Un consumo e un immaginario che non possono essere sovratemporali
"Non è morto ciò che può attendere in eterno, e col volgere di strani eoni anche la morte può morire." Howard P. Lovecraft
La droga è sempre esistita, in quanto intrinsecamente intessuta nella storia spirituale dell’umanità. Il consumo di sostanze oggi medicalmente definite come psicoattive (siano esse sedattivo-euforizzanti, psicostimolanti oppure allucinogene), già da millenni addietro, si è incastrato nelle lunghe trame magico-religiose di intere popolazioni, almeno per quel di cui si ha notizia, ritualizzandone l’uso e mitizzandone il ruolo. Tale constatazione, la quale non si è mai posta come atto di giustificazione all’uso e al ruolo che invece riveste modernamente la droga, si muove attorno a quel dato di fatto per cui l’oggetto dell’analisi, ovvero il suo consumo e l’immaginario attorno allo stesso e non la sostanza o la sua origine materiale in sé, non può essere né sovratemporale (dunque eternamente astorico e in quanto tale onnipresente nelle stesse vesti) né, appunto, un fondamento formalmente e strutturalmente preciso e puntuale della vita sociale di ogni epoca e neanche una invariabile antropologica.
Certo, alcune logiche rispetto al consumo di sostanze negli ultimi due secoli, pur mutando innegabilmente vesti, si sono spesso ripetute in maniera piuttosto similare, o quasi. Ma più che di ripetizione, similare o identica che fosse, e quindi di copione recitato piuttosto fedelmente, si può parlare di linearità, intesa come continuità storica dettata semplicemente dal fatto per cui certi modelli economico-sociali (riferendosi agli ultimi due secoli si fa quindi riferimento a quelli capitalistici), tendenzialmente, non sono mai stati superati o rovesciati e, fino a che sarà così le vesti di una cosa al suo interno, in questo caso la droga in quanto merce e il suo ruolo sociale, difficilmente cambieranno.
Come ogni cosa anche la droga e i modus di approccio a essa contingenti, hanno un inizio, uno sviluppo, una modificazione, un declino, una ripresa, una fine, insomma una storia contigua al grado di civilizzazione corrente, che, in quanto tale, non sempre può presentarsi di epoca in epoca né con le stesse caratteristiche né con le stesse finalità, di fondo o di superficie che siano. Ho già analizzato e criticato ciò che la droga e il suo consumo sono e rappresentano oggi (1), delineando le motivazioni per cui essa è giunta ad assumere l’ambiguo e multiforme ruolo di merce spettacolarizzata rivestendolo coerentemente, in tutto e per tutto, nell’immaginario presente, e dunque non rispenderò le stesse parole se non per alcune dovute ricorrenze e, ovviamente, per le volute conclusioni. Certo, è ampiamente condivisibile che trattare la storia della droga sia un compito arduo per un articolo, vista soprattutto la mole dell’argomento, ma si comprenderanno meglio le ricorrenti sintesi (rimandando esclusivamente all’oppio, alla canapa, alla coca, ai loro derivati semisintetici e a qualche altra sostanza fugacemente citata) dal momento in cui la finalità della presente ricerca non è propriamente la storia della droga quanto, bensì, la sua storicizzazione.
Oppio
Già a partire dai poemi omerici si narra degli effetti analgesici degli estratti del papaver somniferum della famiglia Papaveraceae, l’oppio (è anche interessante sapere che nella mitologia greca Morfeo, la divinità dei sogni, veniva rappresentato con in mano un mazzo di fiori di papavero con cui sfiorava le palpebre dei dormienti, così come allo stesso modo si possono incontrare citazioni sull’oppio anche in Erodoto, Aristotele e Ippocrate [2]), sia nell’Iliade, in cui “di frequente” si fa riferimento all’uso “di unguenti” composti “a base di succo di papavero” (3), che nell’Odissea con la preparazione di Elena, nella visita di Telemaco a Menelao (i quali, durante il banchetto celebrativo, caddero nel malinconico ricordo della guerra e dell’assedio di Troia), del nepenthes, “una bevanda che procura l’oblio dell’infelicità e del dolore” e “sotto il suo effetto nessuno poteva più versare una lacrima” (4). Omero ci fa sapere che Elena, figlia di Zeus, ebbe in dono la bevanda mentre si trovava in Egitto.
