scappano in direzione dell’Italia, ci sono già missioni militari che prevedono il controllo delle acque.
Secondo l’articolo 1, comma 11 del disegno legge n. 3653 (vedi Tabella 1), più la relativa proroga per il 4° trimestre, 45 milioni di euro sono il costo destinato al contrasto della pirateria nelle acque somale, e alla protezione delle navi PAM (Programma Alimentare Mondiale) che trasportano aiuti umanitari, anche con presenza sulle navi di elementi armati, aventi l’autorità di usare la forza per dissuadere, prevenire e reprimere atti di pirateria.
Nonostante questo, i barconi ricolmi di profughi continuano a scappare agli occhi ‘vigili’ delle forze Nato, perciò si è sentita la necessità di istituire una nuova missione, denominata “Mare nostrum”, che dal 18 ottobre scorso ha il compito di fronteggiare il flusso delle navi profughe al largo del Mediterraneo, e di controllare le frontiere affinché si blocchino sul nascere le partenze dei ‘viaggi della speranza’. L’operazione prevede l’uso dei droni, decine di elicotteri e cinque navi della marina, e secondo le affermazioni del ministro della Difesa Mario Mauro, costerà più di un milione e mezzo di euro al mese, da spendersi fintanto che si terrà opportuno continuare col mandato.
E pensare che per il controllo del canale di Sicilia esiste da più di dieci anni una missione, a cui il nostro Paese ha finora contribuito con 230 milioni di euro. Si chiama Active Endeavour, e opera proprio in quel quadrante costituito dall’asse Libia-Sicilia, insieme a una pattuglia area dell’Alleanza Militare che controlla la tratta Tunisia-Italia. Eppure, come riportato dall’inchiesta uscita a ottobre su L’Espresso (25), secondo un dossier dell’Institute for foreign policy analysis la colpa delle tragedie in mare è dovuta a due grosse mancanze: i controlli sulla trasmissione dei dati raccolti, e un corretto scambio di informazioni tra Nato e Frontex (Agenzia europea delle frontiere). Il motivo è semplice: mentre Frontex è un dispositivo civile delle forze dell’ordine, l’Active Endeavour rimane un’operazione militare, i cui obiettivi, più che i barconi di migranti, sono i mercantili pirata, la caccia ai sommergibili e al sempre utile spauracchio del terrorismo.
I 230 milioni investiti dall’Italia, è evidente, non stanno rendendo quanto avrebbero dovuto, e così vite umane continuano ad annegare nel Mediterraneo, mentre altri 303 milioni di euro nell’ultimo trimestre 2013 finanzieranno le missioni militari di un Paese in recessione, supercaccia da 100 milioni di euro sono pronti al decollo, e migliaia di barili di petrolio e milioni di metri cubi di gas stanno per rivitalizzare lo sviluppo del capitale privato.
Cosa dovremmo concludere da tutto questo? Che le missioni di ‘pace’, di qualunque tipo esse siano, portano coercizione e consenso, i quali non sono altro che il prodotto del rapporto tra il potere economico e il suo conseguenziale potere politico. Come abbiamo visto per il caso degli F-35, o della produzione di petrolio, gas naturale e idrocarburi, è il movimento di capitale che necessita di coercizione e consenso (26). L’introduzione delle armi nella storia fu un progresso economico industriale, e un progresso della distribuzione borghese. L’esercito è diventato fine dello Stato e fine a se stesso, mercato e sistema produttivo di una merce che è uguale ad altre merci. È la concorrenza economica tra Stati a creare la necessità di denaro per la corsa agli armamenti.
“Che cosa appare precisamente come l’elemento primitivo della stessa violenza? La potenza economica, la disponibilità dei mezzi della grande industria” (27). Tutti i conflitti trovano motivazione nella produttività, più o meno sviluppata del lavoro umano. “La violenza è la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova, è lo strumento con cui si compie il movimento della società, e che infrange forme politiche irrigidite e morte” (28).
(1) Onu: Letta, in Siria ne abbiamo difeso ruolo guardiano pace, AGI.it, 25 settembre 2013
(2) Letta sulla Siria: soluzione politica unica opzione. Mosca trasmette piano a Usa, IlSole24 ore, 11 settembre 2013
(3) Costituzione della Repubblica italiana, art. 52
(4) Friedrich Engels, Antidühring
(5) Direttiva ministeriale in merito alla politica militare per l’anno 20132
(6) Ibidem
(7) Ibidem
(8) Ibidem
(9) Le cifre riguardanti la proroga del 4° trimestre sono prese da N. Cottone, Il Consiglio dei ministri proroga le missioni pace, IlSole24 ore, 4 ottobre 2013
(10) Cfr. Occupati e disoccupati (dati provvisori), Istat.it, 1 ottobre 2013
(11) Friedrich Engels, op. cit.
(12) Direttiva ministeriale cit.
(13) Ibidem
(14) http://www.aleniaaermacchi.it/it-IT/AboutUs/Pagine/Mission.aspx
(15) Cfr. F35, il piano della Difesa per i 90 aerei. Ognuno costa 100 milioni di euro, Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2013
(16) Cfr. Capo 1 art. 1 commi 14, 25, 26 Disegno di legge n. 3653 e relativa proroga 4° trimestre 2013
(17) Relazione finanziaria Eni, 2012
(18) Cfr. Capo 2 art. 6 comma 2 Disegno di legge n. 3653
(19) Cfr. Capo 2 art. 6 comma 8 Disegno di legge n. 3653
(20) Regolamento UE n. 442/2011, art. 4 par. 2
(21) Decisione 2011/273/PESC del 9 maggio 2011
(22) Cfr. G. Micalessin, Fine degli affari Italia-Siria, ecco quanto ci costa la guerra, Il Giornale, 29 agosto 2013
(23) Friedrich Engels, op. cit.
(24) http://fortresseurope.blogspot.it/
(25) Cfr. G. Di Feo, Lampedusa e spese militari. Quella missione Nato inutilizzata, L’Espresso, 14 ottobre 2013
(26) Cfr. G. Cracco, Guerra e capitalismo, l’ipocrisia del dibattito sulle spese militari, Paginauno n. 33/2013
(27) Friedrich Engels, op. cit.
(28) Ibidem