Cari lettori vi avevo avvisati – più o meno esplicitamente – parlando della colonna sonora di The Mandalorian e del compositore svedese Ludwig Göransson che l’aveva composta (1): il livello medio della qualità musicale per musiche da film sta scendendo a picco e la generazione dei vari Morricone, Wiliams, Zimmer sta velocemente trapassando. I nuovi che si affacciano alla scena non hanno che una minima dose di originalità, per giunta diluita dietro gli effetti speciali e i suoni raffinatissimi. D’altronde, mi viene da dire, geni come Morricone ne nasce uno ogni secolo… ma non mi consola affatto. Poi è arrivata la mazzata dell’Eurofestival da cui mi sono salvato con un rapido zapping. Dirò più avanti cosa ne penso. A rafforzare questa mia impressione negativa sono arrivati due eventi, paralleli e in qualche caso sovrapponibili.
Il primo l’ho dedotto guardando in alternativa all’Eurofestival una simpatica serie su Netflix intitolata This is pop, piena di gradevoli sorprese (si fa per dire) laddove intendiamo la parola ‘pop’ nella sua accezione più moderna, che non è ‘popolare’, nel senso di originata dal popolo, come potrebbero essere le canzoni dette ‘folkloriche’, ma allude piuttosto a un concetto simile a ‘musica per le masse’. Questo è quello che passa il convento attualmente: in estrema sintesi si tratta di musica fatta di pochi ingredienti di base, che vengono continuamente rimescolati e combinati usando massicciamente la tecnologia. Il risultato è che le canzoni tendono ad assomigliarsi tutte. Anche perché le armonie e le scale sono di un numero estremamente limitato.
Un esempio paradossale ed estremo, che meriterebbe da solo un intero articolo, è il modo in cui viene utilizzato il famoso “canone di Pachelbel”. Faccio un inciso: Johannes Pachelbel (1653-1706) era un modesto compositore tedesco di musica per organo che ebbe come propria cifra distintiva un modo di comporre lucido, assolutamente non complicato, che enfatizzava piuttosto la melodia e la chiarezza armonica. La sua composizione più famosa è per l’appunto il Canone in Re, che dalla nascita della musica ‘pop’ è stato rimaneggiato almeno 150 volte dagli autori più disparati, scalando le vette delle classifiche innumerevoli volte. Cito alla rinfusa: A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum, Rain and Tears degli Aphrodite’s Child, Go West (originariamente dei Village People) dei Pet Shop Boys, Memories dei Maroon 5, Basket Case dei Green Day, Don’t Look Back in Anger degli Oasis, The Greatest Thing di Cher con Lady Gaga; non scappano nemmeno In my Life dei Beatles, Changes di David Bowie, Cant’ Stop Loving You di Phil Collins, Every Time di Britney Spears… Ogni tanto ne salta fuori un’altra. Basta armarsi di pazienza e ascoltare attentamente giro armonico e progressioni del ‘nuovo’ brano che vi viene proposto.
Detto questo, e assodato che alla sua base tutto il ‘pop’ è un tipo di musica assolutamente asfittica, priva di inventiva reale in termini di contenuti musicali e solo geniale nella ricombinazione di un pacchetto di informazioni limitate, non si può non rimanere a bocca aperta apprendendo che il centro forse più importante della sua produzione è la Svezia. Il documentario di Netflix lo spiega molto bene. C’è un elenco incredibilmente lungo di successi pop che sono usciti dalla Svezia: stiamo parlando di It’s Gonna Be Me di NSYNC, …Baby One More Time di Britney Spears, So What di Pink, E.T. di Katy Perry con Kanye West, My Life Would Suck Without You di Kelly Clarkson, I Want It That Way dei Backstreet Boys, Shake It Off di Taylor Swift e innumerevoli altri. Lo si scopre solo che si abbia la voglia di andare a leggere (in caratteri ovviamente microscopici) i vari crediti di produzione.
