41bis e diritto penale del nemico. Dai prigionieri politici, ai mafiosi, a Cospito, dalla teoria di Jakobs alla legge attraverso gli anni ‘70 e ‘90 per arrivare all’oggi: inchiesta dentro il 41bis
“Se le scimmie ci hanno insegnato qualcosa, è che devi imparare ad amare prima di imparare a vivere”. Sono parole di Harry F. Harlow, lo psicologo statunitense, noto per i suoi esperimenti condotti sulle scimmie, che alla fine degli anni Sessanta rinchiuse dei macachi in gabbia per studiare gli effetti negativi prodotti dall’isolamento prolungato. Per le piccole celle a forma di piramide rovesciata, Harlow seleziona dei cuccioli che hanno già avuto dei rapporti sociali con altri animali della loro stessa specie, in modo che subiscano il passaggio alla totale segregazione: da una condizione relazionale, le scimmiette si trovano al buio, senza possibilità di guardare all’esterno e l’unico contatto con un essere vivente è rappresentato dalle mani della persona che quotidianamente si occupa di fornire acqua e cibo. Alcuni macachi vengono lasciati in questa condizione per trenta giorni, altri per sei mesi e altri ancora per un anno: se il primo gruppo esce con enormi disturbi comportamentali, il terzo non reagisce più agli stimoli esterni. Indicativo è il nome che lo stesso Harlow attribuisce alle gabbie dove gli animali vengono ridotti a nuda vita: la fossa della disperazione.
La cessazione delle relazioni e l’isolamento è anche quello che prevede il regime carcerario speciale dell’articolo 41bis, uno strumento legislativo che, come vedremo, per sua stessa natura ha l’obiettivo di ridurre i detenuti a una condizione di privazione. Ma prima di inoltrarci nei tecnicismi della legge, è utile menzionare la teoria del “diritto penale del nemico” di Günther Jakobs.
Il diritto penale del nemico
La categoria del “diritto penale del nemico” è stata concettualizzata dal giurista tedesco Jakobs nel 1985. Con questa definizione “si intende una dimensione del diritto volta a colpire e reprimere alcune precise categorie sociali, che assumono di per sé valenza deviante” (1). L’introduzione di un ‘altro’ diritto penale che corre lungo un binario parallelo e separato – quello del nemico, che si dispiega accanto a quello ordinario – consente a Jakobs di affermare che lo Stato di diritto non viene intaccato (2). Vengono infatti individuati due gruppi differenti di soggetti: il ‘cittadino’ e il ‘nemico della società’. In tal senso, scrive il giurista: “Chiunque sia in grado di promettere almeno in qualche misura fedeltà all’ordinamento [giuridico], è titolare di una legittima pretesa a essere trattato come persona di diritto. Chi non offre simile garanzia in modo credibile, tendenzialmente viene trattato da non cittadino”, cioè da “non-persona in diritto”. Jakobs afferma che la società contempla già, di fatto, un diritto penale del nemico, perché il principio secondo il quale un essere umano è titolare di diritti fondamentali e inalienabili in quanto essere umano, è vero solo sul piano teorico: nella realtà, sostiene il giurista tedesco, una persona è titolare di diritti solo se inserita in un contesto di reciprocità, ossia come membro di una comunità che, rispettando i diritti altrui, può pretendere vengano rispettati i propri; non facendolo, il soggetto diviene un nemico interno alla società e il rapporto con lui si configura come una “relazione non giuridica”.
Il concetto di ‘nemico’ risponde infatti alle regole della guerra e non a quelle del diritto. Per Jakobs il nemico non è in sé il ‘criminale’ che commette un reato ma “un individuo la cui stabilizzazione cognitiva rispetto alla norma non è più possibile, e contro il quale ci si può difendere solo tramite la neutralizzazione” (3): una finalità che, esplicitamente, legittima dispositivi persecutori e repressivi. Il diritto penale del nemico è dunque riservato a determinate figure considerate particolarmente pericolose e trasgressive non tanto di singoli articoli di legge, quanto per l’intero ordinamento giuridico-istituzionale: una distinzione che fa sì che a essere giudicato e punito non sia l’illecito, ma ciò che rappresenta colui che compie l’illecito – il nemico è tale non per gli atti compiuti, ma per la minaccia costante che incarna. E richiamandosi alla difesa della sicurezza collettiva, ridisegna la gerarchia dei diritti confermando il concetto di non-persona: il diritto alla sicurezza collettiva può così prevalere sui diritti umani dell’individuo.
