Antonella Calcaterra (Avvocato del foro di Milano)
La situazione interna e il decreto Cura-Italia che il carcere non lo cura: una misura ancorata al parametro della “meritevolezza” del tutto avulso dalle condizioni sanitarie connesse all’emergenza in atto
19 novembre 2020. I numeri Covid all’interno delle carceri stanno crescendo velocemente. Secondo l’aggiornamento fornito dal Dap il 13 novembre, a livello nazionale sono risultati positivi al Covid 638 detenuti e 885 operatori, tra personale e agenti carcerari. Ma per Irene Testa, tesoriera del Partito radicale, “non si conoscono i dati reali dei contagi poiché il sito del Ministero della Giustizia e le Regioni, alle quali è appaltata la sanità penitenziaria, non li rendono noti”. Quel che gli addetti ai lavori temono è il cosiddetto “effetto Rsa”: un contagio che potrebbe diffondersi senza controllo. “Nella prima ondata non è scoppiata una bomba sanitaria, ma non è detto che la scampiamo anche questa volta. Il carcere è un ambiente ad alto rischio, chiuso e sovraffollato. Molte persone arrivano dalla marginalità estrema, non si sono mai curate prima o hanno patologie pregresse” afferma Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone. Con il Decreto Ristori del 28 ottobre, 5.000 persone (su 54.800 detenuti attuali) potranno usufruire delle misure domiciliari ma, come scrivevamo già ad aprile, “l’attuazione della misura è ancorata al parametro della “meritevolezza”, del tutto avulso dalle condizioni sanitarie connesse all’emergenza in atto”.
In pochissime settimane l’emergenza sanitaria da Covid-19 ha profondamente scosso le nostre vite attraverso l’imposizione di misure emergenziali implicanti forti restrizioni della libertà personale e di movimento, al fine di consentire alle autorità di combattere il contagio ed evitare il collasso dei sistemi sanitari regionali. In questo momento di crisi sanitaria e di grandissimo allarme sociale su tutto il territorio nazionale il problema del pericolo di contagio nelle carceri è rimasto più o meno nell’oblio mediatico; perlomeno finché non si sono verificati i gravissimi episodi di rivolta nelle carceri. Episodi che, occorre segnalare, rischiano di ripetersi in un futuro prossimo a fronte dell’inadeguatezza delle azioni dell’esecutivo per combattere la pandemia negli istituti penitenziari. Ma andiamo con ordine ripercorrendo le tappe che hanno segnato l’attività di prevenzione messa in atto dal Governo rispetto alle carceri.
L’8 marzo con il D.L. n. 11/ 2020 il Governo prendeva la decisione di vietare su scala nazionale i colloqui visivi con le famiglie e con le altre persone di cui hanno diritto i detenuti e di consentire la sospensione di tutte le attività trattamentali. Misure già attuate in diversi penitenziari d’Italia attraverso circolari di rango secondario, specie nel Nord del Paese, dove i numeri del contagio hanno avuto una crescita fortissima. Nel distretto del Tribunale di Sorveglianza di Milano, ad esempio, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e il Tribunale di Sorveglianza già il 24 febbraio e il 3 marzo disponevano la sospensione cautelativa dei rapporti dei carcerati con l’esterno, e dunque il blocco dei provvedimenti di concessione del lavoro all’esterno nonché delle misure di semilibertà e dei permessi premio.
Allo stesso tempo, il D.L. varato dal Governo disponeva l’incremento della corrispondenza telefonica con familiari e congiunti e la possibilità di introdurre, ove possibile, nuovi mezzi di comunicazione, come i video-colloqui via Skype, al fine di ‘mitigare’ la condizione di completo e assoluto isolamento dei detenuti nel complesso carcerario.
Le reazioni dei detenuti sono note. Meno note sono le condizioni che hanno spinto la protesta in 49 istituti penitenziari, tra l’8 e l’11 marzo. Sia ben chiaro le manifestazioni degenerate in forme di violenza non possono e non devono in alcun modo essere giustificate, la violenza non è mai la risposta. Differentemente da quanto è emerso nei vari media nazionali, tuttavia, gran parte delle proteste sono state pacifiche e hanno messo in luce gravi problematiche.
Si deve considerare un primo aspetto fondamentale: l’informazione. L’informazione di ciò che succede fuori dagli istituti è nelle carceri frammentaria e scandita dai ritmi dei telegiornali e giornali. Proviamo a immaginare cosa può significare vivere questa grave crisi senza poter accedere a internet e a tutte le informazioni di cui siamo sommersi. L’importanza e le finalità dei provvedimenti adottati con l’obiettivo di salvaguardare la salute e la vita delle persone che vivono dentro e fuori dagli istituti – in quel momento iniziale – con tutta probabilità non sono stati adeguatamente spiegati. Sicuramente non sono stati ben compresi e recepiti. Che ci sia stato un deficit comunicativo è comunque innegabile. In molte carceri le misure per implementare telefonate e per sopperire alla chiusura con l’esterno, peraltro, non sono state immediatamente attuate.
