Crescita economica cercasi: il report di aprile del Fondo monetario internazionale lancia l’allarme: la Cina ci salverà?
Too slow for too long (1): il titolo dell’ultimo World Economic Outlook (WEO), un report pubblicato dal Fondo monetario internazionale due volte all’anno, in primavera e in autunno, e che contiene le analisi e le previsioni che costituiscono parte integrante delle politiche di sviluppo economico del Fondo sui mercati finanziari internazionali e nel sistema globale, non è foriero di buoni presagi. Secondo la relazione resa nota ad aprile, l’alta volatilità dei mercati azionari, il basso tasso di crescita delle economie avanzate e il protrarsi delle turbolenze nei Paesi emergenti e a basso reddito, oltre alle numerose crisi di origine non economica (disastri naturali, terrorismo ecc.), non solo riducono le stime di crescita economica per il 2016 e il 2017, ma suggeriscono che la probabilità di sviluppi inaspettati negativi è divenuta più elevata.
Nonostante in Cina nel corso del 2015 la crescita sia stata leggermente migliore delle aspettative, per effetto della resilienza della domanda interna, che ha compensato la contrazione del settore manifatturiero, nelle economie avanzate asiatiche a essa collegate – come Hong Kong e Taiwan – i risultati si sono bruscamente contratti per effetto del declino delle esportazioni. In America Latina, la regressione è stata peggiore delle aspettative in Brasile, mentre nel resto del continente il livello di attività è stato in linea con le previsioni.
Ampiamente scontata è stata anche la recessione in Russia, che tuttavia si è estesa alla maggior parte delle Repubbliche dell’ex Unione Sovietica, in parte come conseguenza della crisi russa e in parte per effetto del ribasso del prezzo del petrolio (molti di questi Paesi sono infatti esportatori di greggio e gas naturale). Gli indicatori macroeconomici suggeriscono che anche nei Paesi sub-sahariani e in Medio Oriente (dove non sono disponibili dati trimestrali), i risultati sono stati inferiori alle attese, sempre a causa del prezzo del petrolio, ma anche del declino delle quotazioni di altre materie prime e dei conflitti interni.
In generale, anche le tensioni geopolitiche hanno avuto il loro peso sulla contrazione della crescita globale (specialmente in Ucraina, Libia e Yemen), insieme al declino della produzione in dustriale causata dalla crisi degli investimenti, in particolare nel settore energetico e minerario, e dalla decelerazione delle attività manifatturiere cinesi.
Secondo gli analisti del Fondo monetario internazionale, la crescita globale prevista per il 2016 si attesterà su un modesto 3,2%, valore corretto al ribasso dello 0,2% rispetto ai dati di gennaio. Sebbene le previsioni indichino che la ripresa si rafforzerà nel corso del 2017 e degli anni successivi, bisogna prepararsi a fare i conti con l’incremento del grado di incertezza.
Dal momento che nei Paesi avanzati la crescita rimarrà contenuta, l’accelerazione attesa, dicono i ricercatori, dipenderà da un tasso di sviluppo robusto nei mercati emergenti, il cui effettivo realizzarsi si basa su alcuni fattori tutt’altro che scontati: la graduale normalizzazione delle condizioni nei sistemi attualmente sotto pressione; il riassetto positivo dell’economia cinese; l’aumento delle attività nei Paesi esportatori di materie prime; e infine una crescita senza scosse nelle rimanenti economie in via di sviluppo.
Ma il rischio può essere anche un altro: un persistente basso tasso di crescita è in grado di per sé di ridurre i risultati potenziali e, con essi, i consumi e gli investimenti; di conseguenza, continui downgrade delle previsioni di crescita potrebbero mettere in stallo l’economia mondiale, determinando una diffusa stagnazione secolare.
