È domenica. Quando vivevo in città pensavo sempre al silenzio che si sente in giro la domenica mattina e pensavo fosse qualcosa di totalmente innaturale. L’obiezione sorridente era che, ovviamente, non essendoci il rumore del traffico, ciò che ne risultava per sottrazione era qualcosa di fuori norma. In realtà con il passar del tempo ho cominciato a percepire questo silenzio come una benedizione, se non addirittura come una risorsa. Il silenzio m’è sembrato il rimedio migliore contro l’inquinamento acustico e contro la mancanza di possibilità di scelta di cosa immettere nelle proprie orecchie: musica, rumori casalinghi, gemiti amorosi, cacofonie industriali, manifestazioni corporali del vostro vicino, se non addirittura composizioni al limite tra il suono e il rumore – pensate soltanto a un comizio politico con il botta e risposta tra oratore e platea per darvi l’idea di cosa intendo per una partitura rumoristica del tutto imprevedibile e anche piuttosto complessa. La partitura uditiva della domenica di solito è fatta di lunghissime pause tra un cluster, un grappolo di suoni, e un altro. Raramente c’è continuità tra i vari suoni, e di solito a questo corrisponde una serie di maledizioni perlopiù mentali lanciate all’indirizzo dell’autore di un basso domenicale continuo, come quello di un tagliaerba anche se lontano.
Pensate dunque a cosa può succedere alle vostre orecchie quando andate in vacanza. È cosa ormai risaputa che gli indigeni metropolitani hanno interiorizzato come normale una quota di rumore fissa e piuttosto alta nella propria vita quotidiana (diciamo attorno ai 55 decibel): in termini di medicina preventiva o anche di psico-acustica si afferma che le nostre città di notte non dovrebbero superare i 42 dB di rumore emesso per consentire il riposo. In realtà l’inquinamento acustico è oramai una costante degli ambienti cittadini, tanto è vero che l’uso dei doppi vetri (oltre che per un’ovvia funzione di risparmio energetico) è soprattutto quello di proteggere l’interno delle abitazioni dall’immissione non voluta di soglie di rumore talvolta fisicamente intollerabili – chi abita in prossimità di una strada a medio scorrimento di traffico ha proporzionalmente una dose di nevrosi latente molto maggiore di chi abita in zone periferiche assai più tranquille. Tutto questo per dirvi che in realtà il silenzio agli indigeni metropolitani fa paura.
Trent’anni fa, sbarcato dall’altro lato di Stromboli in cerca di una vacanza ancora un po’ selvaggia e con tanta natura attorno, ho avuto a che fare con tre ragazzi milanesi arrivati lì non so con quali aspettative. Dopo due giorni, mentre mi godevo beatamente il mare a perdita d’occhio, li ho visti mentre si dirigevano di buon passo verso il traghetto. «C’è troppo silenzio, qui» mi dice uno dei tre. «Dammi retta, andate a Riccione, quello è il posto che fa per voi» ho commentato io mentre lui annuiva approvando. «Anzi,» ho soggiunto «fammi un favore: sconsiglia a tutti tuoi amici di venire qui». Credo che sulle prime non abbia capito, ma quando è arrivato giù in fondo al microscopico porto si è voltato a guardarmi con una faccia stranita.
Cosa ho fatto durante quella vacanza? Veramente di tutto, compreso innamorarmi, ricambiato. È stato come riscattare in un solo colpo la noia mortale che mi assaliva quando alle elementari mi capitava tra capo e collo il classico tema “Descrivete cosa avete fatto durante le vacanze estive” o ancora peggio “Descrivete cosa avete fatto la scorsa domenica”. Da un lato mi sembrava una richiesta di intromissione poco simpatica nella mia privacy, dall’altra qualche volta non sapevo veramente cosa inventarmi, specie se si era d’inverno quando le domeniche si assomigliano un poco tutte, salvo quella parentesi benedetta che era il cinema, ancorché parrocchiale.
E dunque mi toccava inventarmi cose mirabolanti, di solito impossibili ma che avrei voluto fare di tutto cuore, incluso andare nei miei posti preferiti di montagna dove abitavano gli dèi dello sci agonistico o dell’arrampicata come Walter Bonatti, e che avevo quindi visto tutt’al più con il binocolo dell’immaginazione. Tutti in classe avevano un certo timore a dire che si erano fondamentalmente annoiati e che non avevano fatto niente di significativo, e anzi non ricordo qualcuno premiato per aver detto sinceramente che la domenica era una pizza mortale, un giorno che era meglio non ci fosse. Quelli che avevano genitori cinefili vivevano per andare al cinema parrocchiale; per altri la settimana era un’unica lunghissima preparazione, dato che la domenica andavano allo stadio a vedere la partita di calcio. Più tardi negli anni avrei anch’io incontrato le trappole classiche della vacanza organizzata (della serie: mi hai fregato una volta non mi freghi più) così come la visione con gli amici delle diapositive del viaggio appena concluso (della serie: la prossima volta mi do malato).
Capirete quindi la mia – a questo punto più che ragionevole – apprensione quando un amico mi ha proposto l’ascolto di questa fatica discografica del pianista Evan Lurie.
