di Felice Accame |
Quando il mito della ‘terra perduta’ e di una umana ineluttabile colpa da pagare sostituisce qualsiasi analisi sul sistema sociale e sulle responsabilità del potere
Riferendosi alla tragedia greca e alle tecniche del suo svolgimento, l’Aristotele della Poetica parla dell’hybris. Chi ne tenta una traduzione, oggi, si trova di fronte a una gamma di soluzioni che vanno dall’‘offesa’ alla ‘sopraffazione’, dalla ‘tracotanza’ alla ‘superbia’ – secondo quanto ci si trova bell’e servito dai processi di metaforizzazione cui la parola è stata sottoposta. Inalienabile, però, sembrerebbe quel senso di peccato di ‘eccesso’ e di ‘orgoglio’, che, narrativamente, può esser posto nel passato e determinare negativamente il futuro. Una specie di peccato dei padri che ricade sui figli – categorizzato come tale, ovviamente, con il senno di poi, perché non sempre quando il peccato lo si commette fa così schifo come si vorrebbe dopo. Atto fin troppo – in eccesso, appunto – a seguir virtute e conoscenza, fin a farsi abbindolare dalle sirene di turno, Ulisse esercita esemplarmente l’hybris – come chi si ritrova all’improvviso fuori dal suo Paradiso per aver osato troppo, senza preoccuparsi un granché di quanto, poi, toccherà ai propri discendenti. Nel 1984, Gavino Ledda ha titolato Hybris un suo film e, ancora nel 1993, Franco Battiato, ha inciso una sua Atlantide, nella quale, tra l’altro, dice: “Per generazioni la legge dimorò / nei principi divini / i re mai ebbri delle immense ricchezze / e il carattere umano s’insinuò / non sopportarono la felicità / neppure la felicità / neppure la felicità”.
Perlopiù chi ha dedicato lunghi studi ad Atlantide e ai numerosi altri Paradisi perduti non si è accontentato di dirci com’era e come non era, dov’era e quand’era – luogo fisicamente meraviglioso, luogo mentalmente meraviglioso – dei due l’uno per qualcuno, per altri addirittura tutti e due – ma si è ingegnato a spiegarci il perché – a un punto più o meno certificato – non c’è più. Atlantide non ci sarebbe più a causa di una catastrofe naturale, ma questa catastrofe naturale se la sarebbe andata a cercare. La grande saggezza raggiunta dai suoi abitanti si sarebbe trasformata in superbia, in tali dosi di orgoglio e di tracotanza, da indurre il Dio del momento a comminar loro il meritato castigo. Insomma, sia che ci si dia da fare nel grande regno di Atlantide – quella che Platone immagina alle prese con una altrettanto mitologica Atene, l’Atene dei suoi sogni – sia che si ciondoli da perdigiorno, felici, nei giardini dell’Eden e ci si chiami Adamo e Eva, saremmo tutti, sempre e comunque destinati a sprofondare da qualche parte, perché ci sarebbe sempre e comunque una colpa capitalizzata da pagare. Tutti i mutui vengono al pettine.
Val già la pena di riflettere profondamente su questa idea dell’incapacità dei popoli di sopportare la prosperità raggiunta, se non fosse che, correlativamente, questa idea è spesso associata a un’altra – ugualmente pestifera, altrettanto meritevole di riflessione. Le varie Atlantidi, con le loro popolazioni perfette, con le loro società tutte ben ordinatine – sinarchiche e mai anarchiche –perfette e pur caduche – hanno alimentato ogni teoria razzista e tutti quegli orientamenti politici autoritari – nazionalsocialismo incluso – che, nella giustificazione di una superiorità, hanno pianificato più e meno scientificamente la soggezione e l’eliminazione fisica di chi, teoria alla mano, riuscivano a dichiarare come inferiori.
La storia di tutto ciò – con la pazienza di Giobbe, perché leggersi le teorie formulate in più di duemila anni dai migliori disturbati mentali di mezzo mondo non è una passeggiata – è molto ben raccontata da Davide Bigalli ne Il mito della terra perduta – Da Atlantide a Thule (Bevivino, Milano 2010). Con imperturbabile sagacia, sottile ironia e geometricità di argomentazioni, Bigalli svela molto di più di quanto siamo abituati a chiedere a una storia pencolante tra geografia e fantasia, perché, di quel che oggi come ieri tiene solidi e consolidi gli assetti di potere di questo mondo – siano essi espressi in termini di fede religiosa o di scienza più e meno cialtronesca – nulla si salva: sono narrazioni pelosamente interessate, palesemente modellanti, istruttive ed educanti, caposaldo della nostra cultura, non robetta, e pur tuttavia cucite e ricucite alla bell’e meglio per masse di bocca buona – o in attesa di schisciarsi sotto il tallone di ferro di turno o di ricevere la generosa dose di droga sufficiente per tirare avanti.
