Il mito di Ifigenia, la violenza primordiale e la dinamica dissoluzione-rifondazione ne Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos
L’enorme successo riscosso dal film Povere creature! (2023) di Yorgos Lanthimos, vincitore del Leone d’oro a Venezia, di quattro premi Oscar – miglior attrice a Emma Stone, miglior scenografia, migliori costumi, miglior trucco e acconciatura – e di due Golden Globe – miglior film commedia o musicale e miglior attrice in un film commedia o musicale, sempre a Emma Stone – nonché la recente uscita al cinema di Kinds of Kindness (2024), ultima fatica del cineasta greco, hanno riportato all’attenzione del pubblico il nome di quest’ultimo, la cui originalità e acutezza di sguardo era emersa già con The Lobster (2015), in particolare, e Il sacrificio del cervo sacro (2017), forse il suo lavoro più interessante sul piano tematico e strutturale, il quale, non per niente, si era aggiudicato il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes nel 2017; lavoro che sarà appunto l’oggetto del nostro articolo. La storia presenta un chiaro rimando al mito di Ifigenia – citato nel film – del quale esistono numerose versioni. L’essenziale qui è che, dopo un sacrilegio commesso da Agamennone nei confronti di Artemide, dea della caccia, a causa del quale viene impedito alle navi degli achei di lasciare le coste dell’Aulide per muovere contro Troia, per placare l’ira della divinità e permettere alla flotta di partire, il re si trova costretto a sacrificarle la figlia Ifigenia, motivo per cui la moglie Clitennestra lo ucciderà al suo ritorno dalla guerra, venendo poi uccisa, a sua volta, dal figlio Oreste, il che condannerà quest’ultimo a essere perseguitato dalle Erinni. L’infrazione di un tabù è, dunque, alla base di tutta questa catena di violenze: Agamennone si macchia di una colpa primigenia, proprio come il protagonista dell’opera di Lanthimos è colpevole della morte di un uomo e, per riparare a tale colpa, secondo la logica speculare del contrappasso, verrà chiamato a immolare un proprio caro. Ma procediamo per ordine…
Dopo un prologo iniziale, scandito dal coro di apertura dello Stabat Mater di Schubert, in cui viene ripresa dall’alto un’operazione a cuore aperto – ‘verticalità’ che rappresenta un po’ la cifra stilistica di tutto il film e sul cui significato torneremo più avanti – il primo atto di questa tragedia greca in chiave moderna è dedicato alla presentazione della famiglia Murphy, composta da Steven (Colin Farrell), Anna (Nicole Kidman) e i figli Kim (Raffey Cassidy) e Bob (Sunny Suljic). Steven, in particolare, ci viene mostrato fin da subito come un uomo che mantiene un saldo controllo sulla propria esistenza professionale e privata, come viene evidenziato, tra le altre cose, da una scena di sesso in cui la moglie, per compiacerlo, finge di trovarsi sotto anestesia totale – non solo un riferimento tematico alla dimensione del Thanatos in una logica, peraltro, anticipatrice di quanto avverrà nel corso della storia, ma appunto un modo di accentuare, sul piano simbolico, la posizione di dominio tenuta da Steven in questa fase della narrazione. Egli è la divinità della casa, così come sul lavoro esercita quotidianamente un potere di vita e di morte, essendo un cardiochirurgo…
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