Verrà un giorno, almeno oso sperarlo, in cui la Storia sarà scritta più dagli episodi dimenticati e di nicchia che dalle grandi battaglie. Trovo estremamente più interessanti le investigazioni di Garboli e Ginzburg sull’universo di un mugnaio eretico del Cinquecento (Il formaggio e i vermi) che i saggi di un qualunque storico di grido su una qualunque dinastia reale. È per lo stesso motivo che le opere discografiche pop in senso lato mi interessano solo come fenomeno di costume, per tenermi aggiornato sui movimenti-macro che riflettono la massificazione di certi modi di pensare e di vivere. E guarda caso, a scavare con pazienza, le storie dimenticate e i personaggi scomparsi dalla Storia hanno più sale e sugo di quelli che ci vengono proposti dalle Major.
I poveri, per esempio – in particolare i poveri di religione cattolica romana – pare ci provino gusto a rimanere poveri e a farsi massacrare, torturare, bistrattare. Paradossalmente, sono anche in grado di produrre opere di sublime bellezza. Prendi per esempio gli irlandesi. Lasciamo perdere i celti che gli stanno dietro – del resto Patrizio era un druido rinnegato, passato dalla parte dei vincitori cristiani che stavano ricacciando elfi, fate, lepricani e banshee nelle foreste più remote o chissà dove altro. Non è da ieri che si fanno massacrare e violentare anche in nome dell’obbedienza a Roma. Quando uscì Magdalene, un coraggioso film di Peter Mullan sulle violenze subite da giovani orfane in conventi-lavanderie (vedi anche il mirabile The Magdalene Laundries di Joni Mitchell), nessuno in Europa protestò col Vaticano, men che mai gli irlandesi. Adesso, con la storia della pedofilia, pare che anche loro timidamente comincino a muoversi, salvo reclamare scuse anziché – come sarebbe più logico – le dimissioni dei loro cardinali e del papa.
Ai tempi delle due grandi carestie delle patate (1740-41 e 1845-49) vi fu un flusso enorme di emigrazione prima verso l’Inghilterra poi verso gli Stati Uniti. In nessuno dei due casi trovarono braccia aperte. Bollati in Inghilterra come sudici papisti, ubriaconi che si riproducevano indecentemente come conigli, quelli che riuscirono a entrare nell’esercito vennero trattati da cani, durante e dopo l’avventura coloniale britannica nel Nuovo Mondo: per una mancanza grave, a un soldato inglese al massimo toccavano delle scudisciate, a un irlandese il plotone d’esecuzione.
Nel frattempo il Messico aveva abolito e sanzionato severamente la schiavitù, mentre essa permaneva bellamente sul suolo degli Stati del Sud. Non ci vuole molto a capire che, quando gli irlandesi emigrati nel Nord America cominciarono ad arruolarsi nel neonato esercito degli States, molti provenivano come volontari proprio dall’esercito britannico e di fatto disertavano, in cerca di un futuro. Altri, arrivati con le pezze al sedere sull’onda della carestia, entrarono per la stessa ragione nell’esercito che prometteva buone paghe. Neanche a farlo apposta (ma si sa, chi pecora si fa il lupo se la mangia) trovarono a comandarli un buon numero di ufficiali ex britannici, ritirati dal servizio ed emigrati nelle ex colonie. La disciplina del nuovo esercito, sintomaticamente, ereditò quella degli eserciti continentali e con essa anche i pregiudizi razziali: lo stigma dell’indisciplina, dell’alcolismo a oltranza e dell’inferiorità continuò a bollare i poveri irlandesi anche nel nuovo lavoro.
E siamo al 1846: americani e messicani si contendono lo stato del Texas che, sebbene in modo controverso, dichiara la sua adesione alla confederazione americana. Il neo eletto presidente Polk crea un incidente diplomatico ad hoc per consentire alle proprie truppe di invadere il Messico attraversando il Rio Grande. Polk non fornì mai la localizzazione del luogo dove erano stati uccisi i soldati americani, ma fu sufficiente una martellante propaganda sul “sangue americano versato” per tacitare l’opposizione liberale (capeggiata da Lincoln) e far sollevare la popolazione americana a favore della guerra. Nel marasma generale, vuoi per istintiva simpatia verso altri poveri, sfruttati e oppressi dallo stesso governo, vuoi per la stessa fede cristiana romana, un intero battaglione di soldati irlandesi guidati dal capitano John Riley passò dalla parte dei messicani. Combatterono tenacemente e senza soste e si dice che avessero particolare bravura nel prendere a bersaglio i propri ex ufficiali.
