Blonde di Andrew Dominik e la reificazione della bellezza
Dopo aver ricevuto una standing ovation di quattordici minuti a Cannes, il film di Andrew Dominik su Marilyn Monroe, basato sul romanzo di Joyce Carol Oates, è stato sommerso da un impressionante numero di critiche, provenienti perlopiù dal mondo liberal statunitense. Secondo il Los Angeles Times: “In Blonde il dolore non finisce mai. Gli insulti, gli abbandoni, le percosse, gli stupri, le dipendenze, le perdite di coscienza o di identità non sono solo colpi di scena o ostacoli crudeli; sono i principi organizzativi del film”. Gli fa eco il New York Times: “Considerati tutti i trattamenti indegni e gli orrori che Marilyn Monroe ha tollerato durante i suoi trentasei anni di vita, è un sollievo che non abbia dovuto sopportare le volgarità di Blonde, l’ultimo intrattenimento necrofilo per sfruttarla”. La modella e attrice Emily Ratajkovski insiste su Tik Tok: “Amiamo esaltare il dolore femminile. Guardate Amy Winehouse, guardate Britney Spears, guardate il modo in cui siamo ossessionati dalla morte di Diana, il modo in cui siamo ossessionati da ragazze uccise e serial killer. Guardate qualsiasi episodio di CSI, è incredibile questa folle esaltazione del dolore e della morte femminili” (1).
Da tale campagna di denigrazione non risulta immune nemmeno il trimestrale Jacobin Magazine, sulle cui pagine Eileen Jones giudica il film l’ennesimo svilimento di Marilyn Monroe: “È un’esperienza cupa e mortificante vedere Oates e Dominik umiliare ancora una volta Marilyn Monroe in Blonde. E i due lo fanno con un gusto così malato, che viene da farsi alcune domande su di loro” (2). Per quanto riguarda la critica nostrana, spicca tra le stroncature quella di Gloria Amicone su Tempi, secondo cui Blonde non sarebbe altro che una squallida e banale storia sessista (3).
Per farla breve, ciò che si rimprovera alla Oates e a Dominik è di aver offerto un ritratto solo parziale e morboso dell’attrice. Ma più che dirci qualcosa sul romanzo e la sua resa cinematografica – o persino su chi sia stata realmente Marilyn Monroe – tali critiche riflettono chiaramente l’abissale povertà di pensiero a cui si sono ridotti gli esponenti del mondo culturale contemporaneo, sussunti all’ideologia del politicamente corretto (4). Del resto, basterebbe leggere la nota introduttiva della Oates al suo libro per capire che “Blonde è una ‘vita’ radicalmente distillata in forma di romanzo e ricostruita con l’ausilio della sineddoche. In luogo delle numerose famiglie presso le quali Norma Jeane [vero nome di Marilyn Monroe, N.d.A.] venne data in affidamento da bambina, Blonde ne prende in considerazione soltanto una, frutto di fantasia; in luogo dei vari amanti, problemi di salute, aborti, tentativi di suicidio, ruoli cinematografici, Blonde ne prende in considerazione soltanto alcuni, simbolici”. Senonché proprio la dimensione del simbolico sembra sfuggire ormai a una critica per la quale il cinema e l’arte in generale dovrebbero ridursi a odiosi mezzi di propaganda, volti alla diffusione di messaggi paternalistici e consolatori, con l’effetto di provocare non più la sensibilizzazione del pubblico rispetto a certi argomenti, bensì la sua definitiva infantilizzazione. E risulta emblematica, a tal proposito, l’insistenza piagnucolante con cui si punta il dito contro il troppo dolore raccontato nel film, ulteriore conferma di come appunto il dolore e la morte costituiscano oggi i più grandi tabù in seno alla società dell’apparenza e della prestazione (5).
Mai una volta, nelle stroncature di Blonde, ci si interroga su quale sia il nucleo tematico dell’opera a cui la storia dichiaratamente romanzata di Marilyn Monroe fa da contrappunto – e perché sia stato scelto proprio il personaggio di Marilyn per esprimere tale nucleo tematico…
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