Cosa vuoi fare da grande?» «Voglio essere felice.» Non ricordo bene se sia stato John Lennon in persona o qualcuno dei suoi parenti a raccontare questo aneddoto della sua infanzia scolastica. Io ho sempre pensato che Lennon si sia ‘svegliato’ durante la crescita per diventare lo straordinario personaggio che tutti abbiamo conosciuto. Per conseguenza, sono portato a credere che quella frase è forse ciò che Lennon avrebbe voluto rispondere a un ipotetico insegnante – è una risposta così tanto anni ‘60, e sembra (e forse è stata o voleva essere) un programma politico… insomma, non una cosa da bambini. Se poi personalmente dovessi dirvi in cosa consiste la felicità, beh credo che vi deluderei. Me ne starei zitto a pensare, piuttosto, ai momenti in cui ho sentito/capito/percepito una sensazione straordinaria e irripetibile di intenso godimento – sono portato a pensare che in quell’attimo io abbia attinto la felicità, per mondana che essa sia. Mi capita di riconnettermi a quella sensazione quando le mie mani si trasformano in una bacheca da rabdomante, e pescano nel mio archivio brani musicali che poi risultano essere misteriosamente in connessione. Probabilmente il mio inconscio flirta con la memoria e mette assieme frammenti ascoltati anche molti anni prima. Oppure va a pescare, tra tutti gli album disponibili in quel momento, mettiamo, su quella bancarella, proprio quello con cui sono più in sintonia in quello stesso momento.
Ricordo che avevo passato una serata intera ad ascoltare uno dei miei guru chitarristici, lo scozzese Bert Jansch (di cui ho scritto l’elogio funebre tempo fa in questa rubrica). Il giorno dopo in un mercatino trovai una copia piuttosto ben messa del primo album dei Led Zeppelin (1969). Ecco, sono stato felice quando ho ascoltato Black mountain side suonata da Jimmy Page che risuonava a modo suo il classico irlandese Down by blackwaterside, versione di Bert Jansch dal suo album del 1966 Jack Orion. E sono stato di nuovo felice anni dopo quando ho riascoltato lo stesso brano, stavolta suonato da Steve Tibbetts: l’album è Big Map Idea (1988, ECM). A parte la dolce nostalgia che mi riconnetteva ai miei anni puberali, fu la scoperta di un geniale chitarrista a riempire di luce le mie giornate. Se guardo in retrospettiva tutta la carriera di questo signore, schivo e lontanissimo dal chiasso e dai riflettori, ritrovo tutti posti silenziosi nella mia vita e i suoni che li hanno popolati e persino “il suon di lei”, tanto per citare Leopardi.
Tibbetts è nato nel 1954 a Madison, Wisconsin, e ha studiato al college di St. Paul, Minnesota. Non so se vi è mai capitato di fare un giro tra questi due Stati americani o se per esempio avete visto Fargo: è la dimensione più simile al grande Nord europeo che possiate immaginare. Terre piatte o leggermente ondulate che si affacciano sul primo dei grandi laghi statunitensi, il Superiore, coperte di erba e poi di neve, tanta neve, catafasci di neve. In più, buona parte della popolazione è proprio di origine scandinava, svedesi, norvegesi, danesi. Insomma, se cercate il silenzio e gli spazi aperti quelli sono posti ideali, e la musica che scrive e suona Tibbetts è perfetta.
Hanno detto di lui la cosa più ovvia, ovvero che non assomiglia a nessun altro musicista e la sua musica non è inquadrabile in nessuna categoria conosciuta. Oltre a questo, nelle poche interviste che ho trovato in rete, non figura mai la fatidica domanda “da dove prendi la tua ispirazione?”. Non è che i critici musicali si strappino i capelli per non poterlo mettere in qualche scatoletta predefinita, e Tibbetts stesso non alimenta certo illazioni o speculazioni, anche e soprattutto perché non è un personaggio, né credo voglia esserlo. Paradossalmente, ma non troppo, se devo confessare di non-sapere mi spunta in faccia un sorriso assai più grande di quello che potrebbe venir fuori dalla visione di immagini che evocano mondi lontani.
Evidentemente, vi sto invitando ad ascoltare tutti gli album di Tibbetts e a lasciarvi andare alle suggestioni. Ebbi la fortuna di ascoltare Big map idea appena uscito (1989) su suggerimento di un amico fanatico della leggendaria etichetta tedesca ECM. Eccitato dall’aver trovato un filo rosso tra Jansch, Page e Tibbetts (con la mediazione del John Renbourn di A maid in bedlam) ricordo che mi disposi all’ascolto con qualche aspettativa. Già al secondo brano mi resi conto che stavo esplorando territori a me sconosciuti, e la curiosità di scoprire cose nuove e per me inaudite mi fece fare piazza pulita di tutto ciò che potevo aspettarmi. Lo choc fu talmente forte che andai a ripescare tutta la produzione precedente del nostro e andai avanti indietro per capire se c’era un’evoluzione, un filo rosso di pensiero che legava le varie opere. Non c’era. C’era invece il suono, quello sì che era inconfondibile. Scoprii che la Martin 12 corde che Tibbetts usa abitualmente ha i tasti praticamente piatti, consunti dall’uso.