Ora: vendere musica pop agli Stati Uniti è realmente come tentare di vendere frigoriferi agli eschimesi. Ma stavolta funziona: c’è una vera e propria scuola, anche se non ufficiale, che fa capo a una coppia di fondatori come Denniz PoP e Max Martin e i loro oramai leggendari Cheiron Studios. Collateralmente c’è Benny Andersson, il cui ruolo cruciale in produzione e arrangiamento emerge prepotentemente per la prima volta nel 1974, quando gli ABBA vincono l’Eurofestival con Waterloo e Benny diventa l’uomo del giorno in Svezia, in Europa e negli USA, dato che gli ABBA sfondano e dilagano in tutti questi mercati. Più di quarant’anni dopo il trend continua ancora e alla lista dei professionisti appena sopra citati si aggiungono Ulf Ekberg per gli Ace of Base e Brian Littrell per i The Backstreet Boys, oltre ovviamente al già citato Ludwig Göransson.
Visto che mi mantengo curioso e rilevare un fenomeno m’interessa fino a un certo punto, cerco di andare a capirne le cause. Evidentemente non posso parlare di fantascienza inventandomi, che ne so, qualcosa tipo una mutazione del DNA settoriale, che riguarda solo la popolazione svedese. Altrimenti, per logica, dovrei parlare di un’altra mutazione ancora più piccola che riguarda l’Islanda, dove il livello qualitativo dei compositori è invece altissimo anche in relazione al numero degli abitanti (si pensi solo a Björk e ai Sigur Ròs). Oppure dovrei incontrarmi in nozioni di pseudo-antropologia, così comuni in Italia, del tipo: “… hanno gli inverni lunghi e senza sole, così hanno tutto il tempo per studiare e riflettere” – scusatemi, ma se fosse vero, interi continenti che vivono costantemente sotto il sole come l’Africa non dovrebbero produrre neanche una nota di musica, visto che il sole li distrae a fare altre cose, no? Su un paio di forum che ho visitato, ho trovato una definizione del fenomeno svedese quantomeno macabra: Stockholm Syndrome (è la serie di comportamenti che mettono assieme carnefice e vittima) e un’opinione molto statunitense, piena di buona volontà e di politically correctness, completamente ignara della drammatica differenziazione di classe esistente negli USA e dello spirito di sopraffazione insito profondamente in qualunque ambito ove esista una competizione: “Gli svedesi rispettano le arti – chiaramente almeno la musica – e incoraggiano i loro cittadini a essere individui a tutto tondo che si sforzano semplicemente di fare ciò che amano e di farlo meglio che possono. E poi, lascia che il lavoro parli da solo: i risultati costruiscono reputazione e longevità… Questa è stata un’ottima occasione per far luce sulla premessa di base che la maggior parte dei governi ha completamente distrutto: non dobbiamo farci del male a vicenda per essere competitivi e di successo. Le arti sono vitali per la sopravvivenza umana come mezzo per esprimere i nostri sogni, la scienza, la creatività. Concentrati sull’essere una brava persona e fare del tuo meglio in ciò che ami. Dai a tutti un inizio davvero uguale e tutti potremmo trovare la nostra magia”. Amen.
Mi sembra molto più vicina alla realtà la constatazione che il sistema educativo svedese prevede una marea di ore di educazione musicale, almeno per gli studenti più giovani, che hanno diritto a 230 ore di base e possono indirizzarne altre centinaia in materie d’elezione complementare come lezioni specialistiche, studio di teoria musicale e musica d’insieme. Al liceo, gli studenti possono scegliere la musica come tendenza principale e avere molte classi diverse tra cui scegliere. Quasi un terzo dei bambini svedesi, nel frattempo, riceve un’istruzione musicale sovvenzionata pubblicamente dopo l’orario scolastico e le associazioni per l’educazione degli adulti offrono spazio, attrezzature e laboratori, afferma uno studio, mentre sono disponibili sovvenzioni per le band per coprire i costi delle prove e gli spazi dove praticare. La Svezia, infine, è un Paese in cui il musicista, in senso lato, è un lavoratore come tutti gli altri, e viene trattato con il medesimo rispetto.
