Rallentato per una decina d’anni, oggi registra un’inversione di tendenza: gli effetti sugli ecosistemi, l’ambiente e l’inquinamento, emblematico il Parco agricolo sud Milano e il nuovo polo logistico
Il consumo di suolo è uno dei problemi che più affligge il nostro Paese, con conseguenze su tutto l’ecosistema e sulle attività antropiche. Gli studi scientifici sul cambiamento climatico non pongono l’accento solamente sulla questione delle emissioni dovute all’utilizzo delle fonti fossili, ma anche sugli impatti negativi dovuti alla deforestazione e al consumo di suolo, ossia alla cementificazione, aspetti che incidono in modo determinante sulle emissioni. A livello italiano, la deforestazione non è di certo la prima causa della crisi climatica, ma è direttamente collegata a essa. L’ultimo rapporto Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2018”, segnala che “le funzioni produttive dei suoli sono inevitabilmente perse, così come la loro possibilità di assorbire CO2, di fornire supporto e sostentamento per la componente biotica dell’ecosistema, di garantire la biodiversità e, spesso, la fruizione sociale.
L’impermeabilizzazione deve essere, per tali ragioni, intesa come un costo ambientale, risultato di una diffusione indiscriminata delle tipologie artificiali di uso del suolo che porta al degrado delle funzioni ecosistemiche e all’alterazione dell’equilibrio ecologico”. Una nota del 2016 della Commissione Ue “chiarisce che l’azzeramento del consumo di suolo netto, obiettivo che l’Unione europea ci chiede di raggiungere entro il 2050, significa evitare l’impermeabilizzazione di aree agricole e di aree aperte e, per la componente residua non evitabile, compensarla attraverso la rinaturalizzazione di un’area di estensione uguale o superiore, che possa essere in grado di tornare a fornire i servizi ecosistemici forniti da suoli naturali”. Sottolineature necessarie perché la cementificazione selvaggia è la causa principale del dissesto idrogeologico e della distruzione del ciclo dell’acqua.
La situazione italiana è ben fotografata dall’Ispra: “Il consumo di suolo nel 2017 continua a crescere in Italia e nell’ultimo anno le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 54 chilometri quadrati di territorio, ovvero, in media, circa 15 ettari al giorno. Una velocità di trasformazione di poco meno di 2 metri quadrati di suolo che, nell’ultimo periodo, sono stati irreversibilmente persi ogni secondo”. La nota preoccupante è la tendenza: “Sembrerebbe che il rallentamento della velocità del consumo di suolo, iniziato una decina di anni fa, sia nella fase terminale e che, in particolare in alcune Regioni, si assista a una prima inversione di tendenza con una progressiva artificializzazione del territorio che continua a coprire irreversibilmente aree naturali e agricole con asfalto e cemento, edifici e fabbricati, strade e altre infrastrutture, insediamenti commerciali, produttivi e di servizio, anche attraverso l’espansione di aree urbane, spesso a bassa densità”.
A livello nazionale, la copertura artificiale del suolo è passata dal 2,7% stimato per gli anni ’50 al 7,65% del 2017, con un incremento di 4,95 punti percentuali, una crescita maggiore del 180% e un ulteriore 0,23% nel 2017. “In termini assoluti” continua il rapporto Ispra, “il consumo di suolo ha intaccato ormai 23.063 chilometri quadrati del nostro territorio”. Le aree più interessate sono quelle del settentrione, dell’asse toscano tra Pisa e Firenze, del Salento, della Campania e del Lazio, e il maggiore consumo di suolo avviene nelle zone metropolitane e in quelle costiere. In 15 regioni viene superato il 5% (vedi Figura 1).
La Lombardia detiene il primato, superando i 310 mila ettari, e da sola incide per il 13,4% delle aree artificiali italiane; a ruota la segue il Veneto. “La ripresa del consumo di suolo nel Nord-Est e in altre regioni del Nord Italia” sottolinea l’Ispra “può essere messa facilmente in relazione con la ripresa economica che si avverte in queste aree del Paese: nel 2016, a fronte di una crescita a livello nazionale dello 0,9% rispetto all’anno precedente, il Pil in volume ha registrato un incremento di 1,3% nel Nord-Est, dello 0,9% nel Nord-Ovest e dello 0,8% sia al Centro che nel Mezzogiorno. La crescita economica registrata nel 2016 dal Nord-Est è trainata dalla Provincia Autonoma di Bolzano (+2,2%), a cui effettivamente corrisponde l’incremento percentuale maggiore del consumo di suolo in Italia tra tutte le Regioni e le Province Autonome.