Tibbetts racconta: “Ho una 12 corde Martin che mio padre mi ha regalato. […] È una vecchia chitarra, ora. Ha una risonanza interna particolare, come se avesse una piccola sala da concerto al suo interno. Cerco di esaltare quella qualità stirando le corde. In altre parole, invece di accordare le 4 corde inferiori con intervalli di ottava, le porto tutte all’unisono. Rende molto più difficile suonare, ma con gli intervalli ripetuti riesco a tirare fuori delle sfumature se sono disposto a impegnare fisicamente le corde […] Ci sono alcuni piccoli problemi di intonazione e punti in cui le corde ronzano da tasto a tasto. Ho portato la 12 corde a Ron, il riparatore del negozio St. Paul Guitar. Ha guardato la chitarra. L’ha sollevata e ha guardato la tastiera. Ha detto: «I tasti sono piatti. Potrebbero esserci alcuni problemi di ronzio o intonazione. Ti piace come suona?» Ho detto: «Adoro il modo in cui suona». Mi ha consegnato la chitarra sul bancone e ha detto: «Allora non serve che la aggiusti»“.
In più i brani sembravano cominciare e finire senza una logica. Impressionismo? Sì, ma solo in parte, se accettiamo che un musicista riesca a trasporre in vibrazione musicale l’emozione che prova. Ho provato a mettere in loop molti brani di Tibbetts dedicandomi alla lettura o alla cucina, e il risultato è sempre lo stesso: circolarità assoluta, ma non per il fatto che il mio lettore CD riproduce il brano all’infinito, piuttosto perché è la sensazione musicale che viene ripetuta finché non decido di fermarla. Se devo pensare a qualcosa di analogo nella musica di tutto il mondo, il gamelan di Giava o a Bali è l’esempio più vicino (Steve Reich e Philip Glass ne sanno qualcosa) – con l’avvertenza che la produzione del suono ha una forte risonanza con il corpo sia dell’ascoltatore che del musicista.
Racconta Tibbetts, sempre sul suo sito (https://stevetibbetts.com/ window-to-indonesia/): “A Bali, il corpo è semplicemente qualcosa da smaltire al più presto, avendo servito il suo scopo come dimora temporanea per lo spirito […] pronto a tornare come parte del prossimo ciclo di rinascita […] I balinesi vivono [la vita] in una complessità di cicli interconnessi, tra cui 10 diverse lunghezze di settimane, e questo si riflette nella natura ciclica dei modelli di gong, in cui gong di diverse dimensioni e tonalità mantengono un’alternanza ripetitiva e interdipendente di suoni. A differenza della maggior parte della musica occidentale, non c’è un obiettivo finale per le melodie balinesi, e il gong finale in un ciclo semplicemente chiude quel ciclo per quel particolare momento nel tempo. Alcuni indonesiani credono che tutta la musica esista per sempre, e che tutto ciò che si fa in termini di prestazioni è semplicemente ‘portare giù’ [la musica] in un intervallo udibile” (il corsivo è mio).
Quest’ultima considerazione diventa particolarmente importante negli album–svolta di Tibbetts ovvero Chö (Hannibal, 1997) e Selwa ((Six Degrees, 2004) con la monaca buddhista tibetana Chöying Drolma. Sono due album atipici perché il nostro è assolutamente discreto nel lasciare la scena alla voce straordinaria di Drolma, tanto più autentica quanto meno attaccata al virtuosismo, vera presenza vivente, armonia vibrante delle parole del Buddha (e se solo sapeste qualcosa di tantra vi verrebbe immediatamente la pelle d’oca ascoltando il rituale del Chö). Un compito improbo quello richiesto al nostro, eppure svolto con una umiltà e una precisione davvero fuori dal comune. Affermo che ci sono in commercio centinaia di album ‘etnici’ totalmente irrispettosi dei canti sacri dei vari popoli del mondo: armonie e melodie assolutamente occidentali mescolati con qualcosa che è loro completamente aliena. Alle mie orecchie questo suona non tanto sacrilego, quanto soprattutto cacofonico, disarmonico nel senso più profondo. In questi due album Tibbett ha fatto il miracolo: le armonie che accompagnano la melodia principale sono di fatto intrinseche a essa. È come se il nostro chitarrista avesse trovato ornamenti, tappeti, sete, su cui adagiare e far viaggiare la vibrazione principale. È lui che si è rapportato/adeguato a loro e non viceversa.
