Il potere del cane: il patriarcato sotto accusa nel romanzo di Thomas Savage e nel film di Jane Campion
Montana, 1925. Phil (Benedict Cumberbatch) e George Burbank (Jesse Plemons) sono i ricchi proprietari di un ranch che sorge dalle parti di Beech, un paesino di poche anime, a sua volta non troppo distante dalla cittadina di Herndon. L’epoca ‘gloriosa’ della frontiera è ormai trascorsa – storicamente, infatti, essa si esaurisce negli ultimi anni dell’Ottocento, con il massacro di Wounded Knee a segnare, tra l’altro, la fine delle guerre indiane – e la modernità, più che iniziare a bussare alla porta, ha già fatto il suo ingresso in casa Burbank, con grande disappunto di Phil e una certa soddisfazione da parte di George. Non per niente, quest’ultimo è un grande appassionato di automobili, mentre Phil preferisce ancora andare a cavallo.
Non sarà, come vedremo, l’unica dicotomia portata alla luce dal film Il potere del cane (2021), tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage, pubblicato nel 1967, ultima fatica di Jane Campion, vincitore di ben tre Golden Globe – al Miglior film drammatico, alla Migliore regista e al Miglior attore non protagonista a Kodi Smit-McPhee – nonché del premio Oscar alla Miglior regia, a dodici anni di distanza dall’ultimo lungometraggio della cineasta australiana, Bright Star (2009), dedicato al rapporto tra John Keats (Ben Whishaw) e Fanny Browne (Abbie Cornish) negli ultimi tre anni di vita del poeta. Qui come altrove – si pensi al celeberrimo Lezioni di piano (1993), ma pressoché tutta l’opera della Campion è pervasa da questo tema – era l’universo femminile a essere esplorato, attraverso il punto di vista della protagonista. Il potere del cane sembrerebbe costituire un’eccezione alla regola, essendo, invece, una storia prevalentemente ‘maschile’. Una differenza solo apparente: anche in questo caso, infatti, a essere oggetto di critica da parte della Campion è il sistema patriarcale nel suo insieme, la cui influenza negativa, seppur in maniera diversa e con risultati variabili da persona a persona, colpisce tanto gli uomini quanto le donne.
Ciò che differenzia Il potere del cane da altri lavori tematicamente affini è la profondità di analisi, nonché l’incredibile sfaccettatura psicologica dei personaggi, rispetto ai quali risulta decisamente sfumata la linea di confine tra i ruoli di vittima e carnefice. Proprio per tale ambiguità morale, l’atmosfera cupa, la solitudine elevata a carattere essenziale della condizione umana, la dimensione sostanzialmente tragica della vicenda, per non parlare dell’elemento criminoso espresso dall’omicidio che si compie nel finale, ci si potrebbe azzardare a vedere nel film della Campion un legame con la migliore tradizione noir, ferma restando la sua discendenza diretta dal western psicologico – e lo stesso vale per il romanzo di Savage, il quinto dei tredici da lui pubblicati tra il 1944 e il 1988, giustamente considerato il suo capolavoro. Ma procediamo per ordine…
Fin dalle prime scene, emerge chiaramente la differenza caratteriale tra i due fratelli Burbank. Mentre George si lava in una vasca da bagno – emblema, come l’automobile, della modernità – chiede a Phil se lui se ne sia mai servito, ricevendo in cambio una risposta negativa. Poco dopo li vediamo cavalcare fianco a fianco, mentre si dirigono a Beech per la vendita del bestiame. Phil cerca continuamente la complicità di George, rievocando il passato, il bei tempi andati, quando con Bronco Henry – un cowboy morto tempo prima, emblema del Vecchio West, ma non solo, come vedremo più avanti – andavano a caccia di alci sulle montagne. Tuttavia, George è laconico e sembra persino essersi dimenticato che quel giorno cade il venticinquesimo anniversario da quando i due hanno ereditato il ranch dai genitori, trasferitisi a Salt Lake City – ricorrenza alla quale Phil, estremamente legato alla tradizione, tiene molto. Quando questi, giunti a Beech, propone un brindisi per festeggiare, inizialmente George rifiuta, sostenendo che non gli va di bere, e, solo dopo le insistenze del fratello, accetta finalmente di bagnarsi almeno le labbra. Da notare la frase che Phil pronuncia in questa occasione: “Brindiamo a noi fratelli, Romolo e Remo, e al lupo che ci ha cresciuti, Bronco Henry”.