Ciò presuppone un valido fondamento storico, a partire da un papiro scoperto da Georg-Moritz Ebers nel 1872 ai piedi di una statua di Anubis, a Luxor, risalente al II millennio e contenente un lungo ricettacolo di farmaci, tra le cui inscrizioni si menziona, tra le tante piante, anche quella che è stata individuata nell’oppio (5), rendendoci così consapevoli dell’ampio uso medico che ne veniva fatto nell’antichità egizia. Nel medesimo modo la stessa pianta viene menzionata anche su tavolette sumeriche risalenti al III millennio, oltre che essere presente nel bassorilievo del re assiro Tiglat-Peleser II, della dinastia Téglath-phalazar, in cui la sua figura, ornata appunto da papavero e fiori di loto, è china, assieme a un sacerdote, su un uomo addormentato (6), facendoci così intendere la sua diffusione nella regione posta tra il Tigri e l’Eufrate già cinquemila anni fa.
La sua storia moderna è sicuramente quella delineata dai due conflitti, rispettivamente tra il 1839-1842 e il 1856-1860, vedendo contrapporsi la Gran Bretagna e l’Impero cinese sotto la dinastia Qing, a seguito dei divieti sulla circolazione, la vendita e il consumo di oppio che si scontravano irrimediabilmente contro gli interessi mercantili e commerciali della Compagnia britannica delle Indie orientali. Quest’ultima, eludendo le severe regolamentazioni imposte dalla corte di Pechino, importava e immetteva l’oppio in territorio cinese a prezzi bassissimi direttamente dalle grandi coltivazioni di papavero nel Bengala, nel Subcontinente indiano. A cavallo fra gli ultimi anni del Settecento e i primi anni dell’Ottocento le esportazioni “passarono da 2.800 quintali a 28.000 quintali, il numero dei tossicomani a 10 milioni” (7). Inginocchiato militarmente al Regno Unito in entrambe le occasioni, l’Impero cinese fu costretto a tollerarne il commercio concedendo agli inglesi tutti i diritti e le libertà nella gestione mercantile del traffico (8), e “in pochi anni, il complesso delle esportazioni passa a 126.000 quintali; il numero dei tossicomani a 120 milioni” (9).
Le ultime tappe dell’oppio da un punto di vista significativo ed esplicativo rispetto alla sua propria storia moderna, sono pressappoco due, in un caso diretta e nel secondo caso indiretta: la prima è quella immessa dal farmacista tedesco F.W. Adam Sertürner nel 1803 con il primo principio attivo estratto e isolato da una fonte vegetale, appunto dall’oppio, a cui darà il nome di morfina (quasi in continuità storica col dio Morfeo), il principale e più abbondante alcaloide contenuto nella pianta. Commercializzato poi sia come analgesico che, in un primo momento, come trattamento disintossicante dall’abuso di alcool e dallo stesso oppio, non passò molto prima di cadere sotto i colpi impropri dell’assuefazione e dell’intossicazione: “Alla fine della guerra di secessione, 45.000 soldati erano diventati tossicomani: la morfinomania venne soprannominata ‘la malattia del soldato’” (10).