Per come si configura, il regime speciale del 41bis può essere concettualmente inscritto nel diritto penale del nemico. A partire dalla stessa nozione di ‘nemico’ di Jakobs, colui da colpire è individuato non per ciò che ha fatto ma per ciò che è. Nemici possono allora essere considerati anche coloro che non sono ancora – e forse non saranno mai – riconosciuti colpevoli di un reato e coloro che hanno terminato di scontare la pena: a febbraio 2023, dei 740 detenuti sottoposti al 41bis, 127 sono in misura cautelare e 6 sono internati nelle “case di lavoro” (4), di fatto luoghi di duplicazione detentiva poiché vi si accede quando il giudice, ritenuta quella persona “socialmente pericolosa”, applica un’ulteriore misura di sicurezza all’ex detenuto che ha già interamente scontato la propria pena. Utilizzando questa chiave interpretativa e individuando i reati che prevedono il 41bis, è possibile riconoscere chi lo Stato considera a lui nemico.
41bis e prigionieri politici
Il 41bis può essere applicato a diverse fattispecie di reato (5). Eppure, a conferma di una visione che si rifà al diritto penale del nemico, sottoposte al regime speciale ci sono solo due categorie di persone: detenuti politici (“delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza”) e detenuti mafiosi (“associazione per delinquere di tipo mafioso”). A tale condizione di ‘oggettività’ di reato, per l’applicazione del 41bis si aggiunge la necessità della presenza di “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva” (6), requisito che, come vedremo affrontando i casi di alcuni brigatisti e di Alfredo Cospito, può essere usato in modo arbitrario.
Una prima versione del 41bis nasce con l’art. 90 della legge n. 354. Introdotto nel 1975 per “esigenze di sicurezza”, l’articolo in questione attribuiva al ministro della Giustizia la “facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”. La possibilità di tale sospensione si inseriva in un periodo storico caratterizzato da rivolte ed evasioni dalle carceri italiane. È della fine degli anni Settanta – nello specifico del maggio 1977 – il decreto interministeriale Per il coordinamento dei servizi di sicurezza esterna degli istituti penitenziari a firma di Bonifacio, Lattanzio e Cossiga (rispettivamente ministro della Giustizia, della Difesa e degli Interni), che attribuisce al generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa il potere di coordinamento per la sicurezza interna ed esterna delle carceri. Dalla Chiesa individua alcuni istituti più sicuri dove destinare i detenuti considerati più pericolosi, sancendo di fatto la creazione delle cosiddette ‘carceri speciali’. Una di queste era quella di massima sicurezza dell’Asinara, sezione carceraria costruita sull’omonima isola sarda dove, durante gli ‘anni di piombo’, vennero rinchiusi numerosi detenuti politici, molti dei quali appartenenti alle Brigate Rosse. È del 2 ottobre 1979 la rivolta dell’Asinara, scoppiata per protestare contro le condizioni di vita disumane e con l’obiettivo di rendere inagibile la struttura; dopo questo episodio le lotte all’interno dei penitenziari non si fermano ma riprendono con più forza, portando alla fuga di diversi prigionieri come accaduto a San Vittore (Milano) nell’ottobre del 1980, quando sedici persone riescono a scappare dal carcere.
A oggi dei quattro prigionieri politici al 41bis tre sono stati militanti delle Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente (BR-PCC): Nadia Lioce (ristretta all’Aquila), Roberto Morandi (ristretto a Spoleto) e Marco Mezzasalma (ristretto a Opera, Milano). Un passato al 41bis l’ha avuto anche la brigatista Diana Blefari Melazzi, morta suicida nel novembre del 2009 a Rebibbia (Roma). La sua condizione psicofisica l’aveva fatta declassare nel 2008 dal 41bis al reparto con le detenute comuni, ma l’esperienza del carcere duro – definizione che non deve far dimenticare che il carcere è duro in tutte le sue forme – e la condanna definitiva all’ergastolo, che l’avevano privata di una prospettiva di libertà, ebbero la meglio.
