Seiobo è discesa quaggiù, László Krasznahorkai, Bompiani, 516 pagg., 25,00 euro
Secondo la leggenda, la dea giapponese Seiobo custodisce nel suo giardino alberi sui quali ogni tremila anni crescono frutti in grado di donare la vita eterna. Nel contesto più terreno di László Krasznahorkai, custode dell’eternità è la bellezza e con essa l’oggetto artistico che la idealizza. Sarà l’arte, dunque, il filo conduttore di questi diciassette racconti ambientati in giro per il mondo, da Atene a Venezia, dalla Svizzera al Giappone, dove i protagonisti smarriti ed estasiati dinnanzi al capolavoro – il Santuario di Ise come un dipinto del Bellini – ci ricordano quanto il sublime possa trascendere la quotidianità fino a segnare indelebilmente il nostro destino. Suggestioni mistiche, melancolie e tragedie personali vengono riversate in un flusso narrativo incontenibile, con frasi che si rincorrono e lunghi periodi cadenzati soltanto da virgole, perché il punto – a detta dello scrittore ungherese – non appartiene all’uomo, ma a Dio. Krasznahorkai, noto ai più per essere l’autore di Satantango e Le armonie di Werckmeister portati sul grande schermo dal regista Bela Tarr, è ancora poco tradotto in Italia; un vero peccato. (M. Bonalumi)
Sarajevo novantadue, Massimo Vaggi, Edizioni Paginauno, 214 pagg., 20,00 euro
Aprile 1992, città di Sarajevo. Milo ha sedici anni, gioca a pallone, va a scuola e fa la corte a Lana. Nella vita che ancora per poco continuerà a essere normale, il padre lavora come giornalista, Ibrahim l’allenatore sogna per il ragazzo un futuro in una squadra importante, il professor Simo Zivanovic, storico appassionato, tra una lezione e l’altra scrive di Jovan il contadino, rapito nel 1531 dalle milizie di Alibeg per lavorare alla costruzione della moschea del Bey. Ma Sarajevo è città sull’orlo di un baratro, nonostante la finzione dei più, e quando l’assedio inizia si frantumano le regole di ogni comunità. Niente più scuola e pallone, dunque, e nemmeno più un padre; solo granate, esplosioni, case dalle imposte chiuse dietro cui nascondersi e vie con lamiere rabberciate tese tra i lampioni, fragile barriera che vuole proteggere i passanti dalla vista dei cecchini, non certo dai loro spari. Milo potrebbe fuggire ma… In Sarajevo novantadue Massimo Vaggi fotografa l’immobilità di un assedio che imprigiona il futuro di un’intera incredula popolazione e, dimentico di come quello sia il luogo dove uomini diversi per cultura e religione hanno imparato nei secoli cosa significhi vivere in pace, frantuma ogni criterio del vivere conosciuto. (Gio Sandri)
La fiaba nucleare dell’uomo bambino, Hamid Ismailov, Utopia Editore, 128 pagg., 17,00 euro
Quante volte osservando il paesaggio attraverso il finestrino di un treno ci è capitato di vedere le case scivolarci alle spalle, spinte in distanza da una velocità che tende al futuro e che non lascia tempo né spazio per interrogarsi sulla vita che ci passa accanto? Eppure, a volte può capitare che quella vita non accetti di essere ignorata, che approfitti di una breve sosta del treno per salire proprio sul nostro vagone e sedersi accanto a noi, cominciando così a raccontarci con cura paziente i dettagli più inattesi e cupi della sua storia. È questo che accade all’Io narrante de La fiaba nucleare dell’uomo bambino, un viaggiatore che attraversando la steppa kazaka si imbatte in un ventisettenne suonatore di violino intrappolato nel corpo di un undicenne. Da dove arriva quel bambino misterioso? Quale magia oscura ha congelato il suo sviluppo condannandolo all’eternità dell’infanzia? A rispondere è proprio il piccolo violinista, trascinandoci in un viaggio verso terre e culture lontane per raccontare una storia di crescita desiderata e mai realizzata, di ambizioni coltivate e deluse, di esperimenti nucleari e di rincorse tra Imperi, di speranze di una nazione e di ferite di un popolo. (M. Farina)