La sindrome cinese
La Cina sta attraversando una fase di transizione importantissima ma complessa verso una crescita più sostenibile basata su consumi e servizi, di cui alla fine, secondo il Fmi, beneficeranno tutti i Paesi dell’area, ma che nel frattempo può avere effetti avversi soprattutto sulle economie più deboli. Il rallentamento del tasso di sviluppo in Cina è dipeso soprattutto dall’andamento degli investimenti e delle esportazioni, che hanno invertito la tendenza dopo un lungo periodo di rapido crescita. Data la dimensione del mercato cinese, il suo livello di apertura, l’alto livello degli investimenti e dell’attività di import-export, il fenomeno si è ripercosso lungo i canali commerciali su tutte le economie mondiali, con effetti diretti (la riduzione della domanda dei prodotti dei Paesi partner) e indiretti (l’impatto sulle quotazioni di specifici beni importati dalla Cina, per esempio le materie prime), che hanno influenzato sia i tassi di cambio, sia i mercati azionari.
Dal momento che la Cina è uno dei primi dieci partner commerciali di più di cento Paesi, i quali nel loro complesso rappresentano circa l’80% del Pil mondiale, il suo ruolo nel processo di import-export regionale e globale (importazione di beni semilavorati e beni capitali ed esportazione di prodotti finiti) la rende un perfetto ‘conduttore’ di crisi che hanno la loro origine non solo all’interno, ma anche all’estero.
La situazione è resa ancora più critica dall’importanza che il Paese ha assunto negli ultimi dieci anni come consumatore finale dei beni prodotti in Europa e negli Stati Uniti: lo staff del Fmi calcola che la diminuzione di un punto percentuale della crescita cinese riduce la crescita dei Paesi del G20 (le prime venti economie mondiali) dello 0,25%, e per queste economie mature, le cui sorti gravitano intorno a un tasso di sviluppo minimo, un quarto di punto può fare la differenza. A questo si aggiunge che la Cina è il maggior importatore di un vasto numero di materie prime, soprattutto metalli (nel 2014 rappresentava il 40% della domanda globale), e che il rallentamento degli investimenti ha avuto un impatto significativo sulla richiesta e sulla quotazione di tali beni, il cui prezzo dal 2011 è sceso in media del 60%. Ciò ha generato un sostanziale eccesso di capacità produttiva nel settore minerario e ha forzato i Paesi esportatori ad adattare i propri sistemi economici ai ricavi più bassi.
Sembra dunque cruciale per il benessere mondiale che la Cina riorganizzi il proprio modello economico, facendo crescere il tenore di vita della famiglia media per orientare lo sviluppo verso i consumi e i servizi e realizzare quello che le autorità di Pechino chiamano “il sogno cinese”.
Martin Feldstein, professore di Economia all’Università di Harvard e presidente emerito del National Bureau of Economic Research, sostiene (2) che “una crescita più rapida della spesa per i consumi avrebbe l’effetto di invertire il recente rallentamento nella crescita del Pil, fornendo la domanda supplementare necessaria per creare posti di lavoro per quei milioni di cinesi che stanno abbandonando il settore agricolo e gli altri milioni che si stanno laureando in una delle università del Paese. In questo momento, in Cina, la spesa per i consumi rappresenta appena il 36% del Pil, circa la metà del livello degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale. Le ragioni di questa percentuale così bassa sono da ricercarsi nel peso limitato del reddito delle famiglie sul Pil complessivo e nell’elevato tasso di risparmio delle famiglie”.
I funzionari cinesi sperano che redditi più alti per le famiglie possano produrre un rafforzamento della spesa per i consumi, in una fase in cui il restringimento del mercato del lavoro sta causando un aumento dei salari e il processo di urbanizzazione sta spostando i lavoratori da impieghi agricoli a bassa produttività a impieghi meglio retribuiti nelle città.