Legittimo è domandarsi come sia possibile che degli esponenti di un’organizzazione che non esiste più possano rimanere al 41bis giacché, è bene ricordarlo, la conditio sine qua non per entrare in questo regime è che “vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva” e che le restrizioni sono attuate per “impedire i collegamenti con [tale] associazione”. In questo caso l’applicazione dell’articolo sembra andare oltre la finalità della legge stessa, sebbene la norma contempli la propria auto-giustificazione: “La proroga [del 41bis] è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno […]. Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa”. A questa stregua, nulla può dimostrare che un’organizzazione si sia sciolta, nemmeno il passare degli anni o la mancanza di azioni rivendicate. Il nemico è nemico per sempre e una minaccia costante, si può affermare richiamando la visione di Jakobs, e infatti il 41bis è un regime dal quale, una volta entrati, è molto difficile uscire. Lo dicono gli stessi dati: nel periodo gennaio-ottobre 2022, 84 sono state le proroghe contro 5 mancati rinnovi, 2 detenuti sono stati declassati al regime carcerario ordinario per aver iniziato a collaborare con la giustizia – il nemico che riconosce l’ordine giuridico-istituzionale torna a essere ‘cittadino’ e riacquista diritti – e 4 per aver visto accolto il reclamo presentato al tribunale di sorveglianza, 26 sono stati scarcerati per fine pena e 5 sono morti (7). In quest’ottica sembrano dunque prendere corpo le parole di Giorgio Agamben che ne Lo stato di eccezione scrive: “Lo stato di eccezione si presenta come la forma legale di ciò che non può avere forma legale” (8).
41bis e mafia
Sconfitto l’antagonismo politico – nelle aule giudiziarie e con la repressione nelle piazze – il nemico dello Stato diventa la mafia e nel 1992 viene introdotto il comma 2 del 41bis – quello che oggi è semplicemente conosciuto come “41bis” – e la sua applicazione viene estesa agli indagati o condannati per associazione mafiosa. Il 1992 è l’anno delle stragi che hanno segnato un passaggio storico: il 23 maggio avviene quella di Capaci, dove perdono la vita il giudice Falcone, la moglie e tre agenti di scorta; il 19 luglio è la data dell’attentato di via d’Amelio in cui rimangono uccisi il giudice Borsellino e cinque agenti di scorta. Come risposta lo Stato decide di mostrare il suo volto più severo e il 41bis diventa lo strumento per eccellenza per la lotta contro la mafia, tanto che oggi, come si legge nella Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2022, la conta dei ristretti sottoposti al regime detentivo rileva 724 soggetti ritenuti affiliati a qualche organizzazione di criminalità organizzata (su 728 detenuti totali, conteggiati al 31 ottobre 2022, vedi Tabella pag. 33).
È qui che dalla gestione delle ‘carceri speciali’ di Dalla Chiesa il 41bis si trasforma, aggiungendo l’obiettivo di “ordine e sicurezza pubblica” e investendo della propria azione direttamente le singole persone, i soggetti detenuti. Uniti contro lo stesso nemico, diventa facile presentare il 41bis come la punizione ‘giusta’ per i boss che ‘sciolgono i bambini nell’acido’ o quelli che decidono sulla morte di due magistrati diventati subito eroi nazionali. Quest’apparente linearità presenta però rapidamente i suoi lati più subdoli: oltre al fatto che appare ingenuo pensare che gli attuali 724 detenuti al 41bis appartenenti a organizzazioni mafiose abbiano tutti ricoperto posizioni apicali in un clan – ricordiamo che lo scopo dichiarato dell’isolamento del 41bis è quello di rendere impossibile ogni comunicazione tra il detenuto e l’esterno, di modo che il capomafia non possa dare ordini, e così prevenire eventuali nuovi reati –, è fondamentale ricordare che, nello stato di eccezione, in virtù della teoria della necessità, è possibile sottrarre ogni singolo caso all’obbligo dell’applicazione letterale della legge (9).
41bis e Alfredo Cospito
Sempre propagandato come il mezzo per sconfiggere la mafia, nel 2022 il 41bis torna a essere utilizzato contro dei nemici politici dello Stato, nello specifico contro l’anarchico Alfredo Cospito. È il 4 maggio 2022 quando Cospito viene trasferito dal reparto di alta sicurezza in regime di 41bis per volere della precedente guardasigilli, Marta Cartabia, che lo dispone per quattro anni. Conviene a questo punto ricordare che dal 2009, il provvedimento ha “durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni”, significativo prolungamento rispetto al periodo temporale previsto in precedenza (dal 2002 al 2009) quando il 41bis aveva “durata non inferiore a un anno e non superiore a due” e la sue eventuali proroghe erano “pari a un anno”.