Conoscevo per altro Evan come fratello minore del più celebre John, sassofonista e cofondatore dei Lounge Lizards che avevo ammirato alla fine degli anni Settanta, e che poi avevo reincontrato come attore umorale e stralunato in alcune gemme di Jim Jarmusch (Stranger than paradise e soprattutto Down by law). Non mi ero però mai soffermato a sufficienza sull’importanza di Evan Lurie come compositore. È stato solo quando ho piantato l’orecchio sulle colonne sonore de Il piccolo diavolo e Il mostro (di e con Roberto Benigni) che l’ho riscoperto, andando a ritroso nella sua produzione. Ho così notato che aveva composto alcuni dei brani più memorabili dei Lounge Lizards come Punch and Judy Tango (capolavoro di Big Heart), oppure Tesla’s Pigeons e Suite From Punch (da Happy? Here? Now?) e il bebop da film noir di The Magic of Palermo, una fanfara da funerale urbano come tutto l’album No Pain for Cakes.
Adesso, mentre fuori c’è un silenzio strepitoso anche se è lunedì mattina, mi sto riascoltando a ripetizione questa collezione di brani da colonne sonore che è l’intero album How I spent my Vacation. Tutti i film sono ben poco conosciuti da noi salvo Cut Trees di Steve Buscemi e non posso dirvi se e come la rispettiva colonna sonora si adatti o meno alle immagini. Posso dirvi invece che la qualità visiva di ogni singolo brano è altissima, capace quindi di evocare immagini prima ancora che di sottolinearle.
In linea generale la musica di Evan Lurie non usa molto la batteria, se non come strumento melodico, e quindi non c’è un’enfasi specifica sul ritmo. Piuttosto, l’accento è posto sulla ricchezza e purezza melodica, continuamente tesa a interpretare un’emozione. In questo senso questi brani, composti tra il 1995 e il 1997, sono il completamento di un trittico cominciato tempo prima con Pieces for Bandoneon (1989), che era dedicato al tango eseguito come musica da camera per bandoneon, e proseguito con Selling Water by the Side of the River (1990) che vedeva in scena un quintetto da camera con basso, chitarra (Marc Ribot), violino (Jill Jaffe) e bandoneon (Alfredo Pedernera) e in cui i valzer e le tarantelle e i tanghi conservavano ben poco del genere originale.
Anche in questa fatica ritroviamo alcuni significativi comprimari, in testa a tutti il grande Marc Ribot alla chitarra, Greg Cohen al basso, Steven Bernstein alla tromba e Steve Elson al clarinetto, con le intrusioni di Bryan Carrott alla marimba, Jane Scarpantoni al violoncello e il già citato Pedernera. La cosa più sorprendente è che non vi verrebbe mai in mente di pensare che questi brani appartengano ad album separati tra loro.
Sembra realmente che Lurie abbia voluto produrre quello che si chiama in gergo un concept album, cioè un disco a tema, e che neanche apposta ha il titolo di un temuto tema scolastico del lunedì mattina (anche se il titolo si ispira a una fortunata serie televisiva della Warner).
I cinque frammenti di Call of the Wylie hanno una qualità cinetica e umoristica straordinaria da cartone animato e neanche a farlo apposta sono la colonna sonora di un corto d’esordio a firma Fisher Stevens il cui protagonista è il nostro amato e sfigatissimo Will il coyote o Wilcoyote (in inglese Wile E. Coyote) alla perenne caccia dell’uccello BipBip (visibile su Vimeo.com): il secondo frammento, in particolare, riesce a combinare il tema dell’entrata degli dèi nel Valhalla dal Tannhauser di Wagner col secondo movimento dal Quinto concerto brandeburghese di Bach in una sorta di conato continuo assolutamente comico. La traccia 6 estratta da Cut Trees di Steve Buscemi è forse la più bella dell’intero album: un solo di piano dolce, malinconico e rarefatto che sa di domenica parigina piovosa, e che però a me ricorda molto un brano analogo di piano solo di Vladimir Cosma contenuto in Diva (film glamour anni Ottanta di J.J. Beineix).
Le tracce di The Salesman and Other Adventures commentano tre dei cinque mini racconti curiosamente a cavallo tra film di paura e humor nero cui è composto il film – atmosfere sospese con violoncello che cuce i brani e il clarinetto che li racconta. Le sei tracce di Layin’ Low (regia Danny Leiner) raccontano una sgangherata commedia romantico-nera tra quattro ragazzi di Brooklyn, caratterizzata da costanti errori di comunicazione persino tra i migliori amici e strani cambi di marcia. Sono le tracce più complesse e anche più intriganti dal punto di vista orchestrale, con la marimba liquida di Bryan Carrott in primo piano assieme alla chitarra apparentemente stralunata e in realtà lucidissima di Marc Ribot. I tre episodi successivi (non utilizzati per un film specifico) sono curiosamente orientati a una malinconia descrittiva tutta sudamericana, con le chitarre languidissime di Ribot e Chris Cunningham – mi viene da dire che se Roberto Rodriguez fosse meno sgangherato musicalmente potrebbe giovarsene in una prossima riedizione de El Mariachi. Le tracce 20-25, eseguite da un quintetto (legni + più violino) oscillano tra il patetico e il surreale, tenuto conto che raccontano la storia di un uomo ammalato di aids che rapisce una marionetta raffigurante un ornitorinco. Nella traccia finale Love Lost riemerge Lurie come esecutore di una tenera ballata d’amore al piano solo, il cui commento è: tema d’amore per un lavoro che non ho avuto. La vedrei bene come colonna sonora di un film ancora da fare, il cui titolo potrebbe essere: adoro annoiarmi specie quando ho perduto il mio amore. Insomma, come avrete capito, vi consiglio proprio di ascoltarlo, questo album. Buone vacanze a tutti.
Evan Lurie, How I spent my vacation, Tzadik, 1998