Jazz ad alte latitudini
Sembra quasi scontato dire che ‘un giorno’ qualcuno scriverà la storia di questa pandemia. Utilizzeranno gli strumenti della ricerca sociologica, storica, medica. È sicuro. Meno sicuro il fatto che qualcuno potrà scrivere la storia musicale della pandemia. Per conto mio, già parlando con amici vicini e lontani, mi sono reso conto che l’enormità di tempo a disposizione delle persone ha portato moltissimi di noi a frugare nel proprio archivio e a ri-ascoltare materiali che forse si erano dimenticati. Che poi qualcuno se ne venga fuori con una compilation degli album pubblicati a fatica durante il lockdown, a me interessa poco. Mi interessa di più ascoltare le storie personali e capire, semmai, che valore aveva l’ascolto.
Non è la prima volta che da queste colonne predico contro l’eccesso della civilizzazione visiva in cui siamo immersi. Ultimamente qualcuno pare accorgersi che i nostri figli e nipoti sono un po’ troppo esposti (leggi: li abbiamo lasciati esposti) a un bombardamento visivo inusitato. Per bilanciarlo, a mio modestissimo avviso, bisogna operare su due fronti. Il primo è quello della cultura fisica; appropriarsi cioè nuovamente di una percezione diffusa del proprio corpo. Non mi interessa la tecnologia, né l’arte che si va a praticare. L’importante è muoversi con consapevolezza. Il secondo fronte è quello dell’ascolto. Non mi stancherò mai di ripetere che, avessimo anche solo un flash di intuizione di quanto sia magico ascoltare un qualunque suono, non saremmo mai sazi di porgere l’orecchio. Ma si sa, l’educazione scientifica in questo Paese è carente. Per cui, se si prova a spiegare a qualcuno in cosa consista scientificamente un suono, il meglio che vi possa capitare è un moto d’impazienza e una scrollata di spalle. E se chiedete a qualcuno perché gli piaccia la musica, qualunque sia, alla fine gratta gratta viene fuori la solita risposta: perché mi intrattiene.
Nelle grandi città il silenzio è qualcosa da respingere quasi con orrore. Eppure i metropolitani sono costantemente bombardati da un numero spaventoso di rumori, suoni sconnessi, discorsi, con la musica che talvolta fatica a farsi strada. Eppure, i due metropolitani milanesi che avevo incontrato anni fa a Stromboli e che avevo cortesemente accompagnato a guardare il sorgere della luna in una spiaggetta deserta, non erano scappati il giorno dopo perché avessero qualcosa di più importante da fare. No, erano scappati perché c’era troppo silenzio. La cosa mi aveva fatto ridere ma a distanza di tempo mi aveva lasciato la bocca amara. Per cui mi sono convinto che senza passare da un estremo all’altro (nessun suono vs troppo suono) l’educazione all’ascolto sia parte fondamentale della nostra esistenza.
Ovviamente, non parlo solo della capacità di ascoltare e godere un brano musicale. Qualcuno, non ricordo più chi, ha detto che Casanova era un grande seduttore perché sapeva ascoltare le donne. Ma anche senza voler sedurre a tutti i costi, rimane il fatto che ascoltare veramente chi ci sta davanti consente di eliminare un sacco di problemi alla radice, oltre che preparare il terreno per una bellissima esperienza di condivisione.
Ho premesso tutto questo perché c’è un album, che ho ascoltato più e più volte durante la pandemia (specie verso la fine della stessa) che mi ha costretto ad ascoltarlo per apprezzarne in pieno l’intento e il sapore. L’autore è un singolare musicista norvegese a nome Bugge Wesseltoft, classe 1964…
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