Il riferimento alla mitologia romana è gravido di significati: non solo anticipa la rivalità tra Phil e George – già latente, ma destinata a esplodere in seguito al matrimonio del secondo –; lascia intendere la grande cultura umanistica posseduta dal primo, fatto sorprendente, se si considerano i modi rozzi in cui lo vediamo atteggiarsi per buona parte del film. Del resto, l’inganno delle apparenze costituisce appunto il perno su cui ruota tutto il lavoro della Campion, e, nel caso di Phil in particolare, la maschera assume la funzione di un’armatura per proteggersi dagli attacchi di un mondo ostile. Come si legge nel romanzo di Savage: “Ma Phil sapeva, Dio sa se lo sapeva, cosa significa essere un paria, e aveva odiato il mondo prima che il mondo odiasse lui” (1). Torneremo a breve sul significato di questa frase. Nel frattempo, ci basti notare come Phil, pur sapendo dimostrare all’occorrenza tutto il proprio bagaglio culturale – di cui, del resto, è fiero – a corollario di una mente già di per sé molto fertile, faccia ogni sforzo per incarnare il cliché dell’uomo duro e colmo di pregiudizi. Cliché su cui la Campion gioca consapevolmente per buona parte del film.
Quando lui, George e gli altri uomini del ranch, si recano a mangiare al ristorante-albergo di Rose (Kirsten Dunst) a Beech, Phil umilia Peter (Kodi Smit-McPhee), il figlio efebico della proprietaria, ‘reo’ di aver disposto sulla tavola alcuni fiori di carta da lui stesso costruiti. Ed eccoci di fronte a un altro cliché – l’opposto di quello rappresentato da Phil – ma, anche in questo caso, un cliché solo apparente, come vedremo in seguito. Le offese di Phil rivolte al ragazzo provocano le lacrime di Rose, dimodoché George si reca in cucina a consolarla. È l’inizio di un breve e impacciato corteggiamento che presto porterà i due all’altare. A nulla valgono i tentativi di Phil di sabotare la faccenda: la lettera scritta alla madre in cui specifica, tra l’altro, che Rose è vedova di un suicida, padre di Peter, impiccatosi nel 1921, o il confronto diretto avuto con George a tale riguardo, dove quest’ultimo lo informa che ormai il matrimonio è cosa fatta.
Da notare che in questa scena Phil mostra al fratello un tavolo e una sedia in miniatura da lui intagliati nel legno, prova della sua creatività unita a una notevolissima abilità manuale, che si pone in relazione diretta con quella dimostrata da Peter con i suoi fiori di carta, primo indizio di una forte similarità tra i due personaggi, nascosta dietro il velo delle apparenze. Savage nel suo romanzo è molto attento a mettere in evidenza questo aspetto del carattere di Phil: “La sua intelligenza stava nelle mani” (2). Non per niente, è anche un ottimo suonatore di banjo, e persino i lavori più pesanti vengono svolti da Phil sempre senza guanti, un’abitudine che rivestirà un’enorme importanza nel finale della storia: “Lavorava con martello e tenaglie a mani nude, perché il cuoio o il tessuto dei guanti non interferissero con l’immagine concepita dal cervello nei minimi particolari” (3).
Non appena Rose fa la sua comparsa al ranch, Phil inizia a tormentarla con una serie di atteggiamenti ostili – per quanto di rado sfocino nell’insulto diretto – come ignorarla ostentatamente o interferire con i suoi goffi esercizi al pianoforte. Dal suo punto di vista, Rose è un elemento estraneo di novità, venuto a turbare l’equilibrio tradizionale (maschile) della casa, e si dichiara convinto che la ricchezza dei Burbank sia il solo motivo per cui abbia accettato di sposare George. A causa di Rose, questi non dorme più in camera con Phil – la stessa di quando erano bambini – e, affronto imperdonabile, Phil viene sollecitato a farsi un bagno in previsione di una cena con i genitori, il governatore e la moglie di quest’ultimo. La sua assenza al tavolo si fa sentire: George, infatti, contava su Phil per mantenere viva la conversazione, attività in cui è consapevole di non brillare, così come i suoi commensali.
