Stato dell’impunità nel mondo. Il 19° Rapporto sui Diritti Globali: dalla crisi climatica all’epidemia, dai conflitti alle migrazioni: focus su impronta climatica, diseguaglianze, lobby e Green Deal
1. Il pianeta che brucia. 2. Ecocidio ed etnocidio nel Brasile di Bolsonaro. 3. L’estrattivismo assassino e suicida. 4. La guerra all’ambiente e la catastrofe climatica. 5. Senza giustizia ambientale non c’è pace. 6. Alle radici del Covid-19. 7. Impronta ecologica, stili di vita e diseguaglianze. 8. Lobby e think-tank contro il clima. 9. La causa paga: cittadini e movimenti si organizzano. 10. Clima, Covid e genocidio. Il caso brasiliano. 11. Green deal e transizione ecologica. Il caso italiano. 12. Il vaccino diseguale. 13. L’economia pandemica. Grandi ricchezze crescono. 14. Pandemia, guerre e pericoli per la democrazia. 15. L’orologio dell’apocalisse al tempo del Covid-19. 16. Afghanistan: vent’anni di morte e distruzione, nessun risultato. 17. Il ritorno dell’Isis e la spirale della rappresaglia. 18. Biden e la polpetta afghana, avvelenata da Trump. 19. I veri conti e costi della guerra in Afghanistan. 20. Afghani senza asilo, l’Europa rimane fortezza. 21. Il discusso guardiano dei confini: il caso Frontex. 22. Partire è sempre più morire.
4. La guerra all’ambiente e la catastrofe climatica
Di record in record, da un crimine ambientale all’altro, da un presidente negazionista come Donald Trump a uno come Jair Bolsonaro, alle decine e decine di altri Paesi che hanno comunque sottovalutato il problema e accuratamente evitato di contrastare gli interessi delle lobby delle energie fossili, si è arrivati quasi senza resistenze – che non fossero quelle dei movimenti e delle ONG – alla situazione documentata nell’ultimo report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), diffuso ad agosto 2021, che costituisce la prima parte del Sesto Rapporto di Valutazione previsto per l’anno seguente. In mezzo ci sarà la nuova sessione della Conferenza della Parti (COP26) dell’1-12 novembre 2021 a Glasgow. In pratica, dalle evidenze ribadite ora dall’IPCC, è quella l’ultima scadenza utile per prendere, pur in extremis, le decisioni politiche e operative per implementare le misure necessarie non a impedire – per quello il tempo è stato irresponsabilmente fatto scadere – ma almeno a limitare l’irreversibilità della catastrofe climatica comunque in atto e i suoi effetti globali, compresi quelli sugli oceani, sulle regioni ghiacciate, sulle risorse alimentari e idriche mondiali, e a investire nell’adattamento, dato che il riscaldamento del clima continuerà per i prossimi decenni, indipendentemente dal successo nella sua mitigazione.
Gli effetti negativi presenti e futuri sono diseguali a seconda della posizione geografica e anche del censo. Il che potrebbe rassicurare i cinici e gli stolti, ma a loro va l’ammonimento di Mohamed Nasheed, l’ex presidente delle Maldive, una nazione insulare ad alto rischio per l’innalzamento del livello del mare. Nell’esprimere solidarietà – a nome di un gruppo di Paesi che si definiscono Climate Vulnerable Forum – alla Germania e al Belgio colpiti dalle inondazioni che nel luglio 2021 hanno provocato quasi 200 vittime, ha rimarcato che, sebbene non tutti siano colpiti allo stesso modo, questi eventi estremi dimostrano che nell’emergenza climatica nessuno è al sicuro (Sengupta, 2021).
È da sperare che qualche governo, compresi quelli di Belgio e Germania, si decida a dargli maggiormente retta. Lo stesso Nasheed già nel 2009 decise un atto simbolico forte: convocò un Consiglio dei ministri sottomarino, con lui e il suo vicepresidente altri undici ministri con scafandri e maschere si erano tuffati e seduti a un tavolo a 3,8 metri sott’acqua. L’intento era di comunicare un grido di aiuto per l’innalzamento del livello del mare che minaccia l’esistenza dell’arcipelago tropicale e, in forme anche diverse, il mondo intero. Nella dichiarazione conclusiva venne ribadito: “Il cambiamento climatico sta avvenendo e minaccia i diritti e la sicurezza di tutti sulla Terra” (Omidi, 2009).
