“L’umanesimo (se il termine comunismo proprio vi spaventa), lo smarrimento ontologico, la sofferenza, i sogni impossibili, gli slanci improbabili, riveduti e corretti al lume dell’ironia che viene, più che mai, a cavarci dai guai e a salvarci la vita”
“Il nemico non è, no non è/ oltre la tua frontiera/ Il nemico non è, no non è/ al di là della tua trincea/ Il nemico è qui tra noi (Mangia come noi, parla come noi/ dorme come noi, pensa come noi/ ma è diverso da noi, da noi!?)/ Il nemico è chi sfrutta il lavoro/ e la vita del suo fratello/ Il nemico è chi ruba il pane/ Il pane e la fatica del suo compagno/ Il nemico è colui che vuole il monumento/ per le vittime da lui volute/ E ruba il pane per fare altri cannoni/ E non fa le scuole e non fa gli ospedali/ E non fa le scuole per pagare i generali/ Quei generali, quei generali, quei generali/ per un’altra guerra.”
Enzo Jannacci, Il monumento
Poeta, paradossale, vetero-beckettiano, stralunato, comico, tristissimo, eterno bambino, bambino già vecchio, genio (compreso), milanista, amico di dropout, cardiochirurgo surreale, umano-troppo-umano: di Jannacci Enzo da Milano, si può dire (scrivere, azzardare, blaterare) tutto e il contrario di tutto, e sbagliarsi puntualmente. L’enigma-Jannacci ha fatto e fa storia a sé. Un libero pensatore, prima ancora che un abilissimo compilatore di storie per mezzo di musica e parole. Un saggio e una contraddizione vivente insieme. Difficile inquadrarlo facendo a meno dei luoghi comuni (che peraltro non gli somigliano affatto).
Vincenzina davanti alla fabbrica/ Vincenzina il foulard non si mette più […] Vincenzina hai guardato la fabbrica/ come se non c’è altro che fabbrica/ e hai sentito anche odor di pulito/ e la fatica è dentro là […] Zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui/ ‘sto Rivera che ormai non mi segna più/ che tristezza, il padrone non c’ha neanche ‘sti problemi qua.
Vabbè che la fattispecie impedisce la musica, ma la canzone la conoscete – la conosce mezzo mondo –, fa parte del commento sonoro di Romanzo Popolare, il film di Mario Monicelli in cui un po’ ridi, un po’ piangi, un po’ ti incazzi, come succede in molti film di Monicelli, e in molte canzoni di Enzo Jannacci pure. Avesse scritto solo questa, il canta-poeta della vita Jannacci, gli saremmo rimasti lo stesso debitori, nei secoli dei secoli, se riesco a spiegarmi. Vincenzina e la fabbrica è un microcosmo neorealista compiuto in sé. Ci stanno dentro – del tutto a loro agio – tragedia e poesia, epica quotidiana, farsa, lacrime, ideologia, mattine intirizzite di nebbia, lavoro, fabbrica (che non è mai una passeggiata), amore, fame, sogni, “il padrone che non c’ha neanche ‘sti problemi qua”, e un Rivera sul viale del tramonto che, come se non bastasse, manda in fumo anche la consolazione settimanale del pallone. Ché se non è canzone civile questa, allora probabilmente la canzone civile non è mai esistita né mai esisterà, un po’ come i fantasmi o gli ufo. A parte Jannacci, voglio dire, che alieno lo è sempre stato e fino in fondo. Alieno ai luoghi comuni, alle levate di scudi, alle combriccole, al piagnisteo, al presenzialismo, alle convenzioni da canzonettaro furbo, ai soliti giri e ai soliti accordi, per esempio. Uno come Jannacci nasce, come si dice, ogni morte di papa, mica li fanno in serie gli uomini, i medici e i cantautori come Jannacci. A lui i neuroni frullavano come eliche – genio e (s)regolatezza –, e se non erano i neuroni a girargli nella testa, erano le palle (nel senso dei coglioni), e allora cantava, cantava e denunciava, cantava e poetava, a suo modo, tra il brusco e il lusco, detto e non detto, sberleffo e malinconia. Con quella faccia (un po’ così) che si ritrovava – a metà strada tra l’acchiappanuvole e il pugile suonato – poteva permettersi tutto e il suo contrario…
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