L’unico diversivo, a questo punto, dovrebbe essere costituito da un concertino di Rose al pianoforte; ma, appena sedutasi di fronte allo strumento, viene colta da una paralisi nervosa alle mani – quelle mani che, al contrario, Phil tiene sempre in movimento, impegnate in occupazioni che gli riescono tutte egregiamente. Solo allora quest’ultimo raggiunge i convitati, fatto non presente nel romanzo di Savage – dove il fratello di George resta assente per tutta la durata della cena – ma che serve alla Campion a dimostrare il livello di ostilità raggiunto da questo personaggio nei confronti di Rose. “Non hai suonato il piano?” le dice, ostentando un’incredulità posticcia. “Ti sei esercitata fino allo sfinimento”. Sembrerebbe, dunque, Phil il maggiore responsabile delle tribolazioni di Rose; eppure, se George non avesse insistito affinché si esibisse davanti agli ospiti, lei sarebbe almeno riuscita a evitarsi quell’umiliazione, essendo perfettamente consapevole dei suoi limiti musicali e, fin dall’inizio, terrorizzata all’idea di suonare davanti a delle persone così importanti.
Naturalmente Phil è un prodotto della cultura patriarcale nei suoi aspetti più misogini; ma anche George, con la sua ‘bontà’ e gentilezza, nonché una spiccata incapacità a comprendere quello che gli accade davanti agli occhi, pare non essere da meno: nei suoi incoraggiamenti a Rose è difficile non notare almeno una parte di autocompiacimento al proposito di ‘mostrare’ la moglie alla stregua di una bella automobile di cui andare fieri. Nel romanzo di Savage, questo aspetto emerge con chiarezza nei seguenti passaggi, scritti dal punto di vista di Rose: “Cominciò a considerare gli abiti come costumi di scena, travestimenti, maschere, espedienti per nascondere la persona inutile e spaventata che stava diventando […]. Non poteva essere niente, senza qualcuno che credesse in lei, niente di niente. Non poteva essere altro che quello che gli altri vedevano in lei” (4). Una moglie e una madre innanzitutto, mai davvero Rose. Anche da questo punto di vista, la differenza caratteriale tra Phil e George sembrerebbe farsi metafora del passaggio dalla mentalità conservatrice a quella liberale, secondo la logica gattopardesca per cui tutto deve cambiare perché nulla cambi sul serio. L’arrivo di Peter al ranch, durante l’estate, non fa che esacerbare una situazione di per sé già estremamente tesa.
Il ragazzo, nel frattempo, ha iniziato a studiare medicina al college, deciso a seguire le orme paterne. Dai Burbank impiega il tempo principalmente nell’esplorazione delle colline circostanti e nella cattura di piccoli animali, come conigli, che poi viviseziona in camera sua. Emerge qui un aspetto di Peter, destinato a incrinare definitivamente il cliché che pareva rappresentare all’inizio della storia. Simili operazioni di carattere scientifico, che dovrebbero prepararlo alla sua carriera da chirurgo, lasciano intendere, infatti, una freddezza e una forza in lui del tutto inaspettate, se si considera, dal punto di vista patriarcale, il suo aspetto fragile ed ‘effemminato’.
Una forza che dimostra anche nella scena in cui, attratto da un nido di gazze tra i rami di un salice, ‘sfila’ di fronte alle tende di alcuni rancher, attirandosi i fischi e la derisione di questi ultimi, dovuti anche al fatto che indossa un paio di jeans nuovi, senza prima averli messi a mollo nell’acqua: “[…] a ogni passo, quando una gamba superava l’altra, il tessuto duro dei pantaloni faceva zip-zip-zip. Rigido come un bastone, il ragazzo procedeva con un lieve ancheggiare femmineo che Phil non poteva sopportare, con le nuove scarpe da tennis candide e vulnerabili. […] Ma un merito, al ragazzo, Phil doveva riconoscerlo. Non si fermò, non incespicò, affrontò quelle forche caudine con assoluta fermezza. Come se non avesse sentito, passò davanti agli uomini che lo squadravano sghignazzando e andò a vedere il nido sul salice, a guardare le gazze implumi che ciangottavano, ancora incapaci di appollaiarsi. […] Il ragazzo non avrebbe avuto bisogno di rifare la stessa strada per tornare dalla madre. Avrebbe potuto passare dietro le tende ed evitare altri sguardi e sorrisini. Ma Peter si voltò e rifece l’identico tragitto passando davanti alle tende aperte. Non ci furono fischi, stranamente” (5). Sarà proprio questa dimostrazione di forza l’origine di un rapporto più stretto tra Phil e Peter, dovuto certamente, in parte, al piano elaborato dal primo per sottrarre il secondo a Rose, esasperando così l’incipiente alcolismo di quest’ultima, causato proprio dalle vessazioni di cui è vittima; ma anche e soprattutto dalla forte attrazione erotica – nel senso più ampio del termine – provata da Phil nei confronti del ragazzo.