Sono passati già dodici anni da quell’appello rimasto inascoltato, mentre i continui disastri ambientali e l’innalzamento delle temperature ci ricordano quanto esso fosse e sia drammaticamente fondato.
I dati sono inequivocabili e dovrebbero atterrire, se la classe politica globale non mostrasse di essere, in larga maggioranza, affetta da una sorte di fatale cupio dissolvi. La temperatura media globale della Terra è cresciuta di 1,2 °C rispetto al periodo precedente alla rivoluzione industriale, nei prossimi 20 anni dovrebbe raggiungere o superare 1,5 °C; gli ultimi cinque anni sono stati i più caldi dal 1850 a oggi. L’attuale concentrazione dei principali gas serra è la più elevata degli ultimi 800.000 anni; attualmente vengono prodotti circa 2,6 milioni di libbre di anidride carbonica al secondo. Negli ultimi 120 anni, dall’inizio del Novecento, il livello dell’innalzamento del livello del mare è stato in media di 20 centimetri, con una rapidità mai osservata in tremila anni; eventi estremi relativi al livello del mare che prima si verificavano una volta ogni cento anni, entro la fine di questo secolo potrebbero verificarsi annualmente. Anche il ritrarsi dei ghiacciai non ha precedenti negli ultimi duemila anni. Ancor più eloquente e preoccupante è la conseguente previsione secondo cui le temperature continueranno ad aumentare fino alla metà del secolo, indipendentemente dalla riduzione delle emissioni. Si potrà evitare di raggiungere l’aumento di 2 °C alla fine del secolo solo se le emissioni nette saranno azzerate entro il 2050 (IPCC, 2021).
Uno scenario catastrofico sia per ciò che descrive (in ben 3.949 pagine di dati, simulazioni e proiezioni, che a loro volta si basano su migliaia di ricerche, con oltre 14.000 citazioni e quasi 80.000 commenti), che è già visibilmente e drammaticamente in atto con il susseguirsi di eventi estremi, sia per ciò che prevede e ipotizza. Tenuto conto di quanto poco si è fatto da quando, ben trentuno anni addietro, quell’organismo che riunisce i massimi esperti mondiali e migliaia di scienziati, aveva lanciato l’allarme con il primo Rapporto del 1990. Ci sono voluti venticinque anni per arrivare al fondamentale Patto di Parigi nel 2015, un evento nel quale 196 Paesi avevano faticosamente e lungamente discusso per due settimane sino a pervenire a un accordo, ancorché limitato negli impegni fissati (contenimento del riscaldamento globale al di sotto dei 2 °C e auspicabilmente a 1,5 °C sopra i livelli preindustriali). Entrato in vigore l’anno seguente, già nel 2017 l’Accordo aveva visto – dopo la sciagurata elezione di Donald Trump – la defezione degli Stati Uniti e il boicottaggio del presidente brasiliano, il primo piegato (come non pochi dei suoi predecessori) agli interessi dei petrolieri, il secondo a quelli dell’agribusiness, della deforestazione selvaggia e dell’industria estrattiva.
La guerra all’ambiente e alla natura, di cui il cambiamento climatico è uno dei capitoli principali – che rischia anche di essere quello tragicamente conclusivo –, è in realtà un epocale suicidio di massa. Non fosse che, evidentemente, una parte dei decisori globali e la classe dei potenti della Terra hanno qualche fondata aspettativa di riuscire a far pagare i prezzi più alti della catastrofe prossima ventura a ‘quelli che stanno in basso’. Di affidarsi cioè, anche in questo caso, a quei meccanismi produttivi di diseguaglianze che così efficacemente hanno funzionato negli ultimi quarant’anni nel drenaggio di ricchezza sociale verso l’alto e, nell’ultimo quarto di secolo, nello scaricare sui più deboli i costi della crisi economica e finanziaria così come, più di recente, della crisi pandemica.