La seconda, infine, è quella che il chimico tedesco Felix Hoffman, presso il laboratorio della Bayer (la diffusione moderna delle droghe va a braccetto con la storia moderna della farmacologia), fece attraverso la stessa morfina. Dopo aver realizzato l’acetilazione – una reazione chimica in cui viene legato un gruppo acetile a una molecola – dell’acido salicilico e aver ottenuto così l’aspirina, a oggi l’analgesico più famoso al mondo e già dall’epoca presentato come “adatto a far sparire tutti i dolori del consumatore di tipo moderato: mal di testa, mal di denti, reumatismi, artriti” (11), fece altrettanto con la morfina adoperando lo stesso processo e ottenendo così quella che, nel 1898, sarebbe passata alla storia col nome commerciale di heroisch, eroina, venendo “smerciata nelle farmacie (senza ricetta e a livello di massa, come oggi l’aspirina) anche come ‘antidoto’ alla morfina: gli intossicati di morfina avrebbero visto rapidamente sparire tutti i sintomi dolorosi derivati dall’interruzione della somministrazione della droga, se avessero fatto uso di eroina” (12), eppure sin da subito si è palesata la limitatezza di questa prospettiva, pur trovando l’eroina un altro ampio spettro di diffusione e quindi di successo.
Con la “Prima Convenzione internazionale dell’oppio”, del 1912, all’Aja, si discutono le prime tappe del moderno proibizionismo. “La Convenzione si era limitata a stabilire una serie di criteri per il controllo internazionale della produzione dell’oppio. Ma le leggi dei singoli Paesi furono formate in modo da riflettere problemi interni, ideologici e sociali” (13), tra repressione e dispiegamento legislativo, concretizzando così una mercificazione della droga, in verità come abbiamo già visto iniziata diverso tempo prima, secondo i caratteri culturali e sociali delle società organizzata sotto un’economia di stampo capitalistico.
Canapa
Lo stesso percorso a ritroso andrebbe fatto anche per la canapa indiana, per la precisione la cannabis indica, ovvero quella pianta urticacea dioica – termine che indica l’esistenza distinta tra piante femminili e piante maschili – il cui utilizzo e la cui preparazione hanno una storia millenaria. La pianta era conosciuta in Cina già attorno al 3000 a.C. e, da quel che si può intuire da un antico libro di medicina cinese, il Nei-Ching, l’utilizzo e la finalità erano sicuramente a scopi esclusivamente terapeutici (14), ma il suo uso, così come emerge da alcune tavolette assire del VII o VIII secolo a.C., era noto anche alle popolazioni mesopotamiche in quanto vi si menziona la canapa designandola come Qunubu o Qunnabu, comunque molto simile e affine al nome greco (15). Intorno al 2000-1500 a.C. la canapa era nota anche in India, così come risulta dalla lettura dei Veda o di altri antichi testi epici dell’epoca, facendoci capire come il suo consumo, a differenza che in Cina, era da un lato mistico e dall’altro meramente ricreazionale (16). Si può constatare che essa era presente anche nel nord Europa già a partire dal V secolo a.C. così come dimostrano le scoperte archeologiche del tedesco Hermann-Buss, negli scavi in una tomba a Nicherdorf in Germania verso la fine dell’Ottocento; è anche vero che ogni sfaccettatura del suo consumo occidentale, sia esso farmacologico-mistico o ricreativo, si perdono in tutta l’epoca che si muove fluidamente dal periodo greco-romano a quello proto-cristiano, nonostante sia noto che la pianta circolasse tra queste popolazioni e per tutto quell’arco di tempo, seppur come tessile (17).