La decisione del ‘carcere duro’ è spiegata nel decreto emesso dall’allora ministro della Giustizia per cui il prigioniero anarchico sarebbe “in grado di mantenere contatti con esponenti liberi dell’organizzazione eversiva di appartenenza”. Fino alla primavera dello scorso anno, Cospito poteva, infatti, comunicare con l’esterno attraverso scritti e articoli, ma il suo contributo al dibattito di area, avvenuto sempre alla luce del sole, viene interpretato come un modo per dare ordini alla Federazione Anarchica Informale (FAI), di cui Cospito è considerato uno dei capi. A fronte di quest’accusa pare evidente il paradosso per cui una realtà anarchica viene considerata strutturata, quando per sua stessa natura non si sviluppa attraverso un’organizzazione. Questa vicenda giudiziaria mostra un campo di applicazione dell’adagio latino necessitas legem non habet, la necessità non ha legge. Agamben spiega che tale detto “viene inteso nei due sensi opposti: ‘la necessità non riconosce alcuna legge’ e ‘la necessità crea la propria legge’. In entrambi i casi, la teoria dello stato di eccezione si risolve integralmente in quella dello status necessitatis, in modo che il giudizio sulla sussistenza di questo esaurisca il problema della legittimità di quello” (10).
A proposito di legittimità e proporzionalità della pena, il caso di Cospito è esemplare a prescindere dall’applicazione del 41bis. Mentre già in carcere dove stava scontando una condanna di dieci anni per la gambizzazione avvenuta nel 2012 di Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare – azione di cui l’anarchico rivendica la paternità –, Cospito viene condannato a vent’anni di reclusione nell’ambito del processo Scripta Manent. Insieme ad Anna Beniamino, viene ritenuto colpevole di aver collocato nella notte tra il 2 e il 3 giugno 2006 due ordigni a bassa intensità davanti alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo), che non causarono né morti né feriti. Inizialmente condannato secondo l’art. 280 del codice penale, “attentato per finalità terroristiche o di eversione” (strage comune), nel luglio 2022 la Corte di Cassazione riqualifica il reato all’interno dell’art. 285 c.p., ovvero “devastazione, saccheggio e strage” (strage politica). Quest’ultimo articolo non fu applicato né per le stragi di Capaci e di via d’Amelio, né per l’attentato alla stazione di Bologna. Ricordiamo che quando venne ucciso Falcone a esplodere furono circa 500 chilogrammi di tritolo – nei bidoni dell’immondizia alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano, le due cariche erano di 500 grammi ciascuna di polvere pirica: una quantità che non riuscì a danneggiare nemmeno i cassonetti limitrofi – e che il 2 agosto 1980 a Bologna furono uccise 85 persone.
L’articolo 285 è un’eredità del Codice Rocco e, in origine, prevedeva la pena di morte, abolita e sostituita poi con l’ergastolo, anche ostativo (11). Il testo recita: “Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con [la morte]”. L’obiettivo di mettere in pericolo la sicurezza dello Stato fa sì che a essere punito non sia il reato di danno in sé, configuratosi con devastazione, saccheggio o strage, ma la minaccia allo Stato in quanto istituzione. Non importa che, di fatto, l’azione non abbia prodotto nemmeno un danno materiale – e nessun morto o ferito, lo ricordiamo –: Cospito è un ‘nemico’ dello Stato, e per lui si configura il diritto penale del nemico.
Cosa significa vivere al 41bis
Sebbene nel 1998 venga introdotto un significativo aggiornamento – viene normata la procedura dei reclami da poter presentare contro l’applicazione del provvedimento, e ciò significa che per sei anni, dal 1992 al 1998, un detenuto sottoposto al 41bis non poteva nemmeno fare ricorso al potere giudiziario per un trattamento carcerario imposto dal potere politico –, nel lasso di tempo che va dal 1992 al 2002 il regime del 41bis è un concetto astratto che deve ancora trovare attuazione, e dunque sottoposto all’interpretazione della dirigenza carceraria. Nel 2002 l’articolo perde anche il carattere emergenziale – che l’aveva visto oggetto di proroghe – per divenire norma stabile all’interno dell’ordinamento penitenziario – binario parallelo al diritto penale ordinario, per richiamare Jakobs –, e nasce il comma 2-quater, che tratteggia i dettagli del vivere al 41bis; tuttavia le disposizioni sono aleatorie (“La sospensione delle regole di trattamento può comportare” è scritto, aprendo a interpretazioni arbitrarie in capo ai direttori penitenziari e a diversità di trattamento tra carceri), e anche quando nel 2009 la frase viene cambiata (“La sospensione delle regole di trattamento prevede”) resta l’indeterminatezza di diversi aspetti. In una simile situazione sono le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) che stabiliscono le regole, fornendo, nel 2017, con la circolare n. 3676/6126 “contenente le disposizioni relative alla organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario”, le “precise linee guida per ottenere una regolamentazione omogenea dello svolgimento delle attività nelle sezioni detentive” (12).
