Blonde di Andrew Dominik e la reificazione della bellezza
Dopo aver ricevuto una standing ovation di quattordici minuti a Cannes, il film di Andrew Dominik su Marilyn Monroe (2022), basato sul romanzo di Joyce Carol Oates, è stato sommerso da un impressionante numero di critiche, provenienti perlopiù dal mondo liberal statunitense. Secondo il Los Angeles Times: “In Blonde il dolore non finisce mai. Gli insulti, gli abbandoni, le percosse, gli stupri, le dipendenze, le perdite di coscienza o di identità non sono solo colpi di scena o ostacoli crudeli; sono i principi organizzativi del film”. Gli fa eco il New York Times: “Considerati tutti i trattamenti indegni e gli orrori che Marilyn Monroe ha tollerato durante i suoi trentasei anni di vita, è un sollievo che non abbia dovuto sopportare le volgarità di Blonde, l’ultimo intrattenimento necrofilo per sfruttarla”. La modella e attrice Emily Ratajkovski insiste su Tik Tok: “Amiamo esaltare il dolore femminile. Guardate Amy Winehouse, guardate Britney Spears, guardate il modo in cui siamo ossessionati dalla morte di Diana, il modo in cui siamo ossessionati da ragazze uccise e serial killer. Guardate qualsiasi episodio di CSI, è incredibile questa folle esaltazione del dolore e della morte femminili” (1).
Da tale campagna di denigrazione non risulta immune nemmeno il trimestrale Jacobin Magazine, sulle cui pagine Eileen Jones giudica il film l’ennesimo svilimento di Marilyn Monroe: “È un’esperienza cupa e mortificante vedere Oates e Dominik umiliare ancora una volta Marilyn Monroe in Blonde. E i due lo fanno con un gusto così malato, che viene da farsi alcune domande su di loro” (2). Per quanto riguarda la critica nostrana, spicca tra le stroncature quella di Gloria Amicone su Tempi, secondo cui Blonde non sarebbe altro che una squallida e banale storia sessista (3).
Per farla breve, ciò che si rimprovera alla Oates e a Dominik è di aver offerto un ritratto solo parziale e morboso dell’attrice. Ma più che dirci qualcosa sul romanzo e la sua resa cinematografica – o persino su chi sia stata realmente Marilyn Monroe – tali critiche riflettono chiaramente l’abissale povertà di pensiero a cui si sono ridotti gli esponenti del mondo culturale contemporaneo, sussunti all’ideologia del politicamente corretto (4). Del resto, basterebbe leggere la nota introduttiva della Oates al suo libro per capire che “Blonde è una ‘vita’ radicalmente distillata in forma di romanzo e ricostruita con l’ausilio della sineddoche. In luogo delle numerose famiglie presso le quali Norma Jeane [vero nome di Marilyn Monroe, N.d.A.] venne data in affidamento da bambina, Blonde ne prende in considerazione soltanto una, frutto di fantasia; in luogo dei vari amanti, problemi di salute, aborti, tentativi di suicidio, ruoli cinematografici, Blonde ne prende in considerazione soltanto alcuni, simbolici”. Senonché proprio la dimensione del simbolico sembra sfuggire ormai a una critica per la quale il cinema e l’arte in generale dovrebbero ridursi a odiosi mezzi di propaganda, volti alla diffusione di messaggi paternalistici e consolatori, con l’effetto di provocare non più la sensibilizzazione del pubblico rispetto a certi argomenti, bensì la sua definitiva infantilizzazione. E risulta emblematica, a tal proposito, l’insistenza piagnucolante con cui si punta il dito contro il troppo dolore raccontato nel film, ulteriore conferma di come appunto il dolore e la morte costituiscano oggi i più grandi tabù in seno alla società dell’apparenza e della prestazione (5).
Mai una volta, nelle stroncature di Blonde, ci si interroga su quale sia il nucleo tematico dell’opera a cui la storia dichiaratamente romanzata di Marilyn Monroe fa da contrappunto – e perché sia stato scelto proprio il personaggio di Marilyn per esprimere tale nucleo tematico. Incapaci di procedere a un’analisi tecnica del film, questi ‘critici’ non fanno altro che ricondurlo, deformandolo, alla loro morale iperuranica, questa sì, totalmente avulsa dalla realtà; poiché la realtà di cui parla Blonde è anche e soprattutto la realtà attuale, caratterizzata, con buona pace di quanti vorrebbero ancora convincerci che viviamo nel migliore dei mondi possibili, da quella ‘scientifica’ distruzione dell’essere umano e della bellezza, rispetto alla quale la Marilyn di Oates e Dominik si pone in qualità di metafora sanguinante.