Il continente europeo rincontrò la canapa e gli effetti del suo uso dal ritorno dei Crociati dalla Palestina, dalla Terra Santa, “attraverso le testimonianze dell’abate Arnoldo da Lubecca e di Marco Polo e dell’arcivescovo Guglielmo di Tiro, cancelliere di Gerusalemme” (18) ma il suo uso rimase spesso limitato al solo ambito dell’utilizzo stregonico e infatti “nel Cinquecento essa fa parte delle componenti delle ricette magiche delle streghe” (19). Fa la sua ricomparsi in Europa “introdotta dai soldati di Napoleone reduci dalla campagna d’Egitto” (20) ed è proprio nell’Ottocento che il suo consumo diviene di moda in Francia, sulla scia dello psichiatra e tossicologo J.J. Moreau de Tours il quale, sperimentando su se stesso gli effetti della sostanza, ne descriveva l’esperienza in un trattato, dall’ampio successo negli ambienti letterari, intitolato Du Hachisch Et de L’Alienation Mentale. Tanto che, poco dopo, lo scrittore e poeta Théophile Gautier fondava quello che sarebbe passato alla storia con il nome di Club des Haschischins, i cui membri si riunivano frequentemente in una stanza dell’Hotel Pimodan per assumere la droga e qui cadere nell’esperienza degli stati di estasi, transe, dissociazione e allucinazione, salotto a cui partecipava inizialmente entusiasta persino un nome noto come il poeta Charles Baudelaire (tra gli altri, seppur occasionalmente, vi presenziavano anche Gustave Flaubert e Honoré de Balzac), poi rinomato autore del saggio Les Paradis artificiels (21), uno scritto sul consumo di hashish e oppio, stampato nel 1860 dall’editore Pulet-Malassais, pur comprendendo al suo interno una sezione che aveva già visto pubblicazione nel 1851 tra le pagine del Messager de l’Assemblée. Questa esperienza, che pur si concluse attorno al 1849, dopo anni travagliati e cambi d’opinione, impressionerà e influirà poi su gran parte di tutti gli ambienti artistici e culturali dell’epoca, in Francia e non solo, divenendo infine un influente e centrale punto di riferimento anche per l’immaginario di molte correnti successive.
Coca
L’uso delle foglie della Erytroxylon coca, di cui ne esistono tre varianti (Erytroxylon Bolivarium Burk, o coca boliviana, Novogranatense Burk o coca di Trujillo e Sproceanum Burk o coca del Perù) e la cui masticazione permette notoriamente di vincere e sedare la fame e la sete, ha una storia millenaria nelle popolazioni ubicate nelle zone settentrionali del Sudamerica. Attraverso importanti ricerche etnologiche, si fa risalire il suo consumo a 2500 anni a.C., seppur si supponga la probabilità per cui il suo utilizzo si praticasse in tempi ben più remoti. “Anche se gli Incas non furono i primi a usare la coca, tuttavia sono responsabili dell’espansione e della regolamentazione dell’uso in tutta l’America del Sud” (22). L’uso della coca era diffuso, tra le tanti popolazioni presenti, tra gli Yunga e i Chibca, e gli Incas, nella loro avanzata espansionistica e conquistatrice dal Perù a tutta la cordigliera delle Ande, ne assimilarono il consumo iniziandone la coltivazione seppur limitata, regolamentata e disciplinata ai Tupac, alla famiglia reale e ai sacerdoti. Le prime notizie furono riportate nel continente occidentale dal gesuita Thomas Ortiz lungo l’anno 1499.
Successivamente, Pedro de Cierza de León, dopo una lunga permanenza in Perù tra il 1532 e il 1550, trattò nel dettaglio delle foglie di coca (23), affiancato in altre descrizioni sommarie da Francisco de Xeres, segretario di Francisco Pizzaro nel 1533 (24). Il primo a riportare una descrizione del loro utilizzo e della loro masticazione sarà Nicolas Mondares, un medico di Siviglia, pubblicando nel 1569 un campionario di botanica esplorativa, seppur tratti delle foglie di coca confondendole con un tipo di tabacco. Nonostante l’errore nella sua definizione, ne riconobbe le molte virtù, definendola “herba di grande stima”, e senza tessere a lungo le sue descrizioni solo su carta, portò gelosamente con sé alcune foglie per poterle far gustare ai dignitari di corte (25). Verso la metà del XVI secolo il Secondo Concilio di Lima condanna senza mezzi termini la pianta tentando di estirparne l’uso in netta espansione, sotto pena di scomunica, considerandola “cosa inutile e tale da favorire le pratiche e le superstizioni degli indiani” (26), oltre che alla base di “culti idolatri, portatrice di illusioni demoniache” (27). La stessa presa di posizione arriverà anche dal re di Spagna che in un decreto del 18 ottobre del 1569 ne sottolineava il divieto definendo “la pianta […] idolatria e opera del diavolo, e sembra che dia forza solo per un inganno del Maligno” (28). Nonostante gli ammonimenti e le intimidazioni, i conquistadores spagnoli caddero anch’essi nella sua assidua masticazione, così come riferito dallo scrittore peruviano Garcilaso de la Vega, il quale scrisse: “Gli spagnoli per lungo tempo non vollero masticarne, poiché avevano in orrore tutte le usanze degli indiani; ma infine vi si sono abituati e ci prendono gusto” (29).