Non meraviglia quindi che ci sia un segmento rilevante di popolazione che si può dedicare proficuamente alla composizione, arrangiamento e produzione ‘pop’. Anche se negli ultimi quarant’anni quella sorta di paradiso socialdemocratico che era la Svezia di Olaf Palme, degli ABBA e dell’IKEA è andato collassando e il Paese si è scoperto molto più razzista e isolazionista di quanto credesse, il sistema dell’educazione musicale diffusa permane. Compositori, arrangiatori e produttori continuano a scalare le classifiche USA e in tutti i generi musicali si incontrano degli esecutori di grandissimo livello. Ulf Ekberg, fondatore degli Ace of Base, ha affermato al quotidiano The National nel 2011: “Per la Svezia [la melodia è] al primo posto e lo è sempre stata… Mentre per gli americani prima vengono i testi, poi la produzione e infine la melodia. Non sto dicendo che i testi non siano importanti, ma per noi svedesi, che abbiamo l’inglese come seconda lingua, cerchiamo solo di farli capire a un pubblico mondiale. A causa di questa focalizzazione sui testi, alcune delle canzoni americane sono complicate e a volte possono non essere molto divertenti. Mentre noi cerchiamo sempre di raggiungere quante più persone possibile, quindi abbiamo melodie piacevoli e testi semplici in modo che tutti possano divertirsi” (2).
Fino a tutti gli anni ‘70 la Svezia era uno dei Paesi col maggior numero di consumatori di jazz al mondo e la ricettività a nuovi generi musicali e gruppi fece sì che persino le prime tournée internazionali dei Beatles partissero dalla Svezia, così come avvenne anni più tardi coi Sex Pistols. Nel suo libro del 1990, The Competitive Advantage of Nations, l’economista Michael Porter ha introdotto l’idea di cluster aziendale, cioè l’idea che se si verifica o meglio si programma sin dall’inizio una concentrazione geografica di aziende e fornitori, ciò aumenta la produttività, guida l’innovazione e stimola il nuovo business. All’inizio degli anni 2000, i geografi dell’Università svedese di Uppsala hanno applicato i concetti di Porter all’industria musicale nazionale e hanno identificato una rete simile di talenti (cantautori, produttori) e industrie di supporto (editori musicali, produttori di video, gruppi educativi), la maggior parte delle quali erano concentrate nella capitale Stoccolma. Una di queste istituzioni è Export Music Sweden, un’organizzazione no-profit che promuove e aiuta a finanziare artisti svedesi all’estero e la collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Arti. Sebbene la maggior parte delle etichette discografiche indipendenti abbia sede fuori Stoccolma, le sue major, responsabili dell’80% della musica pop nazionale, hanno quasi tutte sede nella capitale. Alcune di loro sono state persino fondate con l’intento di lanciare artisti svedesi all’estero, come ha fatto la Stockholm Records con The Cardigans, al successo internazionale a metà degli anni ‘90 con Lovefool.
Le politiche pubbliche svedesi aiutano a vestire le pop star della prossima generazione in tenera età. La Svezia, d’altra parte, ha una popolazione di neanche 10 milioni di persone, il che significa che gli artisti che cercano di perseguire la longevità nella propria carriera hanno un maggiore incentivo a corteggiare un pubblico internazionale. Questo modello di crescita, dal piccolo atto domestico all’operazione internazionale, è indicativo della più ampia economia svedese, che è stata storicamente dominata da grandi aziende, come Volvo, che sono passate da marchi nazionali a entità transnazionali dopo aver sfruttato il mercato locale. Questo spiegherebbe perché la Svezia, oltre alla musica ‘pop’, è anche un importante esportatore di death metal, un genere di nicchia che non può sostenersi solo sul pubblico svedese. Se applichiamo di nuovo il concetto di cluster aziendale in sede globale, d’altronde, ci troviamo di fronte realtà quantomeno sconcertanti come Spotify, con sede a Stoccolma, che acquisisce mediamente 24 milioni di utenti al mese, e come i miei lettori sanno ci si trova dentro di tutto, dalla classica al death metal.
