Domenico Corrado
Post Expo, la logica del Grande Evento continua: intorno ai progetti di riqualificazione dell’area l’ombra di interessi speculativi
Tra celebrazioni e dichiarazioni roboanti che raccontano la storia di un “grande successo”, il 31 ottobre scorso ha chiuso i battenti l’Esposizione universale milanese. “Abbiamo abbracciato il mondo”, ha dichiarato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e abbiamo “dimostrato livelli di eccellenza in una città che è stata laboratorio di buone pratiche di una pubblica amministrazione sempre più efficiente”, ha aggiunto il prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca. La Milano di Expo 2015 diventa modello e paradigma di buona gestione, tanto che Tronca è stato inviato a Roma e nominato commissario straordinario per fare in modo che il Giubileo risulti un’altra ‘sfida vinta’. Milano torna a essere la capitale morale del Paese, in contrapposizione a una città di Roma sempre più fragile e immersa negli scandali dell’inchiesta Mafia Capitale.
Ma quanto accaduto in questi mesi, dagli scandali giudiziari alla precarietà delle condizioni di lavoro fino al fallimento del dibattito sull’alimentazione e alle incertezze sul futuro dell’area, portano a riflettere su come lo spazio per l’entusiasmo e i trionfalismi in realtà sia assai ridotto. E questo tralasciando l’aspetto economico, perché solo dopo il pronunciamento della Corte dei Conti si potranno conoscere con esattezza i dati di bilancio e a quanto ammontano i ricavi complessivi. Ma una cosa si può dire: se i soldi incassati dalla vendita dei biglietti servivano a coprire i costi di gestione, questo primo traguardo essenziale non è stato raggiunto: “Se con i 21,5 milioni di biglietti venduti si è andati oltre ‘la soglia psicologica’ annunciata da Sala prima dell’inizio dell’evento, il numero non è necessariamente indicativo della cifra incassata, per cui si deve tenere conto di eventuali come biglietti omaggio, abbonamenti, offerte, e biglietti serali al prezzo di cinque euro. La cifra potrebbe quindi risultare ben inferiore a quella che avrebbe consentito di andare in pari con gli 800 milioni spesi per la gestione, per la quale si era calcolata la vendita di 24 mi – lioni di biglietti al prezzo medio di 22 euro l’uno – entrate che comunque coprirebbero solo una parte dei 2,3 miliardi di euro spesi per la realizzazione dell’evento” (1).
Tuttavia, anche se emergesse un sostanziale pareggio del bilancio, si tratterebbe comunque di un equilibrio raggiunto comprimendo diritti e salari. Dai provvedimenti Daspo (2) che hanno portato all’allontanamento dei lavoratori non graditi, alle condizioni di lavoro precarie – con turni di quattordici ore e il mancato pagamento degli straordinari – fino ad arrivare all’innovazione dell’uso dei volontari. Ai fini del rilancio delle politiche occupazionali, Expo si è di certo rivelato un fallimento: solo per 3.000 lavoratori su 12.000 sono previste 40 ore di corso di formazione e ricollocamento in un’agenzia interinale, tutti gli altri a casa.
Non molto differente l’esito del dibattito che si è svolto intorno al tema dell’alimentazione, che ha portato alla promulgazione della Carta di Milano. D’altra parte la presenza di multinazionali come McDonald’s e Nestlé aveva fin dal principio messo in evidenza la distanza tra le intenzioni e la realtà, e non stupisce che il segretario della Caritas Internationalis, Michel Roy, abbia definito il documento “generico e lacunoso”, e che insieme a Slow Food e Oxfam Italia abbia scelto di non sottoscriverlo – le tre realtà hanno però deciso di partecipare alla giostra di Expo, anziché starne fuori. Quello che ha prodotto la Carta di Milano, aggiunge sempre Michel Roy, “riflette le vedute dei Paesi ricchi piuttosto che rappresentare i Paesi poveri”.
Insomma, l’ennesimo ambizioso progetto umanitario che rimarrà sulla carta: “Agli antipodi di ogni discorso sulla sovranità o sull’autodeterminazione alimentare, Expo ha invece favorito su questo tema i ben noti meccanismi di predazione dei territori anche attraverso una risignificazione del cibo trasformato, anzi ‘ribrandizzato’, in food, così vicino alle necessità del mercato quanto lontano da ogni diritto reclamato in merito all’accesso alle risorse prodotte. Anche sulla sua tematica caratterizzante, Expo 2015, coerentemente con le sue impostazioni di base, ha rappresentato una vetrina dei meccanismi di espropriazione della ricchezza prodotta” (3).