Profanata la pianta sacra – o meglio sacralizzata la pianta in altro senso – la sua commercializzazione e quindi immaginazione in vesti mercificate non avrebbe tardato a palesarsi; ma se il tabacco trovò rapido successo in Europa già dal primo viaggio di Colombo, la pianta di coca dovrà attendere almeno sino al 1749 prima di essere considerevolmente trasportata di continente in continente (30), seppur il vero successo nella sua propria forma moderna lo incontrerà in un secondo momento, e per la precisione sotto il nome di cocaina, ovvero l’alcaloide attivo delle foglie di coca. Nonostante i precedenti lavori in laboratorio nel 1855, intrapresi da Godaeke e Wachenröder i quali isolarono per la prima volta il principio attivo delle foglie di coca, le prime investigazioni precise sulla sostanza furono condotte quattro anni dopo dal chimico Albert Niemann e, infine, nel 1862 il chimico Wilhelm Lossen ne stabilì la formula C17 H12 NO4, delineandone così il composto (31).
Ora, qui non tratteremo i vari passaggi della metodologia per la sua estrazione e il suo ottenimento, così come non ci soffermeremo troppo a lungo né sugli entusiasmi di Sigmund Freud, il quale attribuiva al consumo di cocaina la capacità di disintossicare dalla morfinomania, né di Karl Koller, il quale pensò a una applicazione anestetica oculare di superficie della cocaina; questo perché il primo sarà smentito dal fallimento dell’ipotetica terapia su un suo amico, Fleisch, il quale, dedito al consumo di morfina, se ne disintossicò attraverso il trattamento cocainofilo di Freud per diventarne poi un intossicato cronico e morire così dopo sei anni di dolori; il secondo, che pur spalancò il suo utilizzo in campo medico e chirurgico, tra molte intemperie e scandali, dovette affrontare il mondo scientifico il quale, dopo un primo entusiasmo, negli anni se ne inquietò non potendo più celare i suoi secondari effetti nocivi (32).
Se questo è stato il suo passaggio moderno, si può ubicare la sua avventura neomoderna a partire dal 1906, anno in cui la legge Pure Food and Drugs Act negli Stati Uniti, metteva fine alla carriera legale della cocaina, classificazione che sarà poi ripresa da tutte le norme giuridiche occidentali (33). Il suo ruolo attuale è di una complessità tale che meriterà una analisi in altra sede, dato che la sua ormai innegabile diffusione onnipresente a tutte le stratificazioni sociali (seppur in differenti qualità) è un richiamo alla sua compatibilità con un mondo dedito alla pretesa della prestazione.