Leggendola, è impossibile non notare come la vita quotidiana dei detenuti sia scandita da norme regolatrici estremamente dettagliate: non solo con l’art. 6 – Consegna e possesso in camera di oggetti e generi – viene indicato il diametro massimo di pentole (max 25 cm) e pentolini (max 22 cm), ma sono precisati anche il numero consentito di matite colorate (art. 11.5, dodici e solo per i detenuti ammessi alla sala pittura), le misure delle fotografie (art. 13, non superiore a 20×30 cm e non più di trenta) e la quantità di libri che si può tenere in cella (art. 11.6, non più di quattro volumi). È lecito chiedersi che senso abbiano queste restrizioni se l’obiettivo del 41bis è quello di impedire eventuali canali di comunicazione esterna con esponenti dell’associazione criminale, e una valida risposta ci viene data da Elton Kalica che ne La pena di morte viva afferma: “Ecco, queste restrizioni trovano spiegazione soltanto nella logica del ‘diritto penale del nemico’. Togliere la possibilità di preparare da solo un piatto caldo” (13) – o di possedere tredici matite e cinque libri – “significa criminalizzare comportamenti che non minacciano gli interessi giuridicamente tutelati. Una ‘punizione draconiana’ che chiaramente colpisce i soggetti per quello che sono e non per quello che fanno o potrebbero fare” (14).
Come abbiamo già osservato, il provvedimento ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. Tale modalità è valida dal 2009, anno che segna un generale inasprimento della legge, come si apprende dal comma 2-quater che vede limitare ulteriormente le possibilità di mantenere relazioni con i familiari e conviventi: i colloqui da un massimo di due al mese vengono ridotti a uno e sono obbligatoriamente (prima si trattava di una possibilità) sottoposti a controllo auditivo e a registrazione, e una telefonata mensile della durata massima di dieci minuti e registrata può essere ora autorizzata – a discrezione del direttore del carcere, o del magistrato per i detenuti in custodia cautelare fino al primo grado di giudizio, e solo dopo i primi sei mesi al 41bis – unicamente a coloro che non effettuano visite. Sebbene i colloqui, telefonici e in presenza, siano di estrema importanza per mantenere un minimo rapporto con i propri affetti, le esigenze organizzative da rispettare fanno sì che spesso i detenuti preferiscano rinunciarvi. Dalla circolare DAP n. 3676/6126 si apprende che “lo svolgimento dei colloqui visivi avviene presso locali all’uopo adibiti, muniti di vetro a tutta altezza, tale da non consentire il passaggio di oggetti di qualsiasi specie, tipo o dimensione”. La durata massima dell’incontro – che si svolge nel rispetto del calendario delle giornate prestabilite – è di un’ora, ma, come spiega Kalica (15), spesso il colloquio viene interrotto per qualche motivo di sicurezza. Con i bambini di età inferiore ai 12 anni (figli o nipoti in linea retta del detenuto) i colloqui avvengono senza vetro divisorio ma è vietato qualsiasi contatto (16). “Il predetto posizionamento e la successiva riconsegna del minore ai familiari, dovrà avvenire sotto stretto controllo da parte del personale di polizia addetto alla vigilanza, con le cautele e gli accorgimenti del caso, al fine di contemperare le esigenze di sicurezza con quelle del minore e lo stato di disagio in cui lo stesso può venirsi a trovare.” Ne La pena di morte viva si legge che questa pratica è un’esperienza traumatica per i bambini: “Infatti, basti pensare che in qualsiasi circostanza, se un bambino si vede portato via dalle braccia della propria madre da uno sconosciuto, anche se per poco tempo, è normale che si manifesti del nervosismo o addirittura della paura da parte del piccolo, che, come raccontano i detenuti, o piange o si ammutolisce” (17).