Tuttavia, secondo Feldstein, ci sarebbe un’altra strada, più rapida e semplice, per far crescere la spesa per i consumi, e questa strada “consiste nel ridurre il tasso di risparmio delle famiglie, attestato su livelli elevati a causa di diversi fattori, fra cui il rischio di perdere il lavoro e l’assenza di un programma previdenziale pubblico affidabile”. Il problema, in particolare, sarebbe la mancanza di una protezione sanitaria: “La sanità pubblica è molto rudimentale e le assicurazioni sanitarie private sono accessibili a pochi, perciò le famiglie accumulano grandi quantità di denaro liquido per avere una riserva a cui attingere quando si presenta la necessità di pagare un ricovero ospedaliero”. Secondo il professore, ex consulente di Reagan, la via più sicura per risolvere il problema non sarebbe potenziare il sistema di welfare, ma incoraggiare i datori di lavoro ad acquistare assicurazioni sanitarie aziendali, escludendo i versamenti effettuati allo scopo dal reddito imponibile.
“Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna questa misura si è rivelata un incentivo molto efficace per l’acquisto di assicurazioni private. Gli stessi benefici fiscali potrebbero essere estesi anche all’acquisto di un’assicurazione sanitaria da parte dei singoli individui, consentendo loro di dedurre i premi versati dal proprio reddito imponibile”. In questo momento, in Cina, gli incentivi fiscali sono usati per incoraggiare i piani di risparmio previdenziale ma, sebbene necessario, questo “produce l’effetto indesiderabile di incrementare il risparmio delle famiglie, invece di far crescere la spesa per i consumi”.
Al contrario, la deducibilità per il datore di lavoro dei premi dell’assicurazione sanitaria ridurrebbe il tasso di risparmio nazionale, inducendo i dipendenti a sostituire i consistenti accantonamenti personali di liquidità con le polizze aziendali.
Un’analisi analoga del problema, ma con conclusioni diverse, è quella effettuata da Romano Prodi su Il Messaggero (3). Secondo Prodi, i consumi cinesi non riescono a crescere abbastanza velocemente per compensare gli effetti negativi della stagnazione delle esportazioni e degli investimenti non solo perché “molta parte dei cittadini impiega i maggiori guadagni non in consumi ma in risparmio, per fare fronte a un’insufficiente diffusione di un adeguato sistema sanitario e pensionistico”, ma anche a causa della grande lotta contro la corruzione che si sta mettendo in atto in Cina, “operazione assolutamente necessaria perché la corruzione si stava diffondendo in modo tale da mettere a rischio le radici stesse dello Stato”. Questa battaglia ha portato da un lato a un forte calo della domanda dei beni di lusso (alimentata dalle bustarelle), mettendo in difficoltà le aziende occidentali e molti produttori cinesi che erano vigorosamente entrati nel settore dei prodotti di consumo più costosi; e dall’altro ha rallentato il funzionamento del settore pubblico, rinviando di fatto molte delle necessarie decisioni economiche.
Per cercare di contenere il tasso di risparmio delle famiglie il governo cinese, riporta Prodi, ha iniziato la costruzione di migliaia di presidi sanitari distribuiti in tutto il Paese, ma piani di questo genere richiedono tempi molto lunghi, mentre l’emigrazione delle imprese a bassa tecnologia e ad alta intensità di mano d’opera procede alla velocità di un fulmine verso i Paesi a più basso costo del lavoro, come il Vietnam, il Bangladesh e il Myanmar. Il governo cinese ha pertanto iniziato “una politica espansiva del bilancio volta a contrastare gli elementi negativi che si sono prodotti negli ultimi mesi e ad accelerare le trasformazioni necessarie per fare fronte al rallentamento dell’economia”. Secondo Prodi il sistema nel lungo periodo possiede ancora grandi potenzialità di crescita, grazie a “l’urbanizzazione di altri 200 milioni di contadini, risorse umane sempre più specializzate, un rapidissimo sviluppo dei consumi di prodotti elettronici, massicci investimenti nel settore ecologico e sanitario e, soprattutto, un impressionante stimolo alla modernizzazione delle strutture produttive”.
