Nel corso di innumerevoli secoli, molti più di quanti se ne possano immaginare, la promiscuità abitativa è stata una tratto comune alla stragrande maggioranza degli esseri umani su tutta la faccia della terra. Ancora oggi, presso le tribù che hanno in larga parte preservato le usanze di parecchi millenni addietro, individuare uno spazio in cui un individuo possa – se vuole – stare completamente da solo, è cosa rara. Più che rara, strana: nelle tribù la condivisione dello spazio è una regola e non un’eccezione.
Sicché l’isolamento viene – altrettanto di regola – individuato in alcune necessità del tutto specifiche: talvolta ci si isola per dare alla luce il proprio figlio; altre volte, semplicemente, per morire, così come si narra facciano gli elefanti al termine della propria vita; altre volte per compiere un rito magico fuori dagli occhi dei profani.
Nel mondo feudale occidentale la condizione di completa solitudine apparteneva di regola solo a due categorie sociali: il monaco eremita (il greco monos si applica proprio a un individuo isolato) oppure il signore di un feudo, che si trovava nella situazione privilegiata di poter disporre di molto spazio sia per sé che per la propria famiglia. La disgregazione del mondo feudale e l’emersione della borghesia commerciale porta, a quanto pare, con sé anche l’appropriazione di questo privilegio feudale. Le conseguenze sono straordinariamente importanti.
Da un lato, sul piano architettonico, come scrive Lewis Mumford, “il primo mutamento radicale […] destinato a infrangere la forma della casa di abitazione medievale fu lo sviluppo del senso di intimità. Questo, infatti, significava la possibilità di appartarsi a volontà dalla vita e dalle occupazioni in comune coi propri associati. Intimità durante il sonno; intimità durante i pasti; intimità nel rituale religioso e sociale; finalmente intimità nel pensiero; […] ciò segna la fine delle reciproche relazioni sociali fra i ranghi superiori e quelli inferiori del regime feudale: relazioni che avevano mitigato la sua oppressione. Il desiderio di intimità segnò l’inizio di quel nuovo schieramento di classi che era destinato a finire nella lotta di classe senza quartiere e nelle rivendicazioni individualistiche di un periodo posteriore” (1).
Tutto questo ovviamente non significa che tutti coloro diversi dal signore feudale si siano conquistati il diritto a uno spazio abitativo anche individuale: la descrizione delle tipiche case operaie a schiera prossime alla fabbrica, fatta da Engels nel celeberrimo La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845) parla ancora esplicitamente di estrema promiscuità delle famiglie operaie, di regola ammassate in una o due stanze al massimo. E la situazione non è cambiata eccessivamente nei centocinquant’anni successivi a quella pubblicazione, dato che ancora oggi la presenza nella stessa casa di più camere in cui più individui possano stare da soli è cosa per nulla frequente. Insomma, l’acquisizione di spazi individuali di autonomia è ancora oggi appannaggio dei più abbienti.
Dall’altro lato, come ha invece fatto notare Stefano Rodotà (2), emerge prepotentemente almeno il primo nucleo del concetto moderno di privacy (privatezza), un bisogno tipico della nuova classe borghese emergente, bisogno che si contestualizza principalmente nelle trasformazioni socio-economiche legate alla rivoluzione industriale. Rodotà individua proprio nella disgregazione della società feudale il trigger point per l’affermazione, alcuni secoli dopo, del diritto alla privacy come esigenza bisognosa di autonoma tutela giuridica: se volete, si tratta di sancire dentro il diritto della borghesia una situazione già conquistata nei fatti dalla borghesia stessa rispetto alla nobiltà feudale.
Che cos’è dunque questo “diritto a essere lasciati soli” come viene comunemente definito dell’esperienza giuridica anglosassone? La privacy, nell’Europa illuminista e pre-rivoluzionaria, nasce innanzitutto dalla capacità personale che un individuo ha nell’opporsi alla forza della Corona. In questo senso, l’aspetto diametralmente opposto connesso alla definizione di privacy è la determinazione di precisi limiti all’azione dello Stato e della sfera pubblica nei confronti dell’individuo. Come si vede, questo diritto fotografa i rapporti di forza tra l’individuo e il potere statale. Più ancora fotografa la nascita del diritto individuale di proprietà ottocentesco con tutte le sue connessioni. Ma quando si tratta di definire in modo autonomo questo nuovo diritto si avverte la necessità di distaccarsi proprio dalla definizione civilistica di diritto di proprietà.