Si tratta anche di una guerra delle generazioni precedenti contro quelle cui viene sottratto il futuro, ma pure, prima e assieme, una guerra di una classe contro un’altra e di una parte del pianeta rispetto all’altra.
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7. Impronta ecologica, stili di vita e diseguaglianze
L’Earth Overshoot Day, vale a dire la data in cui la domanda dell’umanità di risorse e servizi ecologici in un dato anno supera ciò che la Terra è un grado di rigenerare in quell’anno, nel 2021 è caduto il 29 luglio. Nel 1970 era stato il 29 dicembre: e questo ci dice l’incredibile e irresponsabile velocità e intensità con la quale vengono dilapidate le risorse naturali. In solo mezzo secolo l’umanità è arrivata ad aver bisogno di 1,7 pianeti per soddisfare annualmente le proprie attuali necessità. A evidente discapito delle generazioni future, cui vengono sottratti diritti e possibilità, ma anche di chi, vivendo in questo tempo, subisce gli effetti dannosi e letali di questo modello di sviluppo, di cui il Covid-19 è solo l’ultimo, ancorché più grave e generalizzato e, al solito, inegualmente distribuito, giacché terapie e vaccini sono accessibili da una piccola minoranza della popolazione mondiale.
Diseguale è anche l’incidenza nella cosiddetta impronta ecologica, in quanto 1,7 è la media, ma i Paesi con maggior deficit ecologico sono gli Stati Uniti, che consumano le risorse corrispondenti a quelle di 5 pianeti, l’Australia di 4,6, la Russia di 3,4, Francia, Germania e Giappone di 2,9, Italia, Portogallo e Svizzera di 2,8, il Regno Unito di 2,6, la Spagna di 2,5, la Cina di 2,3, il Brasile di 1,8, l’India di 0,7 (Global Footprint Network, 2021; Earth Overshoot Day, 2021).
Così come diseguale e assai differenziato è il contributo che le diverse aree mondiali danno al riscaldamento globale. Tra il 1990 e il 2015 il 10% più ricco della popolazione mondiale (circa 630 milioni di persone) è stato responsabile del 52% delle emissioni cumulative di carbonio. L’1% più ricco, da solo, è responsabile del 15% delle emissioni, più di quante non ne abbia prodotte l’intera Unione europea. Il 50% più povero (circa 3,1 miliardi di persone) è stato responsabile solo del 7% delle emissioni e ha usato appena il 4% del bilancio di carbonio disponibile (Oxfam, Stockholm Environment Institute, 2020).
Anche riguardo al clima, insomma, vige la più classica e indiscutibile regola del capitalismo: i profitti sono privatizzati e concentrati, mentre i costi sono distribuiti e convogliati verso i ceti – o, in questo caso, le aree geografiche – più deboli. E i più forti tra i forti dettano la legge assoluta. Come apertamente ebbe a dire il presidente americano George H.W. Bush al Summit della Terra a Rio de Janeiro del 1992: “Lo stile di vita americano non è negoziabile”. Tutto il resto ne consegue.
8. Lobby e think-tank contro il clima
Anche sulle cause della pandemia, proprio come sui cambiamenti climatici, la ricerca più qualificata e gli allarmi degli scienziati più autorevoli nulla o poco sembrano potere di fronte alla potenza e ai condizionamenti degli interessi economici più strutturati, in particolare di quelli delle imprese multinazionali. Il negazionismo climatico, che ha avuto nel passato presidente degli Stati Uniti uno dei massimi interpreti e rappresentanti, è una delle espressioni di quel potere e della sua capacità – o comunque della pervicace volontà – di modificare non solo le decisioni politiche, volgendole a proprio favore, ma anche la percezione diffusa della realtà. Significativa al riguardo una ricerca che documenta come l’industria petrolifera e del gas stia utilizzando massicciamente i social media per pubblicare annunci che promuovono l’uso di combustibili fossili, diffondono disinformazione sui cambiamenti climatici minimizzandone gli effetti, accreditano i consumi di gas fossile come ‘verdi’, alimentano campagne fraudolente di greenwashing.