Per facilitare questo processo, a settembre 2015 il Consiglio di Stato cinese ha messo in palio 60 miliardi di yuan (9,43 miliardi di dollari) per la creazione di un fondo nazionale a sostegno dello sviluppo delle piccole e medie imprese, quelle cioè che devono fare il “salto di qualità” (4). Il governo centrale contribuirà con 15 miliardi di yuan, mentre il resto degli investimenti verrà da imprese statali, enti locali, istituzioni finanziarie e società private. Tuttavia le misure non hanno ancora dato i risultati sperati: ad aprile 2016 in Cina il commercio ha segnato un +10,1%, inferiore alle attese degli analisti, mentre gli investimenti fissi lordi sono aumentati del 10,5% da gennaio, contro stime di un incremento dell’11% (5), e Yu Yongding, docente universitario nonché uno dei più prestigiosi ricercatori dell’Accademia cinese di scienze sociali, intervistato da Repubblica lo scorso aprile non addolcisce la pillola: “Non dovete stupirvi se la crescita cinese scenderà sotto il 6% nel 2016. Troppi sono gli elementi negativi ancora irrisolti, e praticamente tutti i fattori di valutazione, dall’efficienza di capitale alla produttività del lavoro, sono ancora in caduta” (6).
Un barile di guai
L’altra grande minaccia alla crescita globale è, secondo il Fmi, la drastica riduzione dei prezzi delle materie prime. Nei Paesi esportatori le ragioni di scambio sono crollate, con la conseguenza che tali Paesi (spesso caratterizzati da basso reddito) faticheranno a riportare il loro tasso di crescita ai livelli di un tempo, a meno che non differenzino le basi delle loro esportazioni (un processo che richiede tempo). Sebbene in linea di principio il fenomeno dovrebbe tradursi in vantaggi simmetrici per i Paesi importatori, in pratica gli effetti negativi sui produttori hanno finora dominato la scena economica, con dinamiche simili a quelle del decennio 1929-1939. È stato soprattutto a causa del crollo dei prezzi delle materie prime che nel 2015 l’inflazione nelle economie avanzate è stata pari in media allo 0,3%, il livello più basso dallo scoppio della crisi finanziaria, mentre il tasso globale di inflazione è rimasto stabile all’1,6-1,7%, un valore molto più basso di quello desiderato dalle banche centrali.
In molti mercati emergenti, il crollo del prezzo del petrolio e di altri beni (incluso quello del cibo, che ha un alto impatto sull’indice dei prezzi dei Paesi in via di sviluppo) ha sì ridotto l’inflazione, ma in alcune nazioni come il Brasile, la Colombia e la Russia una massiccia svalutazione delle monete nazionali ha eroso in larga parte questo effetto positivo, e l’inflazione è addirittura risalita. Il prezzo del greggio è sceso più del 32% fra agosto 2015 e febbraio 2016, per effetto dell’aumento della produzione nei Paesi membri dell’Opec e in Russia, delle attese di un comportamento analogo dell’Iran, e per le preoccupazioni da una parte circa la forza della domanda globale e le previsioni di crescita a medio termine, dall’altra per il comportamento dei mercati finanziari sempre più avversi al rischio, e che perciò potrebbero decidere di abbandonare gli investimenti in materie prime e azioni.
Insieme a quelle del petrolio sono scese non solo le quotazioni di carbone e gas naturale, ma anche di merci diverse dal carburante, come i metalli (-9%) e i prodotti agricoli (-4%). Il protrarsi nel tempo delle quotazioni attuali del greggio, secondo il Fmi, potrebbe ulteriormente destabilizzare le prospettive di crescita dei Paesi esportatori, e sebbene alcuni di questi dispongano di considerevoli riserve finanziarie, tali risorse si stanno consumando, mentre altri Paesi produttori si devono confrontare già da oggi con la necessità di tagli alla spesa.