Alan Westin, professore di Diritto pubblico presso la Columbia University di New York, considerato oggi uno dei maggiori esperti di privacy negli Stati Uniti, sintetizza efficacemente il profilo di questo diritto dicendo che esso è anche potere, che scaturisce da un insindacabile atto di volontà. È una pretesa, legittima, che ogni individuo ha, di decidere in che misura e con che modalità, vuole condividere una parte di sé con gli altri. Una pretesa che è pieno diritto di ritirarsi o di partecipare. Ma, soprattutto, esiste il diritto dell’individuo di controllare la diffusione dell’informazione circa se stesso. Definendo la privacy come “relazione zero” tra due o più persone, Westin intende spiegare che tra queste non esiste nessun tipo di relazione, nessuno scambio di informazioni, a meno che esse stesse non decidano altrimenti (3).
Se ricordiamo che tipo di choc è stato per gli Usa scoprire che Nixon spiava i propri avversari politici nello scandalo Watergate di appena due anni dopo (1972), le definizioni di Westin appaiono sicuramente profetiche. Ma, ahimè, acquistano al giorno d’oggi la veste di vox clamans in deserto se si va a considerare cosa sia diventato oggi il “diritto a essere lasciati da soli” alla luce delle rivelazioni di Wikileaks sulla pervasività del controllo esercitato da Nsa e Fbi su qualunque tipo di comunicazione digitale dentro e fuori gli Usa: pura affermazione di principio. Il fatto è, per i meno avveduti, che in tempi brevissimi è avvenuto uno slittamento sostanziale delle condizioni soggettive che preesistevano alla nascita di questo diritto: all’individuo come persona fisica, dotata di una identità fatta di carne e ossa, si è sostituito un individuo la cui individualità risulta dalla sommatoria una serie di dati oggettivabili e, soprattutto, digitalizzabili. Dalle misure antropometriche (altezza, peso, colore occhi e capelli ecc.) alle abitudini quotidiane, dalle condizioni soggettive a quelle lavorative, ognuno di noi è diventato un pacchetto di informazioni che vengono scambiate tra banche di dati privati, da quelle dei servizi di prima necessità (gas, luce, acqua) ai social network come Facebook.
L’ultimo caso ad avermi indignato è quello di Jane Vertesi, professoressa associata di sociologia presso la prestigiosa università di Princeton. La Vertesi ha pubblicato i risultati di una propria ricerca in una conferenza pubblica del 25 aprile scorso visibile sul sito http://theorizingtheweb.tumblr.com/.
Si tratta di questo: il valore dei dati personali online di un uomo qualunque è in media di 10 cents, mentre quello dei dati di una donna incinta è 15 volte superiore, quindi 1 dollaro e 50. Banalmente, una donna in queste condizioni spende molto di più di una donna non incinta, non solo in termini di articoli sanitari di prima necessità, ma anche e soprattutto in termini di acquisti per il nascituro. È evidente che c’è un interesse enorme a invadere la sfera decisionale di una donna incinta: ma questo interesse non riguarda minimamente la condizione soggettivo/emotiva della donna, quanto piuttosto il suo essere un consumatore perfettamente conosciuto in quanto a bisogni di acquisto.
In buona sostanza, per evitare di essere invasa da tonnellate di pubblicità mirata a soddisfare i suoi supposti bisogni di acquisto, Jane ha deciso di tenere completamente segreta la notizia della propria gravidanza e quindi la presenza di un nascituro a qualunque ambito comunicativo gestito dai media. I parenti e gli amici più stretti sono stati avvisati a viva voce e sconsigliati caldamente dal commentare la notizia sui social network e per email usando nome e cognome della puerpera. “Sappiamo che alcuni, nelle relazioni da persona a persona, usano un certo galateo on-line”, ha spiegato Jane, “ma non sappiamo ancora di che cosa siamo ritenuti responsabili quando interagiamo con i server”. Il passo successivo è stato quello di non farsi invadere durante la preparazione alla nascita.
Significava per esempio non usare carte di credito (le sue informazioni sulla cronologia degli acquisti potevano essere rivendute dai titolari della carta stessa come Visa), e se voleva acquistare qualcosa online doveva usare solo carte regalo Amazon, ma acquistate con denaro contante. Jane è anche diventata creativa con il suo account Amazon: il collegamento era con una email su un server personale, e i pacchetti venivano consegnati in un armadietto personale Amazon, non a casa sua.