Ma al di là della gestione dei sei mesi, il fallimento si prospetta anche sul versante immobiliare, strettamente connesso alle proposte di riqualificazione dell’area e al ruolo che giocherà il governo. Il valore di mercato è uno dei fattori più delicati per la riqualificazione urbanistica dell’intero sito. Al bando di gara per la vendita dell’agosto 2014 il valore base era pari a 315 milioni di euro, a cui vanno aggiunti 72 milioni – rispetto ai sei preventivati – per l’opera di bonifica della zona. La gara d’asta è andata deserta, con la conseguenza che Arexpo s.p.a, la società proprietaria dei terreni, si è trovata un buco di bilancio che verrà colmato attraverso l’intervento diretto dello Stato tramite il ministero dell’Economia o la Cassa depositi e prestiti, come ha già annunciato il governo; ma poi si dovrà risolvere il nodo del rapporto tra Arexpo ed Expo, che ha in carico lo smantellamento dei padiglioni.
Se si andrà verso una fusione delle due società sarà risolto il problema dei possibili contenziosi, come quello che si è aperto sui 72 milioni di costi non previsti sostenuti da Expo per bonificare l’area e che Arexpo si rifiuta di riconoscere; ma questo significa che questi costi rischiano di non essere addebitati ai vecchi proprietari dei terreni, famiglia Cabassi e Fondazione Fiera.
Per quanto riguarda le proposte di riqualificazione dell’area, poi, tra i progetti annunciati la realizzazione del nuovo Polo delle facoltà scientifiche dell’Università Statale di Milano promosso dal rettore Gianluca Vago, e il Polo della tecnologia e dell’innovazione in cui attirare aziende dell’hi-tech patrocinato dal presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca. Due proposte da rivedere e ripensare dopo l’intervento del presidente del Consiglio dello scorso 10 novembre, con cui è stato battezzato lo Human technopole Italy 2040: un progetto ambizioso sul “tema della genomica e dei big data” finanziato dal governo con 150 milioni per i prossimi dieci anni e guidato dall’Istituto italiano di Tecnologia di Genova, con la collaborazione dell’Istitute for International Interchance di Torino e la Edmund Mach Foundation di Trento.
La “scintilla”, come l’ha definita Renzi, è stata accolta in modo tiepido dal mondo economico e accademico milanese, che rischia di perdere la regia delle operazioni. Resta da comprendere, oltre a dove verranno recuperati i fondi, se sarà possibile far convivere e integrare questi progetti, e che cosa ne sarà del resto dell’area, visto che il nuovo polo scientifico occuperebbe appena 70 mila metri quadrati su 1,1 milioni: circa la metà è destinata a un parco, 200 mila metri sono necessari all’Università per le aule e gli studentati, il resto dovrebbe essere riempito da aziende private, con un investimento che Gianfelice Rocca stima in 400/600 milioni.
I tempi sono ancora prematuri per formulare un giudizio definitivo sulla validità del progetto, ma si può comunque riflettere su un dato. Da anni ormai il sistema accademico e scientifico italiano versa in uno stato di ‘mediocre felicità’, dovuto alla mancanza di investimenti a lungo termine e di lungimiranza politica. La sensazione è che dietro la cortina fumosa dello Human technopole Italy 2040 si celi il solito gioco di speculazione e appetiti immobiliari. Non si comprende infatti la logica – tranne nel caso sia quella del Grande Evento – né la necessità di versare nuovo cemento, quando per finanziare i poli di eccellenza scientifica e la ricerca basterebbe incrementare e dare nuovo impulso a quelli già esistenti.
La partita sul post Expo è appena incominciata. E intanto si riaprono le indagini della procura di Milano, questa volta su un appalto di 115 milioni per un collegamento ferroviario tra i terminal di Malpensa, coinvolte la società Titania srl e la Itinera del Gruppo Gavio, azionista di Ferrovie Nord Milano; le accuse sono di frode fiscale, false fatture e omessa dichiarazione dei redditi. In altre parole, la magistratura sospetta che intorno alla costruzione di quei 3,6 chilometri di ferrovia siano girati dei fondi neri.
Expo 2015 si è concluso, la logica del Grande Evento no.
1) F. Guidi, Cosa sarà di Expo ora che Expo è finito, VICE media LLC, 2 novembre 2014
2) Cfr. Domenico Corrado, Expo 2015: Daspo al lavoro, Paginauno n. 44, ottobre/novembre 2015
3) Centro sociale Sos Fornace, Perché Expo 2015 non è stato un successo, 6 novembre 2015