I dettagli di un parere giuridico storico che sancisce le violazioni delle Convenzioni di Ginevra e dell’Aja da parte di Israele in Cisgiordania e Gaza; “L’ONU è una palude di bile antisemita” è stata la livorosa e arrogante risposta di Netanyahu, che dà la cifra di quanto Israele si consideri al di sopra di qualsiasi legge
“Per i palestinesi, questa casa delle tenebre delle Nazioni Unite è il tribunale di casa. Sanno che in questa palude di bile antisemita, c’è una maggioranza automatica disposta a demonizzare lo Stato ebraico per qualsiasi cosa. In questa società anti-Israele della terra piatta, qualsiasi falsa accusa, qualsiasi accusa stravagante può radunare una maggioranza. […] finché Israele, finché lo Stato ebraico, non sarà trattato come le altre nazioni, finché questa palude antisemita non sarà prosciugata, l’ONU sarà ovunque vista dalle persone imparziali come niente più che una farsa sprezzante. E dato l’antisemitismo all’ONU, non dovrebbe sorprendere nessuno che il procuratore della CPI, uno degli organi affiliati all’ONU, stia considerando di emettere mandati di arresto contro di me e il ministro della Difesa israeliano” (1). Questi sono i toni con cui Netanyahu si rivolge all’Assemblea generale dell’ONU il 27 settembre 2024. Il livore e l’arroganza che caratterizzano le sue parole, già presenti in dichiarazioni precedenti nei confronti delle Nazioni Unite, assumono livelli parossistici in questo frangente a causa della condanna dell’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi Occupati espressa due mesi prima dalla Corte internazionale di giustizia dell’ONU, ai sensi del diritto internazionale. L’iter del procedimento si avvia nel dicembre 2022, dunque è precedente allo scoppio della guerra del 7 ottobre 2023, e prende vita da una risoluzione dell’Assemblea generale ONU che chiede alla Corte un parere consultivo sulle “conseguenze giuridiche derivanti dalla continua violazione da parte di Israele del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, dalla sua prolungata occupazione, insediamento e annessione del Territorio Palestinese Occupato dal 1967, comprese le misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status della Città Santa di Gerusalemme, e dalla sua adozione di misure e legislazioni discriminatorie correlate”; chiede inoltre l’Assemblea quali siano le conseguenze giuridiche “per tutti gli Stati e per le Nazioni Unite” derivanti da questo status. La risposta della Corte ONU, emessa il 19 luglio 2024 e che qui pubblichiamo in estratto, con traduzione a cura di Paginauno, e in due parti – qui la prima parte, la seconda sul prossimo numero della rivista – è estremamente dettagliata e precisa, come si confà a un parere giuridico.
Scrive la Corte: “l’occupazione di Israele dura da oltre 57 anni” a fronte di un diritto internazionale che stabilisce che “l’occupazione è una situazione temporanea per rispondere a necessità militari e