Già in una scena precedente era emersa in maniera lampante la sua omosessualità repressa, quando Peter aveva scoperto il ‘luogo nascosto’ del rancher – metafora del segreto inerente alla propria identità sessuale, serbato in sé – uno specchio d’acqua circondato da una fitta coltre di salici e raggiungibile solo attraverso una sorta di cunicolo ricavato tra le radici degli alberi. È qui che Phil viene a farsi il bagno, significando così, tra l’altro, il suo contatto con la natura, laddove George sembra averlo smarrito del tutto. Inizialmente Peter trova una cassetta in cui sono contenute alcune riviste di carattere omoerotico. Dopodiché vede Phil che, sdraiato sull’erba seminudo, si fa passare un grosso fazzoletto bianco, simile a un sudario, sul torace e il viso. In un angolo, sono ricamate le iniziali BH: Bronco Henry. Sicché risulta chiaro come il ‘fantasma’ di questo personaggio passi dall’essere una semplice metafora del Vecchio West a porsi, più precisamente, quale emblema del rimosso di Phil in rapporto all’ethos di tale epoca storica. A questo proposito, si pensi alla sella di Bronco Henry, che Phil custodisce come una reliquia nel capanno – sorta di antro di Efesto in cui vengono svolti buona parte dei suoi lavori artigianali. Non per niente, si reca a lucidarla, quando sente per la prima volta George e Rose fare sesso nella camera a fianco, evidenziando così la forte carica erotica di cui è pregno tale oggetto. Dunque, quello che Phil ammira in Peter nella scena del nido di gazze è la sua determinazione a essere se stesso, nonostante le difficoltà e i pericoli a cui ciò lo espone – un genere di coraggio che, invece, a lui è sempre mancato. A tal proposito, la scena relativa alla castrazione dei vitelli ha un chiaro valore simbolico in rapporto alla ‘castrazione’ a cui Phil si autocondanna per evitare i giudizi della gente – e non è un caso che, in questa circostanza, si ferisca una mano con il coltello, preludio a una altro incidente simile, il quale avrà un ruolo centrale nella risoluzione della storia.
Viene in mente il carattere mimetico dell’essere umano descritto da René Girard, secondo il quale chiunque imita dagli altri i propri desideri, opinioni, stile di vita in una relazione triangolare che riguarda il soggetto, il suo modello (mediatore) e l’oggetto anelato: “[…] ogni desiderio è desiderio d’essere” (6); ovvero aspirazione, brama di quella pienezza ontologica attribuita al mediatore. Appunto tale funzione ha Bronco Henry per Phil, ma ciò che quest’ultimo imita in lui è l’ideale del Vecchio West e non la forza di esprimere la propria identità sessuale che, invece, trova in Peter. Il rapporto mentore-allievo che si instaura tra i due è, dunque, molto ambiguo. Se è vero, infatti, che Phil insegna a Peter ad andare a cavallo e a svolgere tutta una serie di lavori manuali, d’altra parte, Peter sembra trascinare Phil in un percorso che potrebbe condurlo alla lunga ad accettare la propria omosessualità, se non fosse che il piano del ragazzo è di uccidere il rancher per liberare la madre dalla sua ‘persecuzione’. In tale contesto, è interessantissimo notare come il dolore e la debolezza di Rose divengano le sue armi più micidiali. È vedendola in preda a un delirio suscitatole dal whisky, che il figlio si decide a risolvere il problema in maniera tanto drastica.
