L’autentica semplicità di Blick Bassy
La prima volta che ho ascoltato un brano di questo incredibile musicista non ho potuto fare a meno di andare con la memoria agli stati quasi estatici in cui mi lasciava, anni fa, l’ascolto della Penguin Cafe Orchestra. E, allora come oggi, mi sentivo libero: libero dalle etichette, libero dalle scatolette pseudo-concettuali in cui i critici tentano disperatamente di racchiudere ciò che non capiscono musicalmente, libero come un uccello che percorre una pianura sterminata e quasi si perde nel suo orizzonte, che si tratti del Delta del Mississipi o della rigogliosa costa atlantica del Camerun. Per cui i miei lettori sono avvisati: se andate in cerca di facili esotismi africani o di avventure musicali post coloniali, farete un clamoroso buco nell’acqua. Lasciatevi andare all’ascolto ripetuto e rilassato. Poi, semmai, andate in cerca di note biografiche.
Blick Bassy non si complica la vita. Quest’album è un capolavoro di geniale semplicità. Tanto più geniale quanto più autentica, nel senso che ci trovate veramente l’anima di un emigrante che attraverso il binocolo della distanza capisce finalmente chi è, dove sono le sue radici, qual è il suo proposito nella vita. Come strumenti bastano la chitarra di Blick, il violoncello e banjo di Clément Petit e il trombone di Fidel Fourneyron (bianchi e francesi), qualche eco. Ci sono dei rari inserti, tanto più meravigliosi quanto più rarefatti, di un’armonica a bocca (Olivier Ker Ourio), di un pizzico di tastiere elettroniche campionate, ma nulla di più. È la voce a farla da padrone, una voce stupenda che mi ricorda lontanamente quella del brasiliano Milton Nascimento: è quasi infantile e oserei dire timida, eppure racconta cose importanti senza un tono declamatorio o rivendicativo.
Scopro che Blick fa parte dell’etnia Bassa, che parla l’omonimo linguaggio, allocata sulla costa atlantica del Cameron…
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