Forse proprio per questo, quando alla fine molti vennero catturati, non fu loro applicata la legge marziale, sottoscritta da ambo le parti combattenti, che prevedeva la fucilazione per i disertori, indipendentemente dalle circostanze. I San Patricios, come vennero chiamati, furono tutti appesi per il collo, come ultimo sfregio, e gli americani fecero calare il sipario per decenni su tale storia. Ci volle la determinazione dei reduci e anche l’orgoglio dei messicani per far rivivere la storia, tanto che negli ultimi vent’anni irlandesi e messicani in costumi d’epoca sfilano a New York nel giorno della sfilata di San Patrizio (17 marzo) ed esistono scambi diplomatici e ufficiali tra società
storiche di entrambi i Paesi (1).
Detto questo, giù i cappelli e poi tirateli in aria per festeggiare l’ennesimo capolavoro a firma Ry Cooder e Chieftains (sì, proprio quelli di Barry Lyndon): in copertina, un’immagine rielaborata della popolare Vergine di Guadalupe che tiene in braccio un soldato anziché il Cristo morto.
Cooder, oltre a ricercare la storia, ha messo assieme i Beatles della tradizione irlandese, cioè i compassati Chieftains di Paddy Moloney, e cantanti meravigliose come la stella latina Lila Downs, Linda Ronstadt, Moya Brennan (dai Clannad, sorella di Enya) e infine la novantenne regina della canción ranchera Chavela Vargas, che con voce rugginosa e commossa, la dentiera in bilico tra le gengive, ci regala una struggente pagina di amore dimenticato in Luz de luna.
Il resto è una mezcla esplosiva ad alto tasso alcolico tra rye whisky e tequila, a cominciare dalla prima traccia La iguana, dove tutto miracolosamente si tiene: le piccole cornamuse irlandesi (uilleann pipes) , arpe, congas, guitarrones e flautini di metallo (tin whistles). Alla faccia del multietnico a tutti i costi, qui ci sono musicisti che si divertono e soprattutto si ascoltano. Come spiegare per esempio che ritmi europei importati nel Nuovo mondo, come polke, mazurke e valzer, si sposino alla perfezione in Canción mixteca, dei fenomenali Los Tigres del Norte, se non attraverso la voglia di far musica assieme? Se ci si ascolta, ci si capisce, questo i musicisti ci insegnano. In tibetano, ‘ti porto rispetto’ si dice, letteralmente: ‘ti ascolto attentamente’; sarà mica un caso?
In questo disco c’è veramente di che sbizzarrirsi e ogni brano è una perla,: dai reel irlandesi al fulmicotone come Sailing to Mexico (originale di Moloney) alla melodia della canción rebel Persecución de Villa, che assomiglia tanto a quella dell’irlandese Kevin Barry, forse solo perché la tristezza dell’esilio è un sentimento comune al di là delle lingue; c’è spazio addirittura per un brano a cappella dei giovani Los Cenzontles, latini della Bay Area di Frisco, con Ojitos negros, così come per il fragore di un’autentica fiesta con ottoni e fuochi d’artificio dei Los Folkloristas . Il buon Cooder si ritaglia un duetto strumentale con Van Dyke Parks e una ballata di confine delle sue, The sands of Mexico, che sa tanto di polvere, tequila e sceneggiatura di un film di Tommy Lee Jones come Le tre sepolture di Melquiades Estrada… I brividi maggiori mi sono venuti con la voce sussurrata dell’attore Liam Neeson che recita March to battle (Across The Rio Grande), dove il sottofondo marziale dei Chieftains, con pifferi, cornamuse e percussioni, si fa via via marcia funebre, epopea celebrativa, infine leggenda: “… Siamo i San Patricios, coraggioso e gagliardo battaglione… non vedrai mai una bandiera bianca sventolare sopra di noi… siamo scomparsi dalla storia marciando oltre il Rio Grande…”.
Non è tanto per il sapore che sono rabbrividito, quanto per il fatto che su duecento uomini circa del battaglione San Patrizio, si conosce il luogo di nascita di centotré di essi, e solo quaranta erano irlandesi. Il resto erano nativi degli Stati Uniti o dell’Europa. Il che mi porta a dire che quella non fu in realtà una diserzione ‘etnica’ quanto una fuga da una guerra ingiusta, da ufficiali canaglie e da presidenti guerrafondai: fa bene dunque Ry Cooder, instancabile e attento giramondo, a far dire all’eroe protagonista della sua ballata The sands of Mexico: “… La storia mi assolverà, qui sulle sabbie del Messico”. A me l’amara constatazione che il buon vecchio Marx aveva ragione quando diceva che la Storia non si ripete, se non in forma di farsa (Messico 1864 – Iraq 2003): a quando una nuova diserzione di truppe a stelle e strisce?
Caldamente raccomandato.
Per informazioni:
• The Roque’s March: John Riley and the San Patricios, Peter Stevens, http://www.dayproductions.com/documentaries.html
• The San Patricios, film diretto da Mark R. Day, 1996
The Chieftains featuring Ry Cooder, San Patricio, Decca, 2010