Dal sacro al sacrificio
La droga più antica in assoluto, o almeno la più antica di cui si abbia notizia, è il soma, una “bevanda sacra cui sono dedicati molti inni del Rig-Veda […] il primo dei quattro libri sacri dell’induismo antico” (34). Ma, se si vuole guardare attraverso la filigrana del misticismo, seppur tutte le droghe nella loro storia hanno inizialmente rivestito questa caratteristica, credo che lo sguardo più attento lo si dovrebbe indirizzare sul peyote, o peyotl (Anhalonium Lewinii o Lophophora Williamsi), un piccolo cactus che cresce tra il Messico e in alcune zone del Texas, con la radice a forma di carota e la pianta a sporgere in una cima fiorita; sono proprio questi ultimi a essere utilizzati come agente allucinogeno (35).
Il peyote smuove e riveste ancora oggi – all’interno del ricorrente immaginario di molti consumatori di droghe, soprattutto allucinogene, nell’esigenza costante di una teorizzazione del loro stesso consumo – quel ruolo evocativo di un ipotetico utilizzo mistico, sacro e spirituale di una qualsiasi sostanza, in linea col significato originale della stessa, del suo uso in determinati contesti storici e, soprattutto, tra determinate popolazioni. Io credo che il consumatore nostrano debba altresì mettersi l’animo in pace rispetto a questo suo desiderio di rivestire il proprio consumo di sostanze in due direzioni: da una parte in fantomatici ruoli rituali e dall’altra in ipotetiche vesti pseudo-sciamaniche. Seppur questa ricerca porti spesso a galla il disagio, o meglio i dubbi, dello stesso consumatore rispetto a un prodotto consumato secondo logiche di mercificazione e aggregazione, dunque di mercato, dalla quale vorrebbe liberarsi, dimentica che una sua possibile realizzazione in altre vesti è impossibile: non esiste un consumo-al-di-fuori, non totalmente, e la sua stessa esigenza di immaginarne usi sciamanici è dettata sempre dai dettami e dal ruolo spettacolare che la droga riveste nel nostro contesto capitalistico.
Certamente da un lato esistono gli effetti di una sostanza, ed essi giocano un ruolo fondante, ma dall’altro esistono i rapporti con la stessa ed essi sono mediati dal contesto sociale e dal suo grado di civilizzazione. Il consumatore è un individuo specifico che nei suoi aspetti culturali, sociali, psicologici e soprattutto storici, è assolutamente determinato dal suo contesto, oggi globale; per esempio, dall’alcol dal passato dionisiaco nei culti cerimoniali e rituali, all’alcol come sfogo autodistruttivo per l’operaio descritto da Engels (36), il cui nichilismo risente dei culti, delle cerimonie e dei rituali della socialità nella società capitalistica, per cui non è né estraneo né incoerente. Il ruolo della droga – che è quello che dà forma al consumatore come individuo sul cui corpo trovano scontro diversi poteri – è quello che riveste nell’immaginario della nostra realtà di dipendenze e di consumi e fino a che non se ne farà un’analisi seria, non se ne coglierà mai l’essenza.
Insomma, la droga, come già precisato in apertura, non è astorica, è stata – come tutto in rapporto all’uomo – parte di tutti i suoi passaggi storici e, in ognuno di questi atti, si è caricata di feticci, immagini e ideologie che non la possono di certo rendere neutrale. Oggi la sua sacralità si è sacrificata sull’altare della legge, con sciamani e sacerdoti sostituiti dai rituali delle istituzioni e da tutte le fitte nervature del Potere, tra educazione e disciplina, così come la droga stessa, l’oggetto del culto, si è sottomessa allo status di merce e delle sue logiche, in una semplificazione del suo spettro alla sola battaglia tra tifoserie della legalizzazione, liberalizzazione, depenalizzazione o proibizione in una monotona e stagnante ripetitività dei rapporti di produzione, riproduzione e consumo esistenti. Chi vuole cercare un’altra via può pensare, per esempio, di recarsi in Messico alla ricerca di un consumo ‘puro’ del peyote, ma così facendo non sta rivestendo niente di retroattivo se non il ruolo di turista dello sballo, e, così come ci insegna Debord, “sottoprodotto della circolazione delle merci, la circolazione umana considerata come consumo, il turismo, si riduce fondamentalmente alla facoltà di andare a vedere ciò che è divenuto banale” (37), molto banale.