I ricercatori hanno rintracciato su Facebook ben 25.147 annunci pubblicati nel 2020 da appena 25 organizzazioni del settore Oil & Gas, che sono stati visti oltre 431 milioni di volte. La tecnica utilizzata, differentemente dal passato, non è più la negazione totale, dato un crescente controllo da parte di investitori, autorità di regolamentazione e pubblico. Ora, riferisce il report, quelle compagnie hanno sviluppato tecniche di messaggistica più subdole e fuorvianti, quali la promozione del gas come soluzione climatica a basse emissioni di carbonio, tentando di accreditare la compatibilità climatica di petrolio e gas, il cui utilizzo è indicato come necessario per mantenere un’alta qualità della vita.
A remare contro le politiche sul clima attuative dell’Accordo di Parigi non sono solo le industrie petrolifere e i gruppi di pressione statunitensi conservatori e negazionisti. In Europa sono anche le associazioni di settore che rappresentano i trasporti e l’industria pesante a essere maggiormente disallineate con i tentativi della Commissione europea di attuare gli obiettivi di contenimento del riscaldamento globale e, in particolare, con l’accelerazione contenuta nel pacchetto “Fit for 55”, adottato il 14 luglio 2021, con il quale gli Stati membri si sono impegnati a ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 (InfluenceMap, 2021 a; 2021 b).
I giganti del capitalismo digitale, dunque, guadagnano anche diffondendo disinformazione sul clima. Ma è vero e dimostrato pure l’inverso, vale a dire il finanziamento ricevuto da decine di organizzazioni non profit conservatrici e think-tank negazionisti da parte di piattaforme come Google, come rivelato già negli anni scorsi. Tra i beneficiati, il Competitive Enterprise Institute, un gruppo politico conservatore, che ha ricevuto sponsorizzazioni anche da Amazon, considerato determinante nel convincere l’Amministrazione Trump a uscire dall’Accordo di Parigi sul clima e a smantellare le precedenti normative ambientali di Barack Obama (Kirchgaessner, 2019). La scelta opposta, immediatamente dichiarata, di Joe Biden di rientrare nell’Accordo ha subito innescato le contromisure dei giganti petroliferi.
Nell’estate 2021 un’inchiesta di Greenpeace UK ha rivelato le strategie di ExxonMobil tese a ostacolare l’azione a favore del clima attraverso il lobbying a livello governativo. Una strategia non nuova, dato che già nel corso degli anni Novanta e, successivamente, all’inizio degli anni Duemila, la compagnia statunitense aveva organizzato e finanziato una campagna di disinformazione per alimentare dubbi sul legame tra il riscaldamento globale e i combustibili fossili. Exxon ha anche contribuito a fondare e guidare un potente gruppo intersettoriale, la Global Climate Coalition (GCC), che ha speso decine di milioni di dollari per contrastare un accordo globale vincolante sul clima già a ridosso del Vertice delle Nazioni Unite sul clima del 1997 a Kyoto. Soldi investiti con successo, dato che gli Stati Uniti non ratificarono il Protocollo. Ancora tra il 1998 e il 2014 la compagnia ha versato almeno 30 milioni di dollari per finanziare gruppi di negazione degli effetti delle fonti fossili sul clima, come l’Heartland Institute, il Competitive Enterprise Institute e la Heritage Foundation.
C’è, insomma, una fitta rete di centri studi che campa falsificando i dati e le risultanze scientifiche e promuovendo disinformazione sul clima. Lo stesso fanno gruppi di pressione che operano su governi e partiti, facilitati dal sistema di porte girevoli tra società petrolifere e politica. Uno degli esempi più macroscopici riguarda l’allora amministratore delegato di Exxon, Rex Tillerson, divenuto Segretario di Stato con Donald Trump.
L’intendimento di Biden di stanziare miliardi di dollari in energie rinnovabili per affrontare il cambiamento climatico ha rinvigorito l’azione di pressione di Exxon, che pare aver di nuovo conseguito risultati, dato il ridimensionamento della proposta del presidente, che inizialmente includeva oltre cento miliardi di dollari di sussidi per i soli veicoli elettrici, da finanziarsi anche attraverso una maggiore tassazione delle aziende del fossile (Greenpeace-Unearthed, 2021).