Siamo a Los Angeles nel 1933. Norma Jeane (Lily Fisher) è una bambina di sette anni. Per il giorno del suo compleanno, la madre Gladys (Julianne Nicholson) ha organizzato per lei una sorpresa. Appesa alla parete sopra la testiera del letto – attraversata da una crepa dal chiaro valore simbolico – si staglia la foto di un uomo affascinante, baffetti scuri e cappello ed espressione alla Humphrey Bogart, il padre (presunto) di Norma Jeane. Gladys lo ha idealizzato, tanto da non permettere alla piccola nemmeno di toccare la foto con le sue “dita appiccicose”. Sembrerebbe un attore di Hollywood, ma, in realtà, non risulta mai chiaro esattamente cosa faccia per vivere. Alla figlia, Gladys si limita a spiegare che è un nome importante: “Ma è un nome che non posso pronunciare”. La festa prosegue con Gladys evidentemente ubriaca che accende le candeline sulla torta di Norma Jeane. In quel momento, squilla il telefono, e la donna pronuncia una battuta estremamente significativa in rapporto alla dicotomia tra illusione e realtà, uno dei temi fondamentali del film: “Mi tremano le mani o è la stanza che sta vibrando? In California tu non puoi dire cosa sia reale o una tua impressione”. Norma Jeane stringe tra le mani il pupazzo di un tigrotto dagli occhi azzurri come i propri, di cui ritroverà poi un esemplare identico per strada diversi anni dopo, quando si sarà già trasformata in Marilyn Monroe. Prima che ciò accada, tuttavia, la bambina è destinata a vivere diverse esperienze traumatiche, non ultima quella in cui Gladys, mossa da un impeto autodistruttivo, la costringe a salire con lei in auto per dirigersi verso le ville delle star sulle colline, dove vivrebbe anche il padre di Norma Jeane, proprio nel momento in cui è in corso uno degli enormi incendi che hanno sconvolto la California nell’autunno del 1934 a causa della siccità. L’atmosfera è apocalittica.
E vale la pena sottolineare, a questo punto, l’immensa bravura di Dominik alla regia e di Chayse Irving come direttore della fotografia, capaci di far immergere il pubblico in immagini che hanno del sublime nel senso dato dai romantici a questo termine, ovvero quel peculiare sentimento di terrore e piacere, che sottende la vista di qualcosa di eccelso e spettacolare, capace di colpire e innalzare l’animo dello spettatore. C’è sicuramente un’enorme ricerca estetica in Blonde – cui partecipa, tra l’altro, la splendida colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis – che è probabilmente ciò che alcuni scribacchini hanno scambiato per un approccio morboso al personaggio di Marilyn Monroe. E questo la dice lunga su quanto oggigiorno risulti tragicamente impari la lotta tra chi possiede del talento e quanti hanno fatto della propria mediocrità la lente attraverso cui giudicare l’operato altrui. A tal proposito, nessuno sembra essersi domandato come mai Dominik, oltre a giocare con il colore e il bianco e nero, lo faccia anche con il formato dell’immagine, alternando scene in 4:3, 21:9, 16:9 ecc. Eppure non è esattamente una scelta stilistica che passi inosservata. Ma certo più importante dell’analisi tecnica per certa ‘critica’ è smontare il lavoro di registi e scrittori, senza averne capito un’acca. Per quanto ci riguarda, ci sembra di cogliere in tali variazioni una precisa volontà metanarrativa: in un film che parla anche del rapporto – spesso ambiguo – tra il cinema e la realtà, Dominik ci ricorda costantemente che ci troviamo appunto dentro a un film. Inoltre, nell’allargarsi e restringersi dell’immagine può essere letta, a volte, la rappresentazione dello stato psicologico della protagonista in relazione al particolare tipo di ambiente da lei attraversato in un dato momento. Due esempi per tutti, opposti tra loro: quando Gladys racconta a Norma Jeane che da neonata dormiva in un cassetto, poiché non aveva soldi nemmeno per comprarle una culla, la macchina da presa indugia in un’ipoteca soggettiva della bambina appunto all’interno del cassetto, dimodoché lo schermo – già ridotto a 4:3 – si restringe ulteriormente, fino a formare un piccolo rettangolo verticale; mentre a New York, città simbolo delle ambizioni teatrali di Norma Jeane – e quindi dell’Arte contrapposta allo Spettacolo hollywoodiano – in una delle poche occasioni in cui lei non è presente in scena, vediamo Arthur Miller (Adrien Brody) muoversi frettolosamente per strada e perdere alcuni fogli di appunti, incorniciato da un panorama a 16:9.