Molto interessante a questo proposito è un editoriale del Guardian del gennaio scorso dal titolo The Guardian view on the geopolitics of falling oil prices (7), in cui si analizzano le conseguenze del crollo dei prezzi del greggio. Secondo il quotidiano britannico, sebbene nella geopolitica della
produzione petrolifera le previsioni siano sempre un rischio, si può comunque presumere che “se il prezzo del barile continuerà a precipitare le ripercussioni saranno enormi a livello globale. Basti pensare a come i massimi e i minimi delle quotazioni hanno influito sulle relazioni internazionali e gli sviluppi politici degli ultimi quarant’anni. La crisi petrolifera degli anni Settanta ha rimodellato il panorama mondiale e ha dato una nuova rilevanza al Medio Oriente. Quando i prezzi sono crollati alla metà degli anni Ottanta, la fine dell’Unione Sovietica è stata accelerata dal collasso delle sue esportazioni. L’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990 nasceva in parte dalla volontà di conquistare nuovi territori in un momento di ristrettezze finanziarie. In Algeria, altro Paese profondamente dipendente dagli introiti del petrolio, lo stesso calo del prezzo (fino a meno di dieci dollari al barile) ha innescato una vittoria elettorale degli islamisti, un colpo di Stato e poi la guerra civile”.
E anche se le democrazie liberali dell’Occidente hanno beneficiato del crollo del blocco sovietico, il calo dei prezzi non ha certo portato pace e stabilità nel mondo arabo e musulmano. “In generale possiamo dire che il crollo del prezzo del petrolio ha ridotto la speranza che le potenze emergenti possano continuare la loro crescita modernizzandosi e contribuendo a garantire la stabilità internazionale. Troppi governi, infatti, hanno basato le loro ambizioni sui prezzi alti di prodotti che oggi sono in caduta libera. […] Prendiamo l’esempio del Brasile. Un tempo descritto come il campione del sud del mondo, oggi barcolla perché l’economia è in crisi e la situazione è resa ancora più instabile dallo scandalo di corruzione che ha colpito il gigante petrolifero Petrobras. Il Brasile è una democrazia, dunque l’instabilità è una notizia sgradita. Il calo del prezzo del petrolio non aiuterà nemmeno il nuovo governo della Nigeria, primo produttore di petrolio in Africa, in un momento in cui le reti jihadiste si stanno diffondendo nella regione e oltre”.
Continua il Guardian: “La caduta del prezzo del petrolio non colpisce solo i Paesi amici dell’Occidente, ma anche le potenze che considera avversarie. In Russia, Vladimir Putin sembra determinato a restituire al suo Paese il ruolo di grande potenza ricorrendo all’avventurismo militare in Europa e in Medio Oriente, ma ora deve gestire una complicata equazione finanziaria. Il Cremlino ha appena annunciato un taglio del 10% della spesa pubblica, segno evidente che il Paese sta subendo le conseguenze delle sanzioni internazionali e del calo dei prezzi in un’economia che ha bisogno di un petrolio ad almeno cento dollari al barile.
“Altri regimi altrettanto colpiti dal calo del prezzo del greggio cercano di compensare con i fondi d’investimento statali, ma si tratta di interventi limitati. Il Venezuela è un altro esempio delle insidie di quella che è definita la maledizione delle risorse, ovvero l’eccessiva dipendenza dal petrolio a scapito della modernizzazione e della diversificazione dell’economia. La crisi del modello ‘bolivariano’ avrà conseguenze al livello regionale, a partire da Cuba, Paese a lungo sostenuto dai sussidi venezuelani e attualmente impegnato in una nuova fase dei suoi rapporti con gli Stati Uniti.