Quello che ormai è emerso con evidenza inoppugnabile è che le compagnie petrolifere sono a conoscenza degli effetti dei combustibili fossili sul riscaldamento globale da oltre mezzo secolo, ben prima che la questione arrivasse alla consapevolezza pubblica e cominciasse a preoccupare i decisori politici. C’è quindi un dolo che dovrebbe far parlare di crimini ambientali consapevoli di enorme portata e che in effetti stanno moltiplicando le cause legali contro l’industria fossile (Pattee, 2021).
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10. Clima, Covid e genocidio. Il caso brasiliano
I due presidenti che più hanno rappresentato e sostenuto il negazionismo climatico e avversato le misure contro il riscaldamento globale, Donald Trump e Jair Bolsonaro, si sono anche contraddistinti per la negazione e sottovalutazione della pandemia da coronavirus. Secondo gli ex presidenti del Brasile Dilma Rousseff e Luiz Inácio Lula da Silva, Bolsonaro va considerato responsabile quanto meno di una parte dei morti di Covid-19 nel loro Paese, che è stato particolarmente colpito. Proprio per questo entrambi lo definiscono senza remore “un genocida”. La stessa accusa gli rivolgono le comunità indigene, che lo hanno denunciato alla Corte Penale Internazionale per le politiche di deforestazione.
Al 18 agosto 2021 Stati Uniti e Brasile erano il primo e terzo Paese a livello globale con 37.023.466 casi di contagio e 623.338 morti il primo e 20.416.183 casi e 570.598 vittime il secondo (Johns Hopkins University, 2021).
Le cifre ufficiali sulla mortalità da Covid-19, peraltro, vengono sempre più spesso considerate significativamente sottostimate. Sia riguardo gli Stati Uniti (Lewis, Montañez, 2021), sia in generale. Da ultimo, secondo gli analisti di The Economist, il bilancio reale potrebbe essere addirittura più di tre volte superiore ai 4,6 milioni ufficialmente censiti a inizio settembre 2021, arrivando a un conteggio di 15 milioni di morti. Ma già l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, a fronte dei 1.813.188 ufficialmente deceduti al 31 dicembre 2020, riteneva che il vero bilancio delle morti attribuibili direttamente e indirettamente al Covid-19 a quella data arrivasse almeno a tre milioni (The Economist, 2021; WHO, 2021).
A differenza di Donald Trump, Jair Bolsonaro continua a essere in carica e ad attuare politiche di grandissimo danno – attuale e futuro – per il suo popolo e per il suo Paese, che nel 2021 ha visto approfondita la crisi istituzionale, con continui cambi di ministri, richieste di impeachment, esplicite tentazioni di golpe, conflitti tra poteri, con il presidente messo sotto inchiesta su disposizione della Corte Suprema dell’aprile 2021 per la gestione disastrosa della pandemia, con generali che minacciano la stessa Corte apertamente e senza conseguenze o freni. Con lo stesso Bolsonaro che convoca manifestazioni dei propri sostenitori davanti alle sedi istituzionali e attacca personalmente il giudice della Corte Suprema Alexandre de Moraes nonché il presidente del Tribunale superiore elettorale Luis Roberto Barroso, accusandolo di aver ostacolato la sua offensiva per l’introduzione del voto cartaceo in vista delle presidenziali del 2022, escamotage per ovviare al vistoso calo dei consensi.
Il governo di Bolsonaro, capitano dell’esercito in pensione e nostalgico della dittatura, vede un record mondiale quanto a presenza di ministri militari: sette su ventitré. Un fatto poco rassicurante, specie in un Paese che ha vissuto per vent’anni sotto un sanguinoso regime militare, dopo il colpo di Stato del 1964. Dai ministeri oggi presieduti da ufficiali delle forze armate dipendono sedici delle quarantasei imprese statali, compresa quella principale, la società di idrocarburi Petrobras. 6.157 militari, di cui più della metà in servizio attivo, occupavano nel 2020 posizioni normalmente riservate ai civili. Due dei fronti più importanti e delicati, come quello del contrasto alle deforestazioni amazzoniche e della pandemia da Covid-19, sono affidati a militari: il primo al vicepresidente e generale della riserva Hamilton Mourão e il secondo al generale Eduardo Pazuello, sino a marzo 2021 ministro della Salute. In entrambi i casi i risultati sono disastrosi (Vigna, 2021; Vandenberghe, Pereira, 2021).