Tornando alla trama di Blonde, dopo che Gladys tenta di affogare Norma Jeane nella vasca da bagno – motivo per cui sarà rinchiusa in un manicomio – in un contesto carico di suggestioni simboliche, dove appare chiaro il parallelismo tra l’acqua e il liquido amniotico, la bambina si trova dapprima a vivere presso una coppia di vicini, i quali, tuttavia, si sbarazzano in fretta di lei, lasciandola in un orfanotrofio. Abilmente descritta dalla Oates, questa scena straziante si connota di una nota amaramente ironica in rapporto al personaggio di Clive Pearce – l’uomo della coppia, del quale risulta significativa la somiglianza al padre di Norma Jeane – situazione in cui è il campo semantico del cinema a guidare la penna dell’autrice, come avviene in buona parte del romanzo: “Voltate le spalle alla zuffa, Mr. Pearce si era allontanato rapidamente per fumarsi una sigaretta in santa pace. La sua esperienza di attore essendo limitata a ruoli di generico – spesso inquadrato di profilo con quel suo enigmatico sorriso molto british – Mr. Pearce non aveva idea di come affrontare una scena da protagonista; la sua preparazione classica alla Royal Academy di Londra non contemplava l’improvvisazione” (6).
A differenza dell’opera della Oates, tuttavia, in cui vengono descritte ancora parti dell’infanzia e dell’adolescenza di Norma Jeane, Dominik, a questo punto, compie un salto in avanti per mostrarci la protagonista già adulta, magistralmente interpretata dall’attrice cubana Ana de Armas. Ci troviamo negli uffici di uno studio cinematografico. Un abuso sessuale da parte del produttore è ciò che consente a Norma di ottenere la parte in un film. Questo sarebbe il motivo – o uno dei motivi – per cui Blonde, secondo Gloria Amicone e altri come lei, si ridurrebbe a una squallida e banale storia sessista? Davvero siamo giunti al punto di scambiare la denuncia di uno status quo per l’esaltazione di quello stesso status quo? Perplessa anche la Oates, la quale, in difesa del lavoro di Dominik, ha dichiarato: “Mi sorprende che nell’era post MeToo la forte esposizione della predazione sessuale a Hollywood sia stata interpretata come sfruttamento. Sicuramente Andrew Dominik ha voluto raccontare la storia di Norma con sincerità. La giovane star Norma Jeane Baker non aveva la possibilità di raccontare di aver subìto uno stupro. Nessuno avrebbe creduto a una starlet o gliene sarebbe importato; e lei sarebbe stata licenziata e inserita nella lista nera” (7).
Inoltre, a prescindere da ciò che possa essere capitato alla vera Marilyn Monroe – e comunque, leggendo qualsiasi biografia, dovrebbe risultare chiaro come la sua vita sia stata costellata di abusi e soprusi – i detrattori del film non hanno voluto vedere che quanto interessa rappresentare alla Oates e Dominik è l’esperienza della reificazione, inevitabile in un mondo dominato dalla merce e dal profitto. Dimodoché, di nuovo, appare chiaro il valore simbolico del personaggio in quanto corpo di dolore di un’intera società. Emblematica, da questo punto di vista, la scissione tra l’essere umano Norma Jeane e la sua immagine Marilyn Monroe, rispetto alla quale il titolo Blonde è già rivelatore in quanto il colore dei capelli dell’attrice non era davvero biondo platino, essendo ella stata costretta a tingerseli per compiacere i gusti del pubblico. Scissione sottolineata più e più volte nel corso della storia. Ci limitiamo a riportare alcuni esempi: quando Marilyn comincia un ménage à trois con Edward Robinson Jr. (Evan Williams) e Cass Chaplin (Xavier Samuel), figlio di Charlie Chaplin – del quale era stata mostrata in precedenza la locandina del film Luci della città, appesa a una parete della casa di Gladys – Cass viene a trovarsi insieme a Marilyn di fronte a uno specchio e qui pronuncia un discorso estremamente significativo in rapporto al tema del doppio: “A me piace guardarmi allo specchio. Mi guardo persino mentre sono sul gabinetto. Nella nostra famiglia, mio padre, Chaplin, era l’unica cosa magica. Attirava l’attenzione su di sé, finché non rimaneva niente dentro di me, solo torpore… Come sonno. Solo nello specchio potevo vedere me stesso. Qualunque cosa facessi allo specchio, potevo sentire ondate e ondate di applausi. Guarda Norma Jeane, eccola lì, la tua magica amica”.