Non si tratta, allora, soltanto di mera letteratura consolatoria – di matrice, peraltro, rigorosamente maschile. La colpa ineluttabile da pagare prima o poi sostituisce qualsiasi analisi nonché qualsiasi assegnazione eventuale di responsabilità specifiche – non è il potere, non è l’asimmetria sociale, non è il sistema produttivo, non è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non è l’accumulazione del plusvalore capitalistico, ma è l’intrinseca incapacità degli esseri umani a impedire ogni amorevole e durevole convivenza.
L’idea di degenerazione implica un paradigma valorizzato – un’età dell’oro, per dirla in linguaggio appropriato all’occasione – e una sua ferita in costante progresso, una ferita sanabile soltanto dai pochi eletti consapevoli di quanto sta avvenendo e pronti anche al sacrificio di sé per riportare alla luce ciò che, invece, è andato languendo nel buio. Quando lo psichiatra francese Bénédict-Augustin Morel, nel 1857, pubblicò Traité de Dégénérescences physique, intellectuelles et morales de l’espèce humaine et des causes qui produisent ces variétées maladives non sapeva di dare il là a un movimento di idee che, dal suo ambito – all’interno del quale fu fatto proprio da Lombroso, per esempio – debordò piuttosto velocemente nell’estetico. Max Nordau (in Degenerazione, ristampato da Piano B, Prato 2009), infatti, ravvisa nell’evoluzione delle forme artistiche di fine Ottocento – nel simbolismo, per esempio – i sintomi della degenerazione e, praticamente, senza saperlo – per uno di quei paradossi della storia ancora da venire, era un sionista – prepara il modello ideologico della repressione nazista di anni dopo. Se Morel fa risalire la sua degenerazione in senso psichiatrico all’uso di narcotici, di oppio, di alcol, di bibite fermentate e di eccitanti vari, Nordau rinviene la causa fondamentale della sua degenerazione estetica nella “vita nelle grandi città” – come se, per l’appunto, al di là di un certo numero di abitanti, metaforicamente o meno, non ci potesse attendere che la catastrofe.
Non vorrei essere equivocato. Può esser utile – perché no – analizzare come vadano male gli esperimenti di società animale (la letteratura ce ne ha fornito esempi illuminanti – due titoli rilevanti in tal senso potrebbero essere Il signore delle mosche di William Golding e La torre di Babele di Antonia Susan Byatt) ma non per dire che non possono andar bene in linea di principio, non per invocare Autorità ancora più autoritarie – il che è mistificante ed evidentemente strumentale – quanto, piuttosto, per individuare gli errori commessi e correggerli.
Ne Il mito della terra perduta, Davide Bigalli cita, tra il tanto d’altro, un brano di Sant’Agostino tratto dal suo commento al Genesi, che, a mio avviso, rappresenta perfettamente il punto cruciale da cui prendere le mosse per liberarsi di tutta la zavorra ideologica costituita dal paradigma della colpa originaria e del suo effetto degenerativo vita natural durante.
Laddove sta parlando a proposito delle opinioni che circolano sul Paradiso e sul suo statuto ontologico, Agostino dice che le più comuni sono tre. La prima opinione è quella di coloro che vogliono intendere il Paradiso in senso letterale –dunque come luogo fisico, dico io – la seconda è quella di coloro che lo intendono in senso allegorico – dunque come una metafora e nulla più, dico io – e la terza è quella di coloro che lo intendono ora in un senso ora nell’altro. “Confesso”, conclude sciaguratamente Agostino, “che a me piace la terza opinione”.
Con il che – costituendo il nucleo di quel relativismo linguistico cui il cattolicesimo non potrà mai rinunciare – viene a sostenere che una parola può designare qualcosa di fisico o di mentale a seconda dell’umore di chi la usa. Può piacergli quanto gli pare, ma sappia – l’opportunista Agostino – che così dicendo giustifica il venir meno del rapporto semantico e degli impegni che tutti quanti prendiamo allorché impariamo e condividiamo una lingua. Non è al comodo di qualcuno che una parola possa mutare di significato. Il linguaggio ha un fondamento sociale ineludibile. Se non si fornisce un criterio alla suddivisione tra metaforico e letterale, se non si hanno strumenti per distinguere metafore innocue da metafore esiziali, va da sé che qualsiasi narrazione può andare bene e che il governo delle relazioni umane possa avvenire soltanto in termini di un potere che qualcuno ha e qualcun altro no.