Mentre la popolarità di Bolsonaro è in picchiata, con il crollo dei consensi inversamente proporzionale alla crescita dei morti per Covid-19, ogni suo sforzo è mirato alle elezioni presidenziali del 2022 e, anche a tal fine, alla manomissione della Costituzione. Pure in questo somigliante a Donald Trump, il presidente brasiliano non si rassegna davanti allo sfacelo politico e sociale del Paese e alla volontà popolare. Così, il 10 agosto 2021, mentre al Congresso era in discussione un emendamento costituzionale per revisionare il sistema elettorale, davanti al palazzo venivano fatti sfilare i carri armati.
Dieci giorni dopo Bolsonaro rilanciava su Whatsapp un messaggio più che esplicito, nel quale si parlava di un “contro-golpe abbastanza probabile e necessario” contro la Corte Suprema e il Congresso e “una Costituzione comunista che ha in gran parte sottratto i poteri al presidente della Repubblica”, invitando poi i suoi sostenitori a scendere in piazza il 7 settembre, festa dell’Indipendenza, e già paventando – di nuovo imitando l’ex presidente degli Stati Uniti – brogli alle future elezioni, dove i sondaggi danno per più che favorito l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Esattamente come nel voto del 2018, dal quale Lula era stato però escluso poiché arrestato in quello che è, infine, risultato un vero e proprio complotto. Liberato nel novembre 2019, dopo 580 giorni di ingiusta carcerazione, la Corte Suprema ha riconosciuto a Lula la candidabilità, un fatto che ha vieppiù accresciuto i timori di Bolsonaro di perdere il potere e ha alimentato minacciosi ‘tintinnar di sciabole’. Con il generale in pensione Augusto Heleno, ora membro del governo e a capo della sicurezza istituzionale, che il 16 agosto 2021 ha dichiarato: “Attualmente non ci sono motivi per l’intervento delle forze armate in Brasile, ma questa possibilità è prevista dalla Costituzione e può essere utilizzata”.
Nonostante questi segnali espliciti da parte dei militari, alcuni osservatori ritengono però che la minaccia maggiore alla democrazia potrebbe venire piuttosto dalle forze di polizia brasiliane, un’istituzione particolarmente violenta, che uccide quasi 6.000 persone all’anno e gode di sostanziale impunità, che Bolsonaro ha spesso favorito (Waldron, 2021).
Il quadro politico e istituzionale del Brasile è, dunque, in rapido deterioramento e desta grande preoccupazione a livello internazionale e notevoli tensioni nel Paese, seriamente ferito dalla crisi economica e dalla povertà, oltre che dai morti per il Covid-19.
11. Green deal e transizione ecologica. Il caso italiano
Nel luglio 2021 la Commissione europea ha adottato il Green Deal, una serie di misure e politiche riguardo clima, energia, trasporti e fiscalità finalizzate a ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Un obiettivo ambizioso – rispetto ai ritardi accumulati – e un passaggio necessario per arrivare a un impatto climatico zero entro il 2050. A disposizione vi sono un terzo delle risorse del Recovery Fund e il bilancio settennale dell’Ue (European Commission, 2021 a).
Nel luglio 2020 il Consiglio europeo aveva invece approvato il Next Generation EU, chiamato anche Recovery Fund o Recovery Plan, per sostenere i Paesi dell’Unione nella difficile uscita dalla crisi economica e sociale causata dalla pandemia, anche in direzione della transizione ecologica. A disposizione del piano 806,9 miliardi di euro (importo espresso a prezzi correnti, equivalente a 750 miliardi di euro a prezzi del 2018).
Nel complesso, per costruire il dopo pandemia, l’Europa ha così messo a disposizione il bilancio a lungo termine dell’Ue, unito a Next Generation EU, costituendo il più ingente pacchetto di misure di stimolo mai finanziato, per un totale di 2.018 miliardi di euro a prezzi correnti (European Commission, 2021 b).