“L’area dove le conseguenze geopolitiche del calo del prezzo del petrolio sono più imprevedibili è naturalmente il Medio Oriente. L’Arabia Saudita ha orchestrato la riduzione del costo del barile nel tentativo di indebolire l’Iran, suo rivale regionale, nel momento in cui torna sul mercato delle esportazioni petrolifere. Tuttavia i prezzi bassi rappresentano anche un problema interno per le dinastie del Golfo. A lungo termine questo potrebbe ridurre la conflittualità della regione, ma a breve termine potrebbe essere un’ulteriore causa di tensioni per regimi traballanti, che vogliono
distogliere l’attenzione dai problemi interni. La Russia potrebbe fare la stessa scelta, mentre la reazione di Pechino è ugualmente imprevedibile.Quel che è certo è che entrate petrolifere troppo basse possono essere altrettanto dannose di entrate troppo alte”.
A mali estremi, estremi rimedi
È lo stesso Fmi ad avvertire che, attualmente, le probabilità che lo scenario ipotizzato dal WEO si realizzi appaiono più basse, e che di conseguenza il rischio di un indebolimento dell’economia mondiale è diventato più elevato. Il risultato di questa fragilità congiunturale è l’urgenza di misure di ampio respiro per gestire la maggiore vulnerabilità. Secondo gli economisti del Fmi, nei Paesi avanzati tali misure dovrebbero articolarsi su tre piani: riforme strutturali per potenziare gli investimenti e la produttività (ossia abbassamento dei salari e riduzione delle tutele del lavoro, da una parte, e dall’altra smantellamento del welfare per creare un nuovo mercato per il Capitale privato), politiche monetarie accomodanti per contrastare le pressioni deflazionistiche (il Quantitative easing messo in atto dalla Bce, con estremo ritardo rispetto alla Fed americana), e politiche fiscali growth-friendly per sostenere la domanda; mentre nei mercati emergenti le autorità dovrebbero concentrarsi sul contenimento dei problemi di origine macroeconomica e finanziaria.
Se tuttavia dovesse verificarsi una diminuzione significativa del tasso di crescita, per mettere al riparo l’economia globale da una nuova spirale recessiva sarebbe necessaria una “politica macroeconomica collettiva” che potenzi la rete di salvataggio e i poteri di controllo delle istituzioni finanziarie e isoli le ricadute degli shock di origine non economica. Secondo Maurice Obstfelt, economic counsellor del Fmi, “l’attuale peggioramento dell’outlook e le conseguenze negative a esso associate richiedono una risposta immediata”.
Se i responsabili politici delle nazioni sapranno riconoscere i rischi cui sono esposti tutti i Paesi e concerteranno i provvedimenti necessari per mettere al riparo l’economia, le ricadute positive sui livelli di fiducia globale saranno sostanziali, dice Obstfelt, “rafforzando la crescita e impedendo ulteriori ritardi della ripresa”. Diversamente, ci troveremo di nuovo davanti al baratro. Una prospettiva, dopo quasi dieci anni di crisi, che dovrebbe mettere in discussione l’ideologia neoliberista, anche in una delle sue istituzioni-tempio, il Fmi; eppure neanche la scalfisce.
1) Dove non diversamente indicato, i dati economici e i commenti contenuti nell’articolo sono tratti dal World Economic Outlook: Too Slow for Too Long, International Monetary Fund, Washington, aprile 2016
2) M. Feldstein, La via salutare alla crescita dei consumi in Cina, il Sole 24 Ore, 10 settembre 2015
3) Romano Prodi, La Cina e i consumi: Le due ragioni che frenano la crescita di Pechino, Il Messaggero, 17 ottobre 2015
4) Cfr. R. Fatiguso, Il decollo mancato dei consumi interni, Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2015
5) Cfr. Ansa, Cina: frenano consumi e investimenti, 14 maggio 2016
6) E. Occorsio, Allarme di Pechino: “La crescita cinese scenderà sotto il 6%”, La Repubblica, 12 aprile 2016
7) The Guardian view on the geopolitics of falling oil prices, The Guardian, 13 gennaio 2016