È con queste premesse che mi sono disposto all’ascolto dell’ultimo lavoro di Tibbetts, intitolato Life of (ECM). Le 13 tracce dell’album sono tutte nella stessa chiave (re minore), o molto vicino a essa. Sono tutte della stessa consistenza e timbro (chitarra acustica, con un violoncello che crea droni inquietanti e accenti pianistici e percussivi occasionali). Hanno tutte lo stesso carattere e forma (lenta, gentile, meditativa). A un ascolto distratto, potrebbe persino sembrare musica da sottofondo. In tal modo, però, si rischierebbe immediatamente di perdere il suo notevole spettro di sfumature. A distanza ravvicinata, Life Of contiene delicati trine di chitarra in stile fingerpicking (Bloodwork) che lasciano il posto a fraseggi che echeggiano il sitar indiano, specie nelle note ottenute stirando la corda o le corde (bending) come in Life of Emily; vi troviamo leggere riflessioni folcloriche sottolineate dai ciuffi armonici del violoncello di Michelle Kinney, infine un’improvvisa ascesa delle percussioni trionfanti di Marc Anderson e dei pianoforti sovraincisi di Tibbetts (Life of Mir).
Più avanti ci sono figure luminose a forma di ruota di carro per chitarra e pianoforte (Life of Joel). Se consideriamo l’album come un unico lungo lavoro, allora dobbiamo guardarlo come uno studio dallo sviluppo assai sottile. Uno sviluppo, peraltro, che mantiene la musica sempre fresca. Le note prodotte con la pressione di un solo dito sulla corda che Tibbetts decide semplicemente di lasciar cadere su Life of Dots, a metà del disco, sono misteriose e commoventi come Bloodwork lo era all’inizio. Le sonorità uniche (del metallico e misterioso handpan) del penultimo End Again lo sono ancora di più. La conclusione di nove minuti Start Again, è quella più vicina a una composizione in sé compiuta e sviluppata. Eppure, ascoltandola separatamente, introduce di fatto nuove idee, uno slancio ritmico inizio-e-fine e l’uso drammatico di timbri e dinamiche percussive talvolta commoventi. Ancora una volta mi rendo conto che questi aggettivi cercano disperatamente di categorizzare una musica profondamente emozionale, come per esempio avverrebbe se volessi a tutti i costi legare tutti brani a un’idea di storia raccontata. Tibbetts smonta costantemente questa idea, così come le aggettivazioni, affermando, come in Life of Carol: No story, I’m afraid. It’s just another guitar circling, circling. In Life of, specie se vorrete godervelo ascoltandolo a ripetizione ma con un ordine dei brani a casaccio, c’è piuttosto uno spazio vuoto dove stupirsi.
Tibbetts ha già parlato del suono della sua 12 corde affermando che dentro di essa c’è una piccola sala da concerto. Immaginate il mio stupore quando ho letto come è avvenuto l’editing finale dell’album. Dapprima Tibbetts ha registrato l’album e poi ne ha riprodotto il suono ri-registrandolo in una sala da concerti vuota: “La piccola sala da concerto della chitarra mi ha incoraggiato a cercare una grande sala da concerto per mixare l’album. Il dipartimento musicale del Macalaster College mi ha gentilmente lasciato bivaccare nella sua sala da concerto per una serata. Ho installato due paia di microfoni: uno al centro della sala e una coppia sul retro. Ha funzionato bene per consentire all’ambiente di una stanza di adattarsi al pianoforte e alle percussioni. L’acustica naturale della sala ha aiutato la chitarra ad ambientarsi al piano”.
Ho fatto un ultimo sforzo di percezione e mi è sembrato di cogliere in tutto l’album un qualcosa di cupo, un po’ di oscurità, una certa zona crepuscolare. È la stessa serie di sensazioni che mi è capitato di vivere talvolta durante i miei viaggi in Asia e ho creduto che forse anche Tibbetts le avesse provate. Lungi dal pensare che questo potesse essere almeno parte dell’esotismo, il fascino dell’Unheimlich per uno straniero, credo che alla fine, non solo in Asia ma anche in molte altre parti del mondo, il tessuto della realtà non sia così solido come abitualmente pensiamo. È come se esistessero delle zone permeabili e lo strumento per andare dall’altra parte, la chiave per accedere a una dimensione diversa, stia nella vibrazione musicale o nell’arte visiva. In quei luoghi ci si mette all’ascolto e talvolta c’è una sorta di collasso della dualità, io e la musica, io e l’altro: la mia mente si fonde, semplicemente, con l’armonia musicale. Gloria!