Il passo successivo è stato quello di scomparire apparentemente dal web attraverso l’uso creativo del browser Tor, in grado di proteggere a un livello sufficientemente alto l’identità dei navigatori web per esempio nascondendone l’indirizzo IP: il principale bersaglio degli acquisti fatti in anonimato è stato il sito BabyCenter.com. Ma immediatamente la creatività di Jane l’ha fatta contrassegnare come cliente sospetto, e non solo per il suo uso di Tor. Suo marito ha usato 500 dollari in contanti per comprare carte regalo Amazon per l’acquisto di un passeggino e un preavviso di cartello Rite Aid Placard ha detto loro che la farmacia “ha l’obbligo di segnalare le transazioni di eccessivo valore in cash alle autorità”. Jane Vertesi dice che l’utilizzo della tecnologia – carte di credito o Internet – per fare un grande acquisto è diventata la ‘norma morale’. Andare al di fuori della norma, come ha fatto per nove mesi, è stato etichettato come immorale sino addirittura ad apparire illegale.
Ci sono voluti tutti questi accorgimenti prima di tutto per preservare la propria condizione di gestante, e secondariamente per allontanare le imprese e gli inserzionisti che avrebbero memorizzato ogni sua azione e magari previsto le preferenze del suo bambino non ancora nato per invaderla con ogni mezzo. La sua gravidanza non è più un segreto a causa dell’articolo apparso su Mashable (http://mashable.com/2014/04/26/big-data-pregnancy/), maggiormente non si sente affatto sicura che la sua nuova condizione sia stata compresa dalle banche dati, nonostante la registrazione della nascita da parte dell’ospedale presso cui è avvenuta.
Tutto questo attiene a una sola realtà pervasiva, il moderno Panopticon benthamiano divenuto realtà: il controllo per il controllo, senza neppure l’enfasi della motivazione. Il risultato più immediato di questa costante raccolta ed elaborazione di dati, al fine apparente di individuare meglio il target a cui spedire le proprie proposte di acquisto (dunque una mera strategia commerciale), è in realtà quello di disegnare uno scenario sociale selettivo, in cui verranno predeterminati titolarità di diritti, accessi ai servizi, esclusioni e inclusioni sociali, veri e propri pass che incideranno sulle opportunità e gli stili di vita. Un destino sociale scritto nei database. Il Mondo nuovo di Huxley e il film Gattaca adombrano una società in cui è la predeterminazione a essere ‘naturale’ e ipotecano seriamente il nostro futuro. Il paradosso però è che non è più possibile parlare di una identità unitaria a proposito di un Mario Rossi o un Gino Bianchi qualunque. L’identità, come la conosciamo fino a oggi, viene infatti sostituita da un’immagine composita, costituita dai dati in possesso di enti e organizzazioni.
Il paradosso sta nel fatto che per un individuo di questo genere la violazione della privacy diviene un problema marginale: egli non è più infatti quello che era precedentemente. Le mie impronte digitali o la composizione unica della mia iride non sono dati materiali, ma algoritmi. Io esisto in quanto identità digitale dato che il mio essere è stato ridotto a sommatoria di dati misurabili. In più, la pervasività del controllo Panoptico attraverso le migliaia di telecamere sparse ovunque, raggiunge perfettamente il suo obiettivo: produrre conformismo. Di fatto sono già un Anonymous, e la mia unica forma di protezione, immagino, potrebbero essere il recupero della tecnologia postale (la vecchia buona lettera scritta a mano) come in quel capolavoro che è L’incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon, la mia cancellazione completa da qualunque social network (la vedo dura ma ci provo) e l’adozione quando vado in giro di una maschera a pelle in grado di nascondermi dalla individuazione delle telecamere (4) – cosa assai a rischio dato il reato di travisamento.
La mia ideale colonna sonora sarà costituita dall’impenetrabile ed enigmatico suono, fatto di frammenti schizzati, esplosi e riassemblati, di uno dei tanti capolavori dell’altrettanto enigmatico duo elettronico britannico Garry Cobain e Brian Dougans, meglio conosciuti come The Future Sound of London (FSOL) – nel caso specifico consiglio caldamente Lifeforms (remixes).
The future sound of London, Lifeforms (remixes), Astralwerks, 1994
1) Lewis Mumford, La Cultura delle Città, Edizioni di Comunità, 1954
2) Cfr. Stefano Rodotà, La privacy tra individuo e collettività, in Politica del diritto, Il Mulino, 1974
3) Alan Westin, Privacy and Freedom, Atheneum, 1970
4) Sulla maschera antisorveglianza vedi http://www.cnet.com/news/urmeanti- surveillance-ask-lets-you-pass-as-someone-else/? tm_content=bufferfe0b6&utm_medium=social&utm_source=facebook.com &utm_campaign=buffer