Senza contare lo sconforto e il caos interiore che la notizia di un distanziamento totale dagli affetti unito alla paura del virus in una condizione già intrinsecamente patogena derivante dallo stato di detenzione, può avere effetti devastanti. Come ha raccontato Giuliano Napoli, membro attivo della redazione della rivista Ristretti Orizzonti ed ergastolano recluso nel carcere di Padova, “qui la situazione si è placata dopo gli incontri avuti con la direzione e i magistrati di sorveglianza ai quali abbiamo chiesto rassicurazioni sui preparativi che stavano mettendo in atto nell’ipotesi che il coronavirus venga a contatto con i detenuti; abbiamo chiesto degli interventi che compensassero la chiusura dei colloqui con i familiari, che in un primo momento non sono stati molto efficaci” (1).
Per comprendere ciò che è accaduto bisogna allora cambiare prospettiva: da un lato, l’attuazione di restrizioni (giustissime), determinate da ragioni di salute pubblica che non possono essere ignorate e devono essere applicate; dall’altro, le (poche, ma inequivoche) informazioni provenienti dall’esterno, dal Governo e dalla Sanità: “Mantenete la distanza di almeno un metro, evitate il contatto con le persone, posti affollati e gli assembramenti, igienizzate e sanificare gli spazi comune, lavatevi di frequente”. E qui il paradosso del sentirsi dire che i contatti con l’esterno devono interrompersi, perché dobbiamo fare di tutto per non far diffondere il virus, ma continuate a vivere in uno spazio sovraffollato, privo di condizioni igieniche ottimali, in celle dove si condivide tutto ed è impossibile rispettare le distanze sociali.
Traduciamo allora questo paradosso in numeri. I dati al 29 febbraio indicavano 61 mila detenuti nelle carceri, sono circa 14 mila unità in più rispetto alla capienza regolamentare effettiva. Come indicato nel report di Antigone, l’affollamento medio è pari al 120,2%, ma in alcuni istituti, tra cui Brescia e Como, il tasso di affollamento arriva fino al 190% (2). Il sovraffollamento carcerario non è un tema nuovo, correva l’anno 2013 quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannava l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione, che dispone il divieto di trattamenti inumani e degradanti, contrari alla dignità umana, per la grave mancanza di spazio nelle carceri italiane.
Secondo Strasburgo, il sovraffollamento carcerario presentava le caratteristiche di un fenomeno endemico in tutto il territorio italiano. Seppure passi in avanti sono stati fatti, ancora oggi siamo lontani dal rispetto dello standard di capienza massima. Lo stato cronico di sovraffollamento e le condizioni igieniche trascurate, sommati alla crisi sanitaria, rischiano di generare una catastrofe e fanno paura. Ancora secondo il report di Antigone, che nel 2019 ha visitato più di 100 istituti, “in quasi la metà c’erano celle senza acqua calda, in più della metà c’erano celle senza doccia. Spesso mancano prodotti per la pulizia e l’igiene”. Come ha recentemente dichiarato Giuseppe Cascini, membro togato del CSM, “dobbiamo ammettere che nelle nostre carceri, sovraffollate e con condizioni igieniche non ottimali, avviene tutto il contrario di quanto ci consigliano i medici e ci impongono i decreti, a cominciare dalle distanze sociali impossibili da rispettare in celle così stipate. Obbligano me a non uscire e in caso a salutare un amico da lontano, ma i detenuti condividono le piccole cucine, i bagni e l’ora d’aria. E sempre senza mascherine e guanti. Queste carceri sono chiaramente bombe epidemiologiche” (3).
È chiaro, allora, perché la situazione emergenziale nelle carceri richiede risposte urgenti ed efficaci volte a diminuire la popolazione detenuta sino al raggiungimento della soglia della capienza regolamentare, in modo da abbassare il rischio di contagio maggiore legato al sovraffollamento e comunque garantire la migliore gestione sanitaria delle persone che potrebbero contrarre il virus.