Al Nord-Ovest la Lombardia segna un progresso del Pil dell’1,2%, e solo la Liguria registra una diminuzione (-0,4%). Questa è anche la regione italiana con l’incremento percentuale minore del suolo artificiale (+0,05%)”. Il problema è la mancanza di interventi strutturali, co-me denunciano da tempo i vari comitati e associazioni che si battono su questo fronte. Un punto evidenziato anche dall’Ispra: “I dati sembrano confermare la mancanza del disaccoppiamento tra la crescita economica e la trasformazione del suolo naturale, in assenza di interventi strutturali e di un quadro di indirizzo omogeneo a livello nazionale”.
Inoltre, “l’effetto del consumo di suolo non riguarda soltanto le superfici direttamente interessate dalla copertura artificiale, ma anche le aree a esse limitrofe. Occorre considerare, infatti, non solo gli effetti diretti che il consumo di suolo ha sugli ecosistemi, ma anche quelli indiretti, che influiscono su alcuni servizi ecosistemici importanti, come la regolazione climatica o idrologica […] La perdita di stock più elevata è quella della produzione agricola che rappresenta circa l’80% del totale. Questa analisi conferma come il consumo di suolo avviene a discapito delle principali funzioni e risorse ovvero della produzione di beni e materie prime (che, in questo caso, assolvono bisogni primari come acqua e cibo), regolazione dei cicli naturali (in particolare quello idrologico) e assorbimento degli scarti della produzione umana (in questo caso la CO2 derivante dai processi produttivi)”.
Sud milanese: il polo logistico
In Lombardia, la provincia di Monza e Brianza detiene il primato nazionale, con il 41% del proprio territorio con suolo artificiale, mentre Milano registra il 32%. La situazione non è migliorata negli ultimi anni, nonostante le leggi regionali come la 31/2014 che ha introdotto nuove disposizioni mirate sia a limitare il consumo di suolo che a favorire la rigenerazione delle aree già urbanizzate. Per concretizzare il traguardo previsto dalla Commissione europea di giungere entro il 2050 a occupazione netta di terreno pari a zero, la 31/2014 si era prefissata di orientare gli ambiti di trasformazione urbanistico-edilizie non più verso le aree libere, ma operando sulle aree già urbanizzate, degradate o dismesse, da riqualificare o rigenerare. Ma la realtà sta andando in un’altra direzione, come mostra la situazione del Parco agricolo sud Milano, polmone verde della città metropolitana, oggetto continuo di distruzione e saccheggio; un’area di importanza vitale, tanto più in previsione del cambiamento climatico.
Fin dagli anni passati, il sud milanese è stato territorio privilegiato per l’insediamento di aziende logistiche per il trasporto merci, fino a farlo diventare uno dei poli più grandi d’Italia. Gli investimenti effettuati hanno portato a costruzioni per un terreno occupato pari a 650 mila metri quadrati, e nuovi progetti potrebbero realizzare un incremento di un ulteriore mezzo milione di metri quadri. A Lacchiarella è in discussione un procedimento amministrativo per la costruzione di una logistica di 220 mila metri quadri, che dovrebbe diventare il polo Carrefour, secondo solamente a quello già presente in Francia; mentre nei terreni adiacenti al centro commerciale Il Girasole, di antica memoria berlusconiana, si vogliono sbloccare ulteriori aree per attività produttive: la Zust Ambrosetti, leader della logistica italiana ed europea, ha presentato un progetto per 300 mila metri quadri.
Numeri importanti per il consumo di suolo ma anche per altri aspetti: elementi naturalistici, traffico e inquinamento.