Ma dietro c’è anche il fatto che in Svezia sin dagli anni ‘80 i programmi di educazione musicale nelle scuole – tutte – prevedono lo studio e la pratica di rock e pop, e dall’inizio degli anni ‘90 sono stati introdotti anche corsi più tecnici sull’arte del mixaggio e della registrazione. Una nazione storicamente puritana e conservatrice come era la Svezia dell’inizio degli anni ‘60, orientò i corsi musicali non per cercare e allevare ristretti gruppi di talenti, quanto piuttosto (secondo l’idea socialdemocratica) per elevare i gusti degli scolari e tenerli il più possibile al riparo dall’influenza della cultura di massa di stampo statunitense, ritenuta negativa. Ma, sempre per effetto del fenomeno del cluster, folle sempre più consistenti di giovanissimi, concentrate di numero e localizzate in aree relativamente piccole, continuarono a incontrarsi a ogni piè sospinto, scambiandosi esperienze e idee sino a formare una massa critica di persone altamente educate e informate sul piano musicale. Che alcune di esse mettessero a profitto il proprio talento in uno qualunque dei segmenti dell’industria musicale era solo questione di tempo.
Alla fine degli anni ‘50 un intraprendente giovanotto a nome Stieg Andersson fece affari d’oro raccogliendo successi internazionali da Radio Luxembourg, acquisendone i diritti, traducendo i testi e assegnando le canzoni a musicisti nazionali perché le incidessero per il mercato svedese. Nel 1972 Anderson creò gli ABBA, un fenomeno globale partito da una realtà locale, e così forte che, in termini di vendite assolute, l’anno passato ha superato con l’album Gold quelle di Sgt. Pepper in Gran Bretagna. A catena, una volta partita l’emulazione, gli ABBA crearono uno studio di registrazione d’avanguardia a Stoccolma, i Polar Studio, divenuto così famoso da ospitare persino i Led Zeppelin nel loro ultimo album in studio. Un rapporto del 1999 del Ministero delle finanze svedese ha rilevato che i pagamenti di royalty alla Svezia dai mercati esteri erano il doppio della cifra pro capite degli Stati Uniti. Oggi la Svezia è il terzo esportatore di musica al mondo dopo Stati Uniti e Regno Unito. Nel 2003, le esportazioni di musica svedese hanno iniziato a diminuire, ma dietro le quinte il talento pop del Paese è rimasto attivo: a maggio del 2012, metà delle prime 10 canzoni della Billboard Hot 100 sono state scritte o prodotte da svedesi. A riprova che il cluster aziendale funziona, eccome. E, con esso, l’orgoglio nazionale di essere piccoli ma assolutamente globali. E qui veniamo al lato oscuro della Forza come avrebbe detto George Lucas.
La seconda riflessione nasce da uno sforzo: ascoltare almeno una volta tutte le canzoni dell’Eurofestival. Qui le cose sono molto, molto peggiori. Sono andato con la memoria agli anni in cui, almeno episodicamente, guardavo a spizzichi e bocconi l’Eurofestival per poi andarmene via. Quando ero un adolescente, a inizio anni ‘70, questa era la manifestazione musicalmente più scadente che si potesse ascoltare. Il rock non era ancora arrivato in Tv – voglio dire, non era ancora stato sdoganato come musica accettabile in un programma per le masse, e questo valeva per tutti i Paesi europei. Sicché c’era da metterci la mano sul fuoco: avremmo ascoltato canzoncine modellate sul folklore più dozzinale di ogni Paese, con fulgidi esempi di blaserorchestra (orchestrine di ottoni) almeno per la Germania e la Svizzera, mentre i cantanti nostrani, forti di una solida base di opera classica e/o di operetta leggera, potevano farsi ammirare come mosche rare. Vivaddio la differenza saltava subito agli occhi, perché ogni cantante poteva usare solo la propria lingua madre e un proprio direttore d’orchestra. Oggi avremmo parlato di rispetto per la biodiversità, anche se il prezzo da pagare era una melassa musicale terrificante.