Risposte che fino a ora il Governo non ha dato. Ciò nonostante le proteste e le preghiere dei detenuti e degli agenti penitenziari, le pressioni provenienti dalla Magistratura di Sorveglianza e dal Garante Nazionale dei detenuti; mi riferisco in particolare ai Tribunali di Sorveglianza più coinvolti, quelli di Milano e Brescia, che con documento del 15 marzo 2020 a firma congiunta e condiviso dal Garante hanno segnalato al Governo la gravità della situazione negli istituti penitenziari lombardi, richiedendo con urgenza la disposizione di provvedimenti normativi di immediata applicazione, senza vaglio della Magistratura di Sorveglianza, già oberata da una mole indicibile di lavoro (4). Ma anche di Associazioni come Antigone, Arci, Anpi, Cgil e dall’Avvocatura che hanno avanzato proposte di soluzioni praticabili.
Cosa è cambiato allora da quel drammatico inizio di marzo?
Il 16 marzo l’arrivo dell’agognato decreto cosiddetto Cura-Italia (D.L. n. 18/2020), pubblicato in Gazzetta il 17, che tuttavia, come è stato efficacemente sottolineato, il carcere proprio non lo cura. Il Governo ha infatti ignorato le soluzioni più auspicabili e ha introdotto, o meglio esteso, con la norma contenuta all’art. 123 del suddetto decreto, una deroga alla disciplina della detenzione domiciliare già prevista dalla L. 199/2010 (cosiddetto Svuota carceri).
La norma prevede che i detenuti con una pena anche residua pari a 18 mesi possano accedere alla detenzione domiciliare in abitazione o altro domicilio idoneo. Coloro che hanno una condanna da scontare tra i 6 e i 18 mesi possono accedere alla detenzione domiciliare solo se vi è la disponibilità dei braccialetti elettronici. Braccialetti elettronici che tuttavia non sono attualmente disponibili, anche se è stato reso noto dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che ne sono in arrivo 5.000. Inoltre, numerose sono le preclusioni normative all’accesso alla misura. Oltre a quelle già previste dalla legge del 2010, tra le quali l’esclusione di soggetti condannati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis, dei soggetti con pluri-recidiva, abituali, professionali e per tendenza, dei detenuti che sono privi di un domicilio effettivo e idoneo (aspetto, quest’ultimo che esclude tragicamente tutti coloro che non hanno un posto dove andare), si aggiungono inedite restrizioni.
Ad esempio, è prevista l’esclusione dell’accesso alla misura estesa anche ai detenuti condannati per i reati di cui agli artt. 572 e 612 bis c.p., ai detenuti che siano stati sanzionati per infrazioni disciplinari nell’ultimo anno e a coloro nei confronti dei quali sia stato redatto rapporto disciplinare per essere stati coinvolti nelle sommosse e nei disordini dei primi di marzo, a prescindere dalla natura del contributo. Sempre fatta salva la possibilità per la magistratura di individuare “gravi motivi ostativi”. L’attuazione della misura è dunque ancorata al parametro della “meritevolezza”, del tutto avulso dalle condizioni sanitarie connesse all’emergenza in atto. Sono pure esclusi i soggetti in custodia cautelare, ossia tutti coloro che sono ancora in attesa di giudizio, la cui situazione giuridica non è divenuta definitiva. Questi rappresentano oltre un terzo della popolazione carceraria e, per lo meno in teoria, dovrebbero essere tutelati dalla presunzione di innocenza. Anche il limite temporale di 18 mesi appare incongruo a fronteggiare l’emergenza sanitaria e attuare lo scopo deflattivo. Altra disposizione del Governo è prevista all’art. 124 che prevede invece permessi premio per i detenuti in semilibertà concedibili senza limiti temporali fino al 30 giugno 2020.
Insomma, si tratta di misure evidentemente insufficienti a prevenire il rischio ormai sempre più concreto di un’ampia diffusione del virus nelle carceri e delle sue drammatiche conseguenze.
Nel frattempo il sovraffollamento rimane e il numero di contagi nelle carceri sale. Così come cresce la paura di coloro che vivono il carcere e non sono solo i detenuti, ma anche gli agenti penitenziari, il personale infermieristico e tutti gli operatori degli istituti. Non ci sono sufficienti mascherine e altri dispositivi di protezione individuale; l’isolamento per i nuovi giunti o per le persone contagiate è nella pratica, alla luce della cifra della popolazione detenuta, di difficile attuazione. Secondo quanto riportato dal Garante nazionale alla data del 26 marzo le sezioni di isolamento precauzionale sono 138 in 102 istituti e ospitano 257 persone detenute “tuttavia, la tipologia delle stanze di questi reparti varia da istituto a istituto e in taluni casi non corrisponde al significato specifico della parola isolamento. Per esempio, un reparto di un Istituto a tal fine destinato è costituito da cinque stanze di cui quattro sono a tre letti e una a due letti e ospitano 14 persone” (5).