Tempo fa suggerivo l’esercizio della demitizzazione della droga, partendo da una istanza individuale ma in prospettiva collettiva, eppure il rischio di questa via, lo ammetto, è che essa rimanga dialogica e discorsiva, insomma idealista, seppur la ricerca di una certa coscienza e di una certa consapevolezza già a partire dal linguaggio potrebbe condurre a quella totale messa in discussione dello stesso esistente che fabbrica la droga così come la si conosce. Insomma, disintossicarsi dalle strutture e soprastrutture dell’esistente prima ancora che dalla droga in sé.
Ma arrivati a un certo grado si dovrà pur cogliere che essa, la droga, non può ristabilirsi in antichi consumi e, fuori dal sistema capitalistico (dato che anche esso è storico e, in quanto tale, avrà una fine), non riprenderà quelle vecchie usanze; semplicemente ne avrà di altre. A ora, dall’alto del corrente contesto storico, il ruolo della droga è delineato a mediatore di rapporti sociali e quando si riescono a cogliere, in qualsiasi modo e consapevolmente, tutti i suoi limiti contraddittori, ebbene se ne sta al di fuori, in questo caso non consumandola. Ecco, questo lo si può fare.
1) Cfr. Afshin Kaveh, Fare di tutta l’erba un fascio. La spettacolarizzazione della droga, Sensibili alle Foglie, Roma, 2017 e Afshin Kaveh, La droga e la sua spettacolarizzazione, Paginauno n. 65/2019
2) E. Guidetti, “Il papavero ossia la felicità”, in: AA.VV., I paradisi della droga, SEI, Torino, 1968, p. 50
3) E. Malizia, Le droghe, Newton Compton, Roma, 1994, p. 22
4) A. Berera, G. Gatto, Il paradiso delle droghe, Dellavalle, Torino, 1971, p. 20
5) Ivi, cit. p. 26
6) E. Malizia, op. cit., p. 22
7) G. Blumir, Eroina, Feltrinelli, Milano, 1976, cit. p. 12
8) Y. Zheng, Storia sociale dell’oppio, traduzione di C. Caneva, UTET, Milano, 2007; J.A.G. Roberts, Storia della Cina, Newton Compton, Roma, 2002
9) G. Blumir, op. cit., p. 12
10) Ivi, cit. p. 18
11) Ivi, cit. p. 27
12) Ivi, cit. p. 10
13) Ivi, cit. p. 30
14) E. Malizia, op. cit., p. 37
15) A. Berera, G. Gatto, op. cit., p. 40
16) E. Malizia, op. cit., p. 37-38
17) Ivi, cit. p. 38
18) Ivi, cit. p. 39
19) A. Berera, G. Gatto, op. cit., p. 4
20) E. Malizia, op. cit., p. 39
21) A. Berera, G. Gatto, op. cit., pp. 48-49
22) E. Malizia, op. cit., p. 44-45
23) D.S. Worthon, Coca e Cocaina. Dalla divina pianta degli Incas alla polvere bianca di Manhattan, Savelli, Perugia, 1980, p. 21
24) E. Malizia, op. cit., p. 46
25) D.S. Worthon, op. cit., p. 22
26) A. Berera, G. Gatto, op. cit., p. 30
27) D.S. Worthon, op. cit., p. 25
28) A. Berera, G. Gatto, op. cit., p. 30
29) Ivi, cit. pp. 31-32
30) D.S. Worthon, op. cit., p. 26
31) Ivi, cit.p. 61
32) Ivi, cit. pp. 66-76
33) Ivi, cit. p. 78
34) A. Berera, G. Gatto, op. cit., p. 14
35) Ivi, cit. pp. 80-81
36) F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma, 1978
37) G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 2013, § 168, p. 152