Si pone qui un’ambivalenza rispetto alla relazione tra Norma Jeane e Marilyn Monroe: se è vero, infatti, che l’essere umano risulterà presto essere vittima del suo personaggio, è altrettanto vero che inizialmente tale personaggio appare a Norma Jeane come l’unico mezzo per riprendere controllo sulla propria vita, già sconvolta da un’infinità di traumi. Tra questi ultimi, è naturalmente l’abbandono del padre a costituire il nodo più profondo. Dimodoché è possibile leggere in tutto il percorso di Norma Jeane per diventare Marilyn Monroe il tentativo di ritrovare l’uomo affascinante ritratto nella foto mostratale da Gladys in occasione del suo settimo compleanno – metafora, tra l’altro, delle promesse inevitabilmente disattese di cui il sistema hollywoodiano si fa spesso portavoce. Non per niente, Cass le parla del proprio padre e, in una scena successiva, ribadisce: “Pensano che sia una benedizione, essere il figlio di Charlie Chaplin. Come nelle favole, io sono il figlio del re. Ma siamo maledetti, io ed Eddy. Figli di uomini che non ci hanno mai voluto”.
Da notare, inoltre, l’incredibile somiglianza tra Cass ed Eddy, ulteriore rimando al tema del doppio, il quale, se proprio qualcuno ancora non se ne fosse accorto, è sottolineato in maniera fin troppo didascalica nei dialoghi in cui, di notte sulla spiaggia, i tre ammirano la costellazione dei Gemelli. Ferma restando la bellezza di questo film, infatti, bisogna riconoscere che, in certe occasioni, Dominik si fa prendere un po’ la mano, indugiando nell’ostentazione scenica di elementi tematici già chiari allo spettatore, anche se non alla critica evidentemente, considerata la facilità con cui ha sorvolato su aspetti inerenti, tra l’altro, alla psicologia della protagonista, dimostrando così la sua totale assenza di comprensione umana, prima ancora che artistica.
Nel momento in cui Marilyn si trova sul set del film La tua bocca brucia (1952) di Roy Ward Baker, per esempio, lo sfregio verticale che reca sulla guancia è speculare a quello mostrato sul volto di Gladys in una parte successiva, quando, nel contesto di una visita in manicomio, è la figlia ora a fare il bagno alla madre; sfregio che evidenzia, sul piano simbolico, come le due donne siano accomunate dalla stessa ferita inconscia, tramandatasi dall’una all’altra. Non solo: la scena del film che Marilyn sta recitando prevede che lei si tenga premuta sul collo la lametta di un rasoio con la chiara intenzione di uccidersi, e il grido del regista – “Taglia!” – diventa occasione per un’allucinazione a proposito di Gladys che sprona Norma Jeane appunto a tagliare, giocata sul doppio significato del termine inerente alla ripresa e alla lametta. Ora, tale allucinazione avrebbe potuto anche non esserci, e il significato della scena relativo all’importanza cruciale che hanno rivestito i traumi dell’infanzia nel percorso esistenziale della protagonista e nel suo tragico epilogo, sarebbe comunque risultato esplicito. Eppure nemmeno così è stato possibile a Dominik convincere la critica che il suo ritratto di Marilyn Monroe fosse ben altro che l’autocompiaciuta e stilizzata raffigurazione di una ‘donna debole’.
Il simbolo dello specchio, già accennato in rapporto al personaggio di Cass, tornerà poi in diverse occasioni: crepato, quando Norma Jeane vivrà un forte momento di crisi, preludio del suo suicidio finale, intonso nel momento in cui il truccatore ‘resusciterà’ Marilyn sul suo volto, e si creerà allora un significativo scollamento tra l’espressione sofferta della donna e il sorriso seducente rimandatole dalla propria immagine riflessa. Soluzione estetica che sarà poi ripresa nella parte conclusiva del film in cui assistiamo a un vero e proprio sdoppiamento tra il cadavere di Norma Jeane scomposto sul letto e lo ‘spirito’ di Marilyn Monroe, vezzosamente abbracciato al cuscino.