Ma immaginate di non avere MAI ascoltato le canzoni dell’Eurofestival: fatevi fare una compilation e ascoltate. Isolatevi dagli abbaglianti balletti, dai vistosi makeup, dai tatuaggi e dai vedo-non-vedo dei costumi. Ascoltate e basta. Viene fuori un mucchio di canzoni tutte rigorosamente in inglese e non saprete mai la nazionalità degli esecutori. Suoni perfetti e levigati senza differenze vistose tra l’uno e l’altro brano. Arrangiamenti anch’essi standardizzati e ‘corretti’. Con tutta la buona volontà, salvo rarissime eccezioni, dopo dieci minuti vi dimenticherete del singolo brano che vi ha attratto. Perché? Perchè vi siste isolati dal fattore visivo concentrandovi solo su quello uditivo. E qui non si scappa più.
Un Paese ricchissimo di vera musica del popolo come la Russia, nel 2016 ha vinto l’Eurofestival con un brano pop (You Are the Only One) scritto dal paroliere degli svedesi Ace of Base, cioè John Ballard, che nel 2013 aveva scritto anche Hold Me di Farid Mammatov assieme all’altro svedese Ralph Charlie, rendendo un altro Paese straordinariamante ricco di tradizioni popolari come l’Azerbajian null’altro che una piccola anonima provincia dell’impero del pop internazionale, cioè degli USA. Il paradosso è che gli stessi USA hanno dovuto aprire gli occhi di fronte al sorpasso di musica per le masse prodotta fuori dai loro confini (per non parlare della Gran Bretagna): è come se l’apprendista stregone non si fosse accorto che le scope e gli strofinacci della sua cucina lavorano oramai da soli. La conseguenza? La vittoria dilagante di un modello egemone, quello della pop song, oltre e molto oltre i confini nazionali. Con certe debite eccezioni: l’anno scorso i Måneskin hanno vinto con un brano decisamente rock, dunque atipico rispetto agli altri, anche se le influenza USA si sentono eccome (Red Hot Chilli Peppers in testa a tutti).
Per il resto dei brani: che gli esiti siano terrificanti in termini di qualità lo potete verificare da soli, una volta che vi capita di assistere a un karaoke dove le musiche sono esclusivamente locali, come è capitato a me a Chnag Mai in Thailandia: nulla al mondo è più zuccheroso del pop made in Thai, al limite dell’intossicazione acuta. Al tempo mi salvai il pancreas con una terapia chiodo scaccia chiodo, nel senso che andai difilato a trovare un’amica americana che gestiva un club di punkrock di quelli ancora con le creste, ma aggiornati da tattoo, borchie e volumi da sordità assicurata. L’alternativa era assicurata, ma l’originalità del prodotto no: una copia riveduta e corretta di ciò che era esistito trent’anni prima in UK. La salvezza è venuta anche in quel caso dalla biodiversità: due giorni dopo ero in Cambogia, nell’area dei templi di Angkor Vat, e ho trascorso ore di placida ricreazione facendomi massaggiare i timpani e i padiglioni auricolari dall’ascolto prolungato e ripetuto delle melopee più strettamente tradizionali di quel Paese, eseguite da una commovente orchestra di mutilati di guerra saltati per aria pestando una mina (probabilmente dell’italica fabbrica Valsella, in tema di globalizzazione).
Se dico anche in quel caso è perché sono convinto che la salvezza anche in campo musicale possa solo provenire da una barriera di musica nostrana, originale, non appiattita artificialmente e supinamente su modelli esteri. Ottenuta buttando via del tutto, e senza remore, ogni artificio visivo: balletti, sgargianti costumi, rutilanti make up, lancinanti laser. Musica come atto di resistenza culturale contro un’offensiva globalizzante, il cui ultimo atto è l’arruolamento sotto le bandiere del pop di tutti i Paesi dell’Est Europa e satelliti della Russia, con il prossimo clou che sarà l’Eurofestival a Mariupol. Cambiate canale, prima di tutto.
1) Cfr. Augusto Q. Bruni, Ludwig Göransson, The Mandalorian, Paginauno n. 71/2021