Ecosistemi: il Parco agricolo
L’Oasi di Lacchiarella è uno degli undici Sic (Siti di importanza comunitaria) della provincia milanese, un sito naturalistico che riveste un’importanza strategica per la biodiversità in un territorio, come quello lombardo, fortemente distrutto dalle attività antropiche. Vi si trovano diverse specie protette, sia vegetali che animali. La logistica Carrefour sarebbe costruita a meno di un chilometro dall’oasi, con probabili effetti devastanti: la cementificazione altererebbe il ciclo dell’acqua, e le conseguenze dell’inquinamento atmosferico, luminoso e sonoro non so-no immaginabili. Eppure, il progetto non contiene una sola una riga che valuti gli effetti sul sito naturalistico. Effetti, oltretutto, che rischiano di non essere limitati all’Oasi di Lacchiarella ma di estendersi ai corridoi ecologici, comunali, provinciali e regionali, fondamentali per la biodiversità.
Scrive l’Ispra: “Una delle definizioni maggiormente diffuse considera la rete ecologica come un sistema interconnesso di habitat, di cui salvaguardare la biodiversità, ponendo quindi attenzione alle specie animali e vegetali potenzialmente minacciate. Lavorare sulla rete ecologica significa creare e/o rafforzare un sistema di collegamento e di interscambio tra aree ed elementi naturali isolati, andando così a contrastare la frammentazione e i suoi effetti negativi sulla biodiversità. La rete ecologica è costituita da quattro elementi fondamentali interconnessi tra loro: 1. Aree centrali (core areas): aree ad alta naturalità che sono già, o possono essere, soggette a regime di protezione (parchi o riserve); 2. fasce di protezione (buffer zones): zone cuscinetto, o zone di transizione, collocate attorno alle aree ad alta naturalità al fine di garantire l’indispensabile gradualità degli habitat; 3. fasce di connessione (corridoi ecologici): strutture lineari e continue del paesaggio, di varie forme e dimensioni, che connettono tra di loro le aree ad alta naturalità e rappresentano l’elemento chiave delle reti ecologiche poiché consentono la mobilità delle specie e l’interscambio genetico, fenomeno indispensabile al mantenimento della biodiversità; 4. aree puntiformi o ‘sparse’ (stepping zones): aree di piccola superficie che, per la loro posizione strategica o per la loro composizione, rappresentano elementi importanti del paesaggio per sostenere specie in transito su un territorio oppure ospitare particolari microambienti in situazioni di habitat critici (es. piccoli stagni in aree agricole)”.
La nuova logistica Carrefour si situa nel mezzo del corridoio ecologico comunale e intaccherebbe anche quello provinciale, identificato negli strumenti urbanistici della Provincia, e andrebbe a toccare anche il ganglio primario identificato dalla stessa Provincia (“I gangli primari sono quelle unità naturali in grado di costituire, per dimensioni e articolazione interna, caposaldo ecosistemico in grado di autosostenersi. Essi cioè devono essere in grado di fornire un habitat, sufficiente al mantenimento di popolazioni stabili delle specie di interesse, e permettere una differenziazione degli habitat interni così da migliorare le condizioni ai fini della biodiversità”). Sotto il profilo urbanistico, quindi, è incompatibile costruire dove sono presenti corridoi e gangli. Eppure il progetto sta andando avanti.
Inquinamento: trasporto su gomma
Dal punto di vista del traffico, per il solo progetto Carrefour sono previsti 1.200 camion giornalieri in transito, e con l’eventuale logistica della Zust Ambrosetti aumenterebbero ancora. Una situazione che andrebbe ad aggiungersi a una realtà già problematica: nella zona sud di Milano già si registra infatti il 25% del traffico totale. L’aumento dei mezzi si verificherebbe sull’unica arteria meridionale, la Strada Provinciale 40, provocando un incremento del 20-25% rispetto al traffico attuale. Per tale ragione, sia forze politiche locali che gli stessi progettisti Carrefour hanno proposto la creazione della nuova Tangenziale Toem oppure un raddoppio in sede della SP40. In parole povere una mini tangenziale. Un cane che si morde la coda: per evitare il traffico indotto dalle nuove logistiche si progettano nuove strade a doppia corsia.
Più strade vogliono dire più polveri sottili nell’aria, quindi più inquinamento. L’Italia ha già aperte due infrazioni europee in merito, e il 7 marzo scorso la Commissione Ue ha deferito il nostro Paese alla Corte di Giustizia europea per la violazione dei limiti annuali e orari di biossido di azoto.