Di nuovo, in tale sdoppiamento, certa critica ha voluto vedere la rappresentazione patriarcale di una ‘brava donna’, la quale non avrebbe desiderato essere altro che moglie e madre, costretta dalle circostanze a intraprendere la carriera immorale dell’attrice. Scrive, per esempio, Ilenia Rossini su Dinamo Press: “Nella dicotomia tra donne ‘per bene’ e donne ‘per male’, e nell’immaginario stesso di Dominik, Marilyn Monroe rimane evidentemente una puttana di cui si può dire qualsiasi cosa” (8). Davvero non sappiamo che film abbiano guardato costoro.
In quello analizzata da noi, Marilyn è un personaggio estremamente complesso, dotato, tra l’altro, di grande cultura e intelligenza, aspetto che emerge già in una delle scene iniziali, dove cita Dostoevskij in rapporto al provino da lei sostenuto per il ruolo di Nell nel film La tua bocca brucia, la cui trama fa pendant rispetto all’esperienza vissuta da Marilyn con la madre: “Una donna psicopatica che quasi uccide una ragazzina. Come un romanzo di Dostoevskij, dove provi pietà per il criminale. Non vuoi che lei venga punita”. E ancora, di fronte a uno stupefatto Arthur Miller, anch’egli inizialmente pervaso da un forte pregiudizio nei confronti di Marilyn Monroe e per questo scettico ad affidarle la parte della ‘sua’ Magda per uno spettacolo teatrale di cui è autore, Norma Jeane fa un acuto parallelismo tra il personaggio milleriano e la Nataša di Čechov ne Le tre sorelle, per poi aggiungere un consiglio che fa definitivamente aprire gli occhi al drammaturgo riguardo all’immenso potenziale dell’attrice: “Stavo pensando a una cosa… Se Magda non fosse in grado di leggere, Isac le darebbe la sua poesia, e lei farebbe finta di leggerla”.
Le ambizioni teatrali di Norma Jeane, del resto, erano state già anticipate nella scena che descrive il suo primo appuntamento con il futuro marito Joe DiMaggio (Bobby Cannavale): “Voglio soltanto ricominciare da zero. Voglio vivere in un altro mondo, lontano da Hollywood. Voglio vivere in… Oh, Čechov! Voglio trasferirmi a New York e studiare recitazione. Recitazione vera. Nei film ti scompongono in mille pezzi. Taglia, taglia, taglia… È come fare un puzzle. Ma non sei tu quella che mette insieme i pezzi. Ma vivere in un ruolo, interpretarlo fino alla chiusura del sipario, tutte le sere…” Ed è solo di fronte all’espressione contrariata di Joe DiMaggio che Marilyn aggiunge: “Ma soprattutto io voglio sistemarmi, come ogni ragazza, e avere una famiglia”. Di nuovo, la dicotomia tra santa e puttana, che tanto ha fatto indignare Ilenia Rossini, ascrivendola alla forma mentis di Dominik, appare, in realtà, nel film come denuncia di una realtà sociale in cui la donna viene stritolata.
Da questo punto di vista, gli abusi di cui l’attrice è vittima sono speculari a quelli che Marilyn subisce in casa in quanto moglie di Joe DiMaggio. E vale la pena notare la raffinatezza con cui Dominik anticipa tali abusi nella scena in cui l’ex giocatore di baseball attende la fidanzata nella sua camera d’albergo e qui, dichiarandole la propria volontà di sposarla, la tiene per il collo; gesto che vedremo ripetergli in tutt’altro contesto, quando l’uomo, furente di gelosia, picchierà Norma Jeane, dopo aver assistito alle riprese di Quando la moglie è in vacanza (1955) di Billy Wilder, con particolare riferimento alla celebre scena della gonna alzata dal vento della sotterranea. Ma niente, per certa critica solo il fatto di aver mostrato, accanto alle ambizioni artistiche e professionali di Norma Jeane, cresciuta senza padre e con una madre mentalmente instabile, il suo desiderio ad avere una famiglia finalmente solida e felice, tale fatto, dicevamo, dev’essere per forza sintomatico dell’ideologia conservatrice e patriarcale del regista.