Anche le tende di pre-triage montate fuori dalle carceri sono state allestite solo in alcune aree d’Italia, in modo del tutto disomogeneo e rimesso per lo più alle singole iniziative degli Istituti e dei provveditorati regionali (6). La situazione, come ben sappiamo, cambia di giorno in giorno. Il 29 marzo risultano ufficialmente 40 i contagiati da Covid-19 negli istituti penitenziari lombardi, di cui 24 operatori e 16 detenuti. Il 24 marzo il report del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia contava, solo per quel giorno, 12 nuovi contagiati sotto osservazione all’interno delle carceri tra Bollate, San Vittore, Pavia e Voghera, mentre 4 sono stati ricoverati in ospedale (7). Dati ancora più preoccupanti se si considera che a fronte di una popolazione detenuta di più di 7.000 persone sono stati fatti circa 147 tamponi (8).
La Giunta della Camere Penali parla di “posizione negazionista” assunta dal “solo Governo” a fronte della “piena condivisione dell’allarme” sollevato da parte di tutte le istituzioni interessate “Consiglio Superiore della Magistratura, Associazione Nazionale Magistrati, Presidenti dei più importanti Tribunali di Sorveglianza, Università, Sindacati, Volontariato” (9).
In questo contesto, dall’inizio dell’emergenza, la Magistratura non si è mai fermata e, con il massimo impegno, nonostante la carenza di organico e le altre difficoltà, non da ultimo l’incendio che ha reso inagibile parte del Tribunale di Milano, contribuisce ad alleggerire la presenza nelle carceri, attraverso un’interpretazione estensiva dei presupposti di legge delle misure alternative già previste nel nostro ordinamento. Ciò è fondamentale per tutelare le persone detenute che presentano patologie pregresse o comunque di età avanzata (67% della popolazione detenuta ha patologie pregresse). Ma anche coloro che prima del lockdown avevano già avviato con successo percorsi trattamentali extramurari, come il lavoro, ottenuto il beneficio dei permessi premi, o comunque una valutazione positiva da parte dell’equipe di Osservazione e trattamento dell’istituto. L’Avvocatura, dal suo canto, promuove istanze che siano il più possibili complete, in modo da agevolare l’attività istruttoria di rito.
Ma ognuno deve fare la sua parte. E il Governo è tempo che faccia la sua. Il rischio di perdere ulteriori vite umane è troppo alto.
1) Giuliano Napoli, Carceri: Restiamo Umani, Dal carcere di Padova, la voce di un detenuto, Ristretti Orizzonti, 13 marzo 2020 http://www.ristretti.org/index.php?option=com_content&view=article&id=88135:carceri-restiamo-umani&catid=220:le-notizie-di-ristretti&Itemid=1
2) Cfr. Alessio Scandurra, Domiciliari per chi è in regime di semi-libertà, altrimenti si rischia strage, Il Riformista, 12 marzo 2020 https://www.ilriformista.it/domiciliari-per-chi-e-in-regime-di-semi-liberta-altrimenti-si-rischia-strage-60645/?refresh_ce&fbclid=IwAR0oGDKZDkTuJVdq5_sM04zx7DfMZ4WaM0apWN_xUFBtswtztT9xm9sTIKM
3) Cfr. Giulio Seminara, Cascini attacca il Csm: “Sul carcere abbiamo ignorato Mattarella”, Il Riformista, 28 marzo 2020 https://www.ilriformista.it/cascini-attacca-il-csm-sul-carcere-abbiamo-ignorato-mattarella-70861/amp/
4) Documento consultabile nel seguente link https://dirittopenaleuomo.org/wp-content/uploads/2020/03/MILANO-BRESCIA.doc.pdf
5) Comunicato stampa del Garante nazionale del 26 marzo http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/it/comunicati_stampa.page?frame4_item=1&modelId=10017&contentId=CNG957
6) Le notizie sui vari provvedimenti sono disponibili nel seguente link http://www.antigone.it/news/antigone-news/3279-coronavirus-la-mappatura-di-antigone-dei-provvedimenti-assunti-nelle-carceri
7) Giuseppe Guastella, Coronavirus Lombardia, crescono i contagi in carcere. Lo spettro di nuove proteste, Corriere della Sera Milano, 28 marzo 2020 https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/20_marzo_28/crescono-contagi-carcerelo-spettro-nuove-proteste-cab35296-7122-11ea-a7a6-80954b735fc3.shtml
8) Ibidem
9) Intervento Unione Camere Penali disponibile al seguente link https://www.camerepenali.it/cat/10439/emergenza_carcere_le_proposte_dell‘unione_per_la_conversione_del_decreto-legge.html