Non può esserci via d’uscita a questa situazione se non si apre una discussione sul trasporto merci in Italia e su che cosa bisognerebbe fare nella lotta al cambiamento climatico, su cui il traffico su gomma incide in modo sostanziale.
Nel rapporto Ispra sui trasporti del 2016, si legge: “Nel 2014, in Italia, i trasporti sono responsabili del 25% delle emissioni totali di gas serra” (vedi Tabella 2); “Il 63,3% delle emissioni di anidride carbonica del settore si produce nell’ambito del trasporto passeggeri; la quota dovuta al trasporto stradale, di passeggeri e di merci, è pari al 93,7%”, ed è importante sottolineare che le merci incidono per il 35,9%, una quota pesante (vedi Tabella 3). Inoltre, “i trasporti contribuiscono per circa il 19% al PM2,5, primario+secondario complessivo di origine antropogenica, mentre le emissioni di ossidi di azoto sono diminuite del 53% circa ma sono tuttora rilevanti in valore assoluto e il settore dei trasporti è la fonte principale (60,5%) di questo importante inquinante” (vedi Tabella 4).
Il problema è che anni di privatizzazioni e dismissioni del sistema ferroviario hanno portato al collasso il trasporto pubblico italiano. Milioni di lavoratori pendolari vivono ogni giorno un’odissea fatta di ritardi, sovraffollamento, sporcizia e disagi. Una situazione di crisi che ha portato all’incremento vertiginoso dell’utilizzo delle auto private come mezzo di spostamento.
Secondo il Rapporto 2019 “Mal d’aria” di Legambiente, l’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto tasso di motorizzazione. I capoluoghi italiani registrano 63 auto ogni 100 abitanti, un dato elevato se confrontato a quello di alcune capitali europee: a Parigi sono 36, come a Londra e a Berlino, a Barcellona 41, a Stoccolma e Vienna 38. “Nel nostro Paese, segnala ASSTRA, l’associazione di categoria delle imprese di trasporto pubblico locale” continua Legambiente, “la rete ferroviaria suburbana e metropolitana dispone di 41 linee ferroviarie contro le 81 della Germania e le 68 del Regno Unito. Le linee di metropolitana sono invece 14, contro le 44 della Germania, le 30 spagnole e le 27 francesi. E così sono i bus il principale mezzo di trasporto collettivo: in Italia assorbono una quota di traffico del 64%, più che doppia rispetto a quella tedesca e inglese, dove invece la mobilità nelle aree metropolitane è garantita prioritariamente dal ferro”.
In Italia si contano in tutto 240 chilometri di metropolitane, estensione paragonabile a quella di singole città europee come Parigi (221); il Regno Unito conta 672 km (di cui 464 a Londra), la Germania 648 (147 a Berlino), la Spagna 609 (291 a Madrid). “Il confronto dei dati nel periodo 2011-2016 mostra come il numero di passeggeri annui sia diminuito costantemente con una riduzione di circa l’11% rispetto al 2011, ovvero si è registrato un calo di 434,5 milioni di passeggeri all’anno che non hanno voluto usufruire più del trasporto pubblico”.
Invece di finanziarie opere inutili come la Tav o nuove autostrade, servirebbe un piano generale di investimenti per il trasporto pubblico su rotaia, passeggeri e merci, e quest’ultimo dovrebbe andare di pari passo con il potenziamento e il recupero degli scali ferroviari, per garantire l’intermodalità tra rotaia e mezzi leggeri ed ecologici.
In questo modo si potrebbe ridurre sensibilmente l’inquinamento e puntare al calo di gas climalteranti, con impatti positivi anche da un punto di vista sociale. Uno studio della Società italiana di medicina ambientale (Sima), che sta coordinando un numero speciale sul tema dell’inquinamento atmosferico per la rivista International Journal of Environmental Research and Public Health, evidenzia come il trasporto merci su gomma causi in Italia, annualmente, fino a 12 mila anni di vita persi, e abbia una ricaduta economica che supera il miliardo di euro. Eppure, anche quanto sta accadendo al Parco agricolo sud Milano, nonostante la mobilitazione dei cittadini per cambiare il progetto, mostra che non c’è ancora alcuna intenzione di prendere un’altra direzione.