Da notare in questa scena il rumore degli stivali di Phil al piano di sotto, associato a quello del pettine tra i cui denti Peter è solito far scorrere l’unghia del pollice, entrambi insopportabili per Rose – morbosamente sensibile a qualsiasi forma di conflitto – come a suggerire un ulteriore parallelismo tra i due personaggi. “Farò in modo che tu non debba farlo” dice Peter a Rose; e nel libro il riferimento al bere è ancora più preciso: “Farò in modo che tu non ne senta più il bisogno”. Se Rose non chiede direttamente al figlio di assassinare Phil, è il suo atteggiamento a esprimere tale supplica in maniera sottintesa, proprio come in passato toccava a Peter il compito di uccidere i polli da cucinare per i clienti del ristorante, essendo lei impressionabile alla vista del sangue – particolare assente nel film, ma descritto nel romanzo di Savage: “Quando arrivava il momento di ammazzarli lei entrava in casa, chiudeva porte e finestre e cantava. E se necessario si tappava anche le orecchie per non sentire le strida impossibili quando Peter, senza scomporsi, bloccava questa e quella gallina nell’angolo del pollaio. Loro sapevano cosa stava per succedere, anche Rose lo sapeva e per questo si tappava le orecchie e cantava. […] Scottati, spennati e fiammeggiati, i polli diventavano per Rose semplici prodotti, e li poteva friggere” (7).
L’avvicinamento di Peter a Phil, dunque, è solo una recita, ancora apparenza. E non è un caso che il simbolo di questo legame illusorio sia una corda che il rancher sta intrecciando per il ragazzo, deciso a regalargliela al termine delle vacanze estive. Va ricordato, infatti, che il padre di Peter, Johnny Gordon, si è ucciso impiccandosi. E, se nel film della Campion il motivo del suicidio viene ricondotto genericamente all’alcol, Thomas Savage ci informa, invece, che era stato proprio un insulto ricevuto da Phil di fronte a tutto il saloon a produrre un effetto a catena tale da portare, nel giro di un anno, l’uomo a quella decisione. Peter e Rose non sanno che Phil è il responsabile indiretto della morte di Johnny. Ma tale circostanza colma di un ulteriore significato lo sviluppo degli eventi, i quali paiono seguire tappe fatalmente stabilite in un processo circolare con al termine il compimento di quella giustizia poetica che ha le sue radici nella tragedia antica: non per niente, l’arma del delitto di cui si servirà Peter per uccidere Phil sarà proprio la corda che il rancher gli sta intrecciando.
Durante le sue esplorazioni sulle colline, infatti, il ragazzo riesce finalmente a trovare la carcassa di un vitello morto di antrace, malattia causata da un batterio, il Bacillus anthracis, trasmissibile all’uomo attraverso il latte, gli insetti e il contatto con i tessuti infetti. Indossato un paio di guanti di gomma da chirurgo per evitare di contagiarsi, taglia alcune strisce di pelle, servendosi di un bisturi, con l’intenzione di consegnarle a Phil alla prima occasione; la quale puntualmente si presenta, dopo che Rose, ignara del piano di Peter, ma come mossa da quella stessa forza fatale cui abbiamo accennato più sopra, cede alcuni pezzi di cuoio grezzo a una coppia di indiani, padre e figlio, ricevendo in cambio un paio di guanti – particolare tanto più significativo, considerata l’abitudine di Phil a lavorare sempre a mani nude. La rabbia di quest’ultimo è enorme: quelle pelli gli servivano per finire la corda per Peter. Ma è appunto il ragazzo a offrirgli la soluzione, mostrando all’apparenza di essere passato totalmente dalla parte di Phil: “Ho della pelle grezza per la tua corda. […]. L’ho tagliata io. Volevo essere come te”.
Al rancher resta ormai solo una notte di vita. Quello stesso pomeriggio, infatti, si era prodotto un profondo squarcio sul dorso della mano con una scheggia di legno. Lavorando la materia infetta consegnatagli da Peter, il contagio è inevitabile. Una felice aggiunta della Campion rispetto al romanzo di Savage, in tale circostanza, è la sigaretta che Peter si accende con apparente spirito di emulazione nei confronti di Phil, per poi passarla a quest’ultimo in una sorta di bacio simbolico, che è però il bacio della morte. “Mio padre diceva [che la vita è fatta di] ostacoli e devi provare a rimuoverli” aveva confessato Peter a Phil in una scena precedente. Un insegnamento che si dimostra aver attecchito profondamente nel ragazzo.