E veniamo così all’accusa più grottesca mossa a Dominik, quella di aver inserito in Blonde la più triviale propaganda antiabortista. Ora, negare alla donna la possibilità dell’aborto è certamente una violenza imperdonabile; ma anche costringerla ad abortire contro la sua volontà ci pare una misura altrettanto efferata. Ed è appunto ciò che accade a Marilyn per due volte nel corso del film. Di nuovo, a emergere qui è il tema della reificazione, il fatto che Norma Jeane non abbia mai davvero il controllo sul proprio corpo. E vengono in mente le analisi di Foucault a proposito di questo tema, letto attraverso il concetto della biopolitica, secondo cui, giunto il capitalismo alla sua fase più moderna e ‘sofisticata’, il corpo diviene il terreno privilegiato su cui si attua l’incontro-scontro tra la sfera del potere e quella della vita. Scrive la Oates in rapporto al personaggio, assente nel film di Dominik, di Otto Öse, fotografo sedicente marxista, il quale, tuttavia, sembra sguazzare con gusto nel mondo delle merci da lui stesso criticato: “Nessuno può nascondersi dall’occhio della macchina fotografica di Otto Öse. Come dall’occhio della Morte. Erano innumerevoli le donne che Otto Öse aveva spogliato dei loro abiti e delle loro pretese e della loro ‘dignità’ malgrado quei Mai! inizialmente gridati con tanta convinzione. Così come l’aveva gridato quella ragazza [Norma Jeane, N.d.A.], che si credeva superiore al proprio destino. Mai, non lo farò mai! Come se si credesse vergine. Nell’anima. Come se si credesse inviolabile. In una società capitalistica e consumistica in cui nessun corpo, e nessuna anima, è inviolabile” (9). Rispetto a ciò, è possibile leggere in chiave addirittura allegorica il momento in cui Norma Jeane, rimasta incinta di John Fitzgerald Kennedy (Caspar Philipson), viene letteralmente rapita dagli uomini del presidente in una scena dall’atmosfera quasi sci-fi, dove lei appare alla stregua di un alieno spaurito, su cui condurre i più feroci esperimenti.
C’è poi un ulteriore livello di analisi destinato a restare celato a una critica ormai incapace di ragionare sul piano del simbolico. La frase che si sente pronunciare dalla voce fuori campo nella scena in cui Gladys tenta di affogare nella vasca da bagno la piccola Norma Jeane – “Perché la figlia era il suo Io segreto, indifeso” – è, infatti, rivelatrice anche del rapporto semantico che intercorre tra Marilyn e il proprio figlio mai avuto. E, se è vero che il dialogo tra la protagonista e il feto che porta in grembo risulta decisamente kitsch da un punto di vista estetico – uno di quei casi in cui Dominik si lascia prendere la mano – resta il fatto che nessuno sembra aver colto nei continui aborti di Norma Jeane il significato metaforico inerente alla distruzione della propria identità. Non per niente, nella scena onirica, ma sarebbe meglio dire da incubo, in cui Marilyn scappa dai ferri dei medici chiamati a farle interrompere la gravidanza, dopo averla seguita lungo il corridoio dell’ospedale, la vediamo a casa di Gladys, mentre è in corso un incendio, che tenta disperatamente di aprire il cassetto nel quale dormiva da piccola per salvare il neonato urlante all’interno – dunque, se stessa.
Gli unici momenti in cui vediamo Norma Jeane vivere un breve ‘periodo di grazia’ è all’inizio del suo matrimonio con Arthur Miller – per quanto già adombrato dalla scena in cui lei scopre che il drammaturgo ha utilizzato frammenti della loro vita privata per il suo lavoro, nonostante avesse promesso di non farlo: ogni scrittore ha conficcata nel cuore una scheggia di ghiaccio, sosteneva Graham Greene. Ma sarà proprio un aborto, dovuto in questo caso a un tragico incidente, a far riemergere tutti i nodi irrisolti del personaggio, il quale cadrà così definitivamente in una spirale autodistruttiva, contraddistinta dall’abuso di alcol e farmaci.