Un fiume di denaro per ricostruire, sopra e dopo le macerie, un’Europa “più verde, digitale, resiliente”. Naturalmente non potevano mancare appetiti e manovre da parte delle lobby, dei poteri e delle imprese che si sentono minacciate da una transizione e una svolta davvero ‘verdi’, cioè ecologicamente compatibili.
Significativo il caso dell’Italia, destinataria di una parte consistente del Recovery Fund, essendo tra i Paesi più feriti dagli effetti della pandemia. A partire dall’estate 2021, destinataria di oltre 200 miliardi per investimenti da completare entro il 2026, dei quali circa 70 miliardi sono sovvenzioni a fondo perduto. Più di un terzo dovrà essere destinato alla cosiddetta transizione ecologica. Per accedere ai fondi il governo italiano ha predisposto un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), articolato in sei missioni: digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute. L’Italia è il Paese che in Europa ha avuto il maggior numero di vittime per il Covid-19, come ricorda la premessa a firma del premier Mario Draghi del documento approvato; eppure, paradossalmente, nella ripartizione delle risorse l’ultima voce è la cenerentola della situazione con soli 15,63 miliardi, di cui 7 destinati a reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale e i rimanenti 8,63 a innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale (Governo italiano, 2021). Una somma dunque complessivamente esigua, peraltro in parte a forte rischio – tanto per cambiare – di finire a finanziare la sanità privata.
La gestazione e messa a punto del PNRR ha attraversato due esecutivi: il secondo governo Conte e quello che lo ha poi seguito, retto da Mario Draghi e in carica dal 13 febbraio 2021. Tre le versioni in corso d’opera, per arrivare alla quarta, quella definitiva, dopo che a giugno 2021 la Commissione europea ne ha cassate alcune parti ambientalmente discutibili relative a investimenti per l’idrogeno prodotto da gas fossile, fortemente sostenuti da Eni.
L’associazione ReCommon ha dedicato un dettagliato report all’arrembaggio delle compagnie fossili ai fondi concessi all’Italia: “Multinazionali come Eni e Snam hanno letteralmente invaso i centri decisionali dello Stato, riuscendo, complice anche una mancanza di visione e politica industriale, ad abbindolare i governi con chimere e false soluzioni come l’idrogeno, la cattura dell’anidride carbonica e il biogas. Specchietti per le allodole dietro cui si cela il tentativo di prolungare la vita al gas e alle infrastrutture fossili”.
Tra il luglio 2020, data in cui il Recovery Plan è stato varato, e l’aprile 2021, in cui il PNRR italiano è stato trasmesso alla Commissione europea, l’industria fossile è riuscita a ottenere almeno 102 incontri con i ministeri incaricati di redigere il piano. Eni è riuscita a far sì che le successive versioni del PNRR “collimassero sempre più con il suo piano industriale”. La pressione lobbistica, che “ha raggiunto il suo apice nei mesi successivi all’insediamento del governo Draghi”, ha avuto come obiettivo “non solo un consistente accesso alle risorse del Piano, ma anche lo smantellamento capillare di quei pochi strumenti legislativi a cui le comunità potevano ricorrere per opporsi ai progetti imposti sui loro territori” (ReCommon, 2021). Obiettivi sostanzialmente raggiunti, pur in parte ridimensionati dall’intervento correttivo della Commissione europea.
Il PNRR italiano, insomma, rimane interno alle logiche di politica economica basate sulla centralità delle misure di stimolo e sulla crescita, e al modello di sviluppo precedenti la pandemia, rimuovendo il fatto che quei modelli sono, anche, alla radice della stessa.
* Estratto dall’introduzione del 19° Rapporto sui Diritti Globali, “Stato dell’impunità nel mondo. Un altro mondo è possibile”, Ediesse Edizioni, novembre 2021. Studio Promosso da Association Against Impunity and for Transitional Justice, Curato da Associazione Società INformazione Onlus, con la partecipazione di Cgil. Sergio Segio è il curatore del Rapporto. Qui i dettagli https://www.dirittiglobali.it/19-rapporto-sui-diritti-globali-2021/. Per i riferimenti bibliografici contenuti in questo estratto, vedi l’introduzione completa pubblicata nel Rapporto