Riprendendo la lezione di René Girard, l’uccisione di Phil potrebbe essere letta come l’attuarsi del meccanismo vittimario da lui descritto per la prima volta in una delle sue opere capitali, La violenza e il sacro. Non è questa la sede per un’accurata disamina del pensiero dell’antropologo francese. A noi basti ricordare che la natura mimetica del desiderio fa sì che due o più individui possano entrare in conflitto per il possesso di uno stesso oggetto. Ma la violenza che si genera da ciò è soggetta anch’essa al processo di mimesi, crescendo in maniera esponenziale, finché l’intera comunità si ritrova coinvolta in una guerra di tutti contro tutti. Per uscirne è necessario un capro espiatorio che si presenti agli occhi dei contendenti in qualità di responsabile unico della crisi. Solo in questo modo, secondo Girard, la mimesi dell’appropriazione può trasformarsi in mimesi dell’antagonista, laddove la prima “divide facendo convergere due o più individui su un solo e identico oggetto di cui tutti vogliono appropriarsi” (8) e la seconda “riunisce facendo convergere due o più individui su un avversario che vogliono tutti abbattere” (9). Nei rituali che descrivono questo tipo di dinamica, il sacrificio della vittima può avvenire anche per mano di un solo membro della comunità, il quale però agisce a nome dell’intero gruppo.
I parallelismi con il film della Campion e il romanzo di Savage sono evidenti. Al centro del conflitto c’è sempre un oggetto: George, il ranch, la tradizione, che Phil sente minacciati da Rose. Dimodoché egli agisce in maniera speculare alla donna, sottraendole il figlio – o almeno questa sarebbe la sua intenzione. La tensione arriva a un punto tale che si richiede un sacrificio attorno a cui il clan dei Burbank possa rinsaldarsi. A questo sottende il passaggio di consegne, rappresentato dai gioielli di famiglia, che avviene tra la madre di George e Rose in occasione del funerale di Phil, nonché l’invito a cena per natale espresso dalla nuora alla suocera, tutti segnali della ‘volontà di pace’ che anima ora la comunità, “tesa al mantenimento di quella tregua miracolosa che le pare concessa dall’essere temibile e benefico che l’ha in un certo senso visitata (il capro espiatorio, n.d.a.)” (10). Del resto, il romanzo di Savage è ancora più chiaro rispetto all’atteggiamento distaccato tenuto dai signori Burbank nei confronti della morte del figlio. “Prima o poi me l’aspettavo, una cosa del genere” dichiara la madre. E, se è vero che sul treno di ritorno per Salt Lake City, dopo aver assistito al funerale di Phil a Herndon, versa qualche lacrima, subito dopo si mette a giocare a ramino con il marito.
Nella logica di Girard, il capro espiatorio è sempre scelto in maniera arbitraria, ma comunque in base a un elemento che sembra distinguerlo dal resto del gruppo. Nel caso di Phil, non è tanto la sua omosessualità – di cui i genitori sono consapevoli, come si evince dal romanzo di Savage – quanto l’intreccio di quest’ultima con il sistema valoriale del Vecchio West. Una contraddizione, dunque, ma colmo di contraddizioni è anche il mondo a venire rappresentato da George, Rose e Peter – ed è appunto questo il maggiore pregio dell’opera di Campion/Savage, su cui purtroppo la maggior parte dei recensori sembra non aver trovato il tempo di soffermarsi (11). Anche da tale punto di vista, Peter rappresenta il doppio di Phil, essendo la violenza di quest’ultimo direttamente proporzionale a quella del primo, per quanto differente sul piano qualitativo: laddove il rancher conduce i suoi attacchi nell’ambito della sfera psicologica, il ragazzo si sposta, uccidendolo, al livello dello scontro fisico. E non è un caso che ciò avvenga in virtù delle sue competenze scientifiche: la modernità incarnata da Peter, insieme agli aspetti negativi della tradizione – i pregiudizi, il machismo ecc. – distrugge la cultura umanistica, di cui Phil è portatore, seppur a modo proprio, a vantaggio di un freddo positivismo, svincolato, tra l’altro, da qualsiasi legame con l’ambiente naturale.
Quello rappresentato da Campion/ Savage è, dunque, un movimento estremamente complesso – quello della Storia – dove la morale è scritta sempre dai vincitori, sicché, per cogliere appieno il significato di tale evoluzione, sarebbe necessario ascoltare anche le ragioni dei vinti. Il che non significa assolutamente fare del cerchiobottismo: la critica al sistema patriarcale – vale la pena ripeterlo in chiusura – è ben presente in tutte le sue forme, tanto più che Phil è la prima vittima di tale cultura, tramutatasi in carnefice. Ma la raffinatezza di questo lavoro sta proprio nel far emergere tale messaggio da una realtà estremamente sfaccettata, la cui ambiguità è resa splendidamente dall’immagine del cane con la bocca spalancata che solo Phil – oltre a Bronco Henry prima e a Peter dopo – riesce a vedere nella forma di una collina.