Quello dei colloqui telefonici è un altro aspetto che prevede un’organizzazione complessa, sia per il detenuto sia per i familiari. La chiamata è consentita laddove vengano forniti i dati e la residenza del familiare. Indicare dove abitano i propri cari è fondamentale poiché, come specificato nella circolare DAP, al momento prefissato il parente deve recarsi nel carcere più vicino alla propria residenza o domicilio dove riceverà la telefonata. Tale pratica è difficoltosa per chi vive in Italia – per accedere in un istituto detentivo “si procede al controllo delle persone mediante l’apparecchio rilevatore di oggetti metallici (metal detector) e all’ispezione di borse e contenitori di qualsiasi specie. Si ricorrerà, invece, alla perquisizione personale solo quando, qualunque sia l’esito del precedente controllo, si abbia il fondato motivo di ritenere che il visitatore porti con sé (anche involontariamente) oggetti o sostanze non ammesse” (18) – e impossibile per le famiglie che abitano all’estero.
La relazione tra detenuto e parenti è limitata anche attraverso il controllo, da parte dell’amministrazione penitenziaria, dei contenuti presenti nella corrispondenza epistolare, oltre la solita ispezione della busta. Secondo il comma 2-quater, lettera e, è prevista “la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia” (19). Non viene però specificato quali sono i criteri adottati per definire i contenuti censurabili, un’assenza che fa sì che siano i detenuti a doversi adattare osservando quale corrispondenza viene trattenuta. Come osserva Kalica, “con i suoi meccanismi [il 41bis] porta le persone ad allontanarsi per anni dal proprio caro, a lasciarlo solo. Questo annulla nel detenuto la capacità di relazionarsi, cancella l’abilità di provare emozioni” (20).
Nel 2009 vengono introdotte anche restrizioni relative alla limitazione della cosiddetta ‘ora d’aria’, che adesso deve svolgersi con gruppi di massimo quattro persone (prima il limite era di cinque) scelte dal direttore del penitenziario, per una durata non superiore a due ore al giorno (prima erano quattro). La permanenza fuori dalla cella comprende il passeggio e la socialità. Come denunciato dal Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale nella sua relazione 2016-2018, “le aree di passeggio per detenuti [sono] a volte ricavate in spazi talmente ridotti da non permettere di fatto alcuna vera attività fisica, spesso chiuse in alto da rete. Situazioni inadeguate, in particolare ancora di più nel contesto del regime speciale, in cui le persone trascorrono in ogni caso non più di 21 ore al giorno nella stanza di pernottamento” (21). Anche nell’ultimo rapporto sul regime speciale il Garante raccomanda “che siano ripensati e adeguati i cortili di passeggio” (22). Viene infatti specificato che queste aree sono spazi dove sostare o tutt’al più camminare. Sono definite “meri contenitori grigi, privi di ogni stimolazione visiva e avulsi da ogni elemento naturale”. Oltre a essere sprovviste di ogni attrezzatura e, ancor prima, delle dimensioni necessarie per praticare attività motoria, sono luoghi angusti che non permettono di rivolgere lo sguardo verso un qualsiasi elemento vitale se non il cielo, distante e osservabile attraverso una rete. È lo stesso Garante a ricordare che “la mancanza di una estensione dello sguardo, sempre limitato da mura o da reti, incide negativamente sulla capacità visiva delle persone e, molto probabilmente, sul loro complessivo equilibrio”. Il fatto che gli spazi esterni siano quasi identici a quelli interni, “induce a credere che il grigiore amorfo costituisca una scelta precisa”: la volontà di agire in termini menomanti nei confronti di chi è ristretto al 41bis.