L’ultima parte del film è un vero e proprio tunnel degli orrori in cui spicca la scena in cui Marilyn, naufragato il matrimonio con Arthur Miller, viene ‘consegnata’ a Kennedy alla stregua di un pezzo di carne, per poi essere rispedita subito indietro, una volta soddisfatte le voglie sessuali del presidente. A darle il colpo di grazia, tuttavia, sarà la scoperta che le lettere che aveva ricevuto dal padre, fino a quel momento, non erano state altro che uno scherzo crudele di Cass, morto nel frattempo a causa dei suoi problemi di alcolismo. Il biglietto in cui è contenuta tale rivelazione è accompagnato dal pupazzo del tigrotto che Norma Jeane aveva ritrovato in una scena precedente, passeggiando per strada insieme al figlio di Charlie Chaplin e a Eddy – occasione in cui viene pronunciata una battuta dal chiaro significato metanarrativo: “Certe cose succedono solo nei film”. Sì, solo nei film, o meglio, in alcuni film, probabilmente quelli che piacciono a certa critica, la vicenda descritta è destinata a connotarsi di una morale edificante. La realtà è un po’ più complessa di così. E il tragico epilogo della vita di Marilyn Monroe è qui a dimostrarcelo.
C’è nelle stroncature che hanno sommerso il lavoro di Dominik l’insopportabile presunzione che sia davvero possibile realizzare un biopic del tutto oggettivo, mentre è inevitabile – e assolutamente legittimo – che ogni artista, regista o scrittore che sia, dia dell’essere umano rappresentato la propria interpretazione personale. Se quella della Oates e di Dominik a proposito di Marilyn Monroe ha sollevato un simile polverone, è perché viviamo in un’epoca in cui è diventato di moda parlare di diritti civili, sostegno alle donne ecc., ma guai a puntare il dito sulle cause strutturali, relative cioè al sistema economico, sulla base delle quali sorgono un certo tipo di problematiche. Non pretendiamo che il romanzo della Oates e il film di Dominik giungano a una completa verticalizzazione dell’analisi. Restando su un piano orizzontale, essi si sono limitati a realizzare, vale la pena ripeterlo in chiusura, una meravigliosa metafora sulla morte della bellezza in seno alla società dei consumi e dello spettacolo (Deboard), dove l’essere umano si trova a subire una vera e propria mutilazione ontologica in quanto viene ridotto al rango di merce. Una società ‘cannibale’, illustrata splendidamente nella scena in cui Marilyn, avanzando sul tappeto rosso all’ingresso del cinema in cui è in programma la prima di un suo film, vede deformarsi le bocche e i volti della folla accalcata ai lati in un significativo rimando all’allucinazione finale di Tod ne Il giorno della locusta di Nathael West, romanzo ambientato all’epoca della Grande Depressione, portato sullo schermo da John Schlesinger nel 1974, non per niente incentrato sulla drammatica dicotomia tra la nuda vita e la rappresentazione illusoria che ne viene data negli studi Hollywood. In questo senso, il lavoro della Oates e di Dominik è estremamente realistico, molto più di qualsiasi prodotto mainstream che pretende di raccontarci l’ennesima favoletta riguardo a ‘donne che ce l’hanno fatta’, anche quando queste donne hanno incarnato, nel corso della loro carriera, le peggiori turpitudini del sistema capitalistico – e patriarcale – com’è il caso dell’orrendo monumento fatto alla Thatcher con The Iron Lady (2011) di Phyllida Lloyd, il quale non per niente aveva riscosso ai suoi tempi un notevole successo di critica. Una sincerità, quella della Oates e di Dominik, la quale non poteva che risultare imperdonabile agli ottusi paladini del politicamente corretto.
1) Per questa e le due precedenti recensioni citate, vedi l’articolo riassuntivo su https://tg24.sky.it/spettacolo/cinema/2022/10/ 03/blonde-recensioni
2) Vedi la traduzione dell’articolo a opera di Federico Ferrone su Internazionale: https://www.internazionale.it/opinione/eileen-jones/2022/10/16/blonde-svilisce-marilyn-monroe-recensione
3) Cfr. https://www.tempi.it/blonde-film-non-e-marylin-monroe/
4) Per approfondire questo tema, legato non solo al cinema, rimandiamo a Giovanna Cracco, Contro il politically correct, Paginauno n. 73, luglio 2021
5) Cfr. Byung-chul Han, La società senza dolore, Einaudi
6) Joyce Carol Oates, Blonde, La nave di Teseo
7) https://tg24.sky.it/spettacolo/cinema/2022/10/03/blonde-recensioni
8) https://www.dinamopress.it/news/la-blonde-di-dominik-un-bellissimo-pezzo-di-carne
9) Joyce Carol Oates, op. cit.