Veniamo, dunque, al titolo dell’opera. Il potere del cane, come risulta chiaro dalla scena in cui Peter sfoglia il Book of Common Prayer, viene dal salmo 20 [21] dal titolo Le sofferenze e la gloria del giusto: “Libera la mia anima dalla spada / E il mio amore dal potere del cane” (12). Al livello di lettura più superficiale, è facile vedere nel cane una metafora di Phil, come, del resto, sembra indicare lo stesso Peter nel romanzo di Savage: “Si domandò se quel libro di preghiere venisse mai utilizzato, se non potesse strappare quel lembo di pagina per incollarlo nel suo album, un’ultima testimonianza di gran lunga superiore ai petali di rosa che, sebbene ancora rossi, avevano perduto il loro profumo. Perché adesso lei era libera, libera grazie al sacrificio di suo padre, e al sacrificio che Peter stesso aveva potuto compiere, grazie a quanto aveva appreso sui libri neri di suo padre. Il cane era morto” (13). Ma è proprio Jane Campion a spiegare in un’intervista rilasciata a IndieWire come tale metafora agisca, in realtà, a un livello molto più profondo: “Così come si presenta il titolo, è una specie di avvertimento. Il potere del cane sono tutti quegli impulsi profondi e incontrollabili che possono salire in superficie e distruggerci” (14). Il cane sarebbe, dunque, non tanto Phil quanto ciò che di represso esiste in lui e riemerge violentemente sotto forma di Ombra.
Ma c’è di più: la forma dell’animale ‘nascosta’ all’interno della collina riconduce, infatti, al tema della dicotomia tra realtà e apparenza. Solo adottando uno sguardo attento, libero da tutti i cliché e i pregiudizi che infestano la nostra mente, è possibile andare oltre la superficie delle cose per vedere davvero il mondo in tutta la sua complessità. Una complessità che oggi viene sacrificata sempre più spesso sull’altare della propaganda e dell’ideologia. Emblematico, a tal proposito, il clima censorio venuto a instaurarsi in rapporto alla guerra in Ucraina nei confronti di chi, senza per questo appoggiare Putin, rifiuta di allinearsi con i diktat della Nato; ma innumerevoli sono gli esempi che si sarebbero potuti citare, presenti e passati. Perciò Il potere del cane è un film che andrebbe visto e rivisto, nonché un libro da leggere e rileggere. Se, riprendendo Girard, i grandi scrittori sono coloro i quali, come Stendhal, Flaubert, Proust, Dostoevskij, svelano le dinamiche del desiderio, riconoscendone i mediatori, allora Savage ha realizzato una vera e propria opera d’arte – e la Campion una trasposizione cinematografica che non è assolutamente da meno.
1) Thomas Savage, Il potere del cane, Beat
2) Ibidem
3) Ibidem
4) Ibidem
5) Ibidem
6) René Girard, Quando queste cose cominceranno, Bulzoni
7) Thomas Savage, op. cit.
8) Reneé Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi
9) Ibidem
10) Ibidem. Il capro espiatorio è qui indicato anche con il termine di ‘benefico’ in quanto, grazie al suo sacrificio, la comunità supera la crisi, sicché la vittima, dopo essere stata uccisa, subisce immancabilmente un processo di divinizzazione. Questo almeno era quanto avveniva in tempi antichi. Sempre in questo lavoro, infatti, Girard spiega come l’epoca moderna abbia cambiato notevolmente le carte in tavola a fronte di una sempre più spiccata ‘desacralizzazione’ dei rapporti umani: “Ciò che caratterizza essenzialmente i fenomeni religiosi è il doppio transfert, il transfert di aggressività dapprima e il transfert di riconciliazione poi. È il transfert di riconciliazione che sacralizza la vittima ed è il primo a scomparire, perché avviene evidentemente solo se il meccanismo opera ‘a fondo’. Rimaniamo capaci, insomma, di odiare le nostre vittime; non siamo più capaci di adorarle”
11) Fa eccezione la bella analisi di Eddie Bertozzi su www.spietati.it
12) La doppia numerazione del salmo dipende dal fatto che il numero 9 della versione greca dei LXX e della Vulgata latina, in lingua ebraica, compare diviso in due parti, 9 e 10
13) Thomas Savage, op. cit.