Nello sforzo di immaginare la quotidianità al 41bis, è utile ricordare che anche i contenuti dei giornali sono materia di controllo, tanto che la loro lettura può diventare un’attività impossibile. Come riportato dalla circolare del DAP del 2017, “il detenuto/internato può acquistare o sottoscrivere abbonamenti ai quotidiani a più ampia diffusione nazionale per il tramite della Direzione”, mentre indica alle direzioni di “segnalare all’A.G. [Autorità Giudiziaria, n.d.a.] competente la eventuale situazione di pericolo connessa all’acquisto/ricezione di giornali a tiratura locale, chiedendo la limitazione all’acquisto/ricezione alla sola stampa di tiratura nazionale”. Qualora l’autorità giudiziaria decida di non limitare l’acquisto, “l’Ufficio Censura, prima di consegnare la stampa al detenuto/internato, procederà al relativo visto di controllo, trattenendo le pagine sospette e inoltrandole volta per volta all’A.G. per le determinazioni di competenza”. Negli ultimi mesi sulla stampa si è scritto come mai fino a ora del 41bis, e lo sciopero della fame di Alfredo Cospito ha occupato per diverse settimane pagine di giornali: verosimilmente Cospito e altri detenuti hanno potuto sfogliare solo ritagli di giornale.
41bis tra costituzionalità e disumanità
L’articolo 27 della Costituzione recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Parole che appaiono spogliate del loro stesso senso se si pensa che al regime speciale del 41bis i detenuti trascorrono più di venti ore al giorno, costantemente sorvegliati da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria (GOM), in una cella dotata solo di “letto, tavolo, armadio, sedia o sgabello, specchio in plexiglass e televisione agganciata a muro all’interno di apposita intelaiatura fissata con vetro infrangibile” (23), “munita di sistemi che ne inibiscono la funzionalità” con il telecomando “sigillato e piombato, al fine di evitarne la manomissione, e frequentemente controllato dal personale di polizia penitenziaria” (24). Dov’è la “rieducazione”? Ancor più viene da chiederlo se pensiamo al fatto, sopra analizzato, che il 41bis è un regime carcerario che il più delle volte viene prorogato per l’intera pena detentiva, e anche oltre per gli internati. Mentre in merito all’“umanità”, persino la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha condannato l’Italia nel 2018, per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo – “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o trattamento inumani o degradanti” – per aver confermato il regime speciale a un detenuto gravemente malato, poi deceduto in 41bis: era Bernardo Provenzano. Indubbiamente qualcuno che lo Stato riteneva ‘nemico’. Negli anni passati, l’articolo è stato messo in discussione anche dalla Corte Costituzionale italiana che, attraverso diverse sentenze, ha sancito l’illegittimità costituzionale di alcune parti (25), senza però mai pronunciarsi sulla legittimità del 41bis nella sua interezza.
In protesta a questo sistema, oltre che all’ergastolo ostativo, il 20 ottobre 2022 Alfredo Cospito ha iniziato uno sciopero della fame interrotto il 19 aprile 2023, quando si trovava oramai ricoverato nel reparto penitenziario dell’ospedale San Paolo di Milano. In una dichiarazione del marzo 2023, Cospito scrive: “Il 41bis è una metastasi che rischia e di fatto sta minando il vostro cosiddetto stato di diritto, un cancro che in una democrazia un tantino più totalitaria – e con il governo della Meloni ci siamo quasi – potrà essere usato per reprimere, zittire col terrore qualunque dissidenza politica, qualunque sorta di ipotetico estremismo. […] Si inizia sempre dagli zingari, dai comunisti, dagli antagonisti, teppisti, sovversivi e poi le sinistre più o meno rivoluzionarie”. In questa stessa dichiarazione, Cospito ricorda anche le parole che Carlo Nordio scrisse in un editoriale pubblicato su Il Messaggero nel 2019 (26). In riferimento alla castrazione chimica, Nordio dichiara: “In fondo il nostro ordinamento ha introdotto quella figura di isolamento mortuario che è il 41bis, e che per certi aspetti è più incivile anche di questa mutilazione farmacologica. Questo per dire che il nostro sistema non brilla di civiltà”. Dopo aver definito il 41bis ‘incivile’, lo stesso Nordio, nel frattempo diventato ministro della Giustizia, nel febbraio 2023 conferma il regime a Cospito condannandolo, usando le sue stesse parole, all’“isolamento mortuario”.
Come per le scimmiette di Harlow, anche per i detenuti al regime speciale la vita diventa una sopravvivenza privata di ogni cosa, nuda vita, diventa una quotidianità di sbarre e cemento che toglie allo sguardo la profondità tanto da danneggiare la vista. Davanti a un dispositivo che a norma di legge riduce l’esistere a un mero trascorrere del tempo scandito da regole e divieti che determinano anche il più piccolo aspetto della quotidianità, davanti a un diritto penale del nemico che afferma di non intaccare lo Stato di diritto, è bene ricordare la riflessione di Agamben (27) quando dice: “Lo stato di eccezione ha anzi raggiunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario. L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governativa che, ignorando, all’esterno, il diritto internazionale e producendo, all’interno, uno stato d’eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto”.
*Al momento in cui si scrive, Domenico Porcelli, detenuto dal 2018 in custodia cautelare al 41bis nel carcere sardo di Bancali, è in sciopero della fame dal 28 febbraio 2023, in protesta alla proroga del regime speciale disposta dal ministro Nordio e considerata priva di presupposti. Arrestato nel 2018, condannato in primo grado (26 anni e 6 mesi per associazione a delinquere di stampo mafioso), è ancora in attesa del giudizio di appello e della Cassazione
1) Prison Break Project, Costruire evasioni, Edizioni Bepress, 2017, p. 87
2) Cfr. http://www.adir.unifi.it/rivista/2011/fabini/cap2.htm, introduzione
3) Ivi, 1.3
5) L’art. 41bis, comma 2, della legge 354/75 indica l’art. 4bis della stessa legge come riferimento alle fattispecie di reato a cui può essere applicato. Sono i seguenti: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza; associazione per delinquere di tipo mafioso; riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù; prostituzione minorile; pornografia minorile; tratta di persone; acquisto e alienazione di schiavi; violenza sessuale di gruppo; sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione; associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri; associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope
6) Legge 354 del 26 luglio 1975, art. 41bis, comma 2
7) Cfr. Ministero della Giustizia, Relazione sulla amministrazione della Giustizia nell’anno 2022, https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_15_4.page
8) Giorgio Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, 2003, p. 10
9) Cfr. Agamben, op. cit., p. 35
10) Ivi, p. 34
11) Il D.Lgs. Luogotenenziale 10 agosto 1944, n. 224, ha disposto (con l’art. 1, commi 1 e 2) che “per i delitti preveduti nel Codice penale è soppressa la pena di morte. Quando nelle disposizioni del detto Codice è comminata la pena di morte, in luogo di questa si applica la pena dell’ergastolo”. In merito a Cospito, il 26 giugno 2023 la Corte d’appello di Torino ha ricalcolato la pena a 23 anni di carcere, considerando l’attenuante della “lieve entità”
12) Ministero della Giustizia, DAP, Circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017, scaricabile qui http://www.ristretti.it/commenti/2017/ottobre/pdf/circolare_41bis.pdf
13) Aspetto su cui è poi intervenuta la Corte Costituzionale nel 2018, abrogando il divieto, con la sentenza n. 186
14) Elton Kalica, La pena di morte viva, Meltemi, 2019
15) Ivi, p. 72
16) Con la sentenza n. 105 del 2023, la Corte Costituzionale ha attribuito alla magistratura di sorveglianza la discrezionalità di autorizzare i colloqui senza vetro divisorio per i minori fino ai 14 anni
17) Kalika, op. cit.
18) http://www.ristretti.it/commenti/2009/maggio/pdf3/perquisizioni_carcere.pdf
19) È esclusa da censura anche la corrispondenza intercorsa con i propri avvocati, ha stabilito la Corte Costituzionale con sentenza n. 4/2022
20) Kalica, op. cit., p. 73
23) Ministero della Giustizia, DAP, Circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017
24) Ibidem
25) Nel 2013, con la sentenza n. 143, è stato dichiarato che la lettera b del comma 2-quater recava una lesione al diritto di difesa ed è stato definito illegittimo porre un limite di durata e di frequenza dei colloqui visivi e telefonici con i difensori; nel 2018, con la sentenza n. 186, è stata dichiarata l’illegittimità della lettera f del comma 2-quater che poneva limiti sulla cottura dei cibi; nel 2020, con la sentenza n. 97, è ancora la lettera f del comma 2-quater a essere modificata e ora vieta lo scambio di oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità (prima il divieto era esteso a tutti i prigionieri); infine, nel 2022, la sentenza n. 4 ha dichiarato l’illegittimità della lettera e del comma 2-quater nella parte in cui anche la corrispondenza indirizzata ai difensori era sottoposta a visto censura
26) https://www.ilmessaggero.it/editoriali/carlo_nordio/editoriali_carlo_nordio-4390216.html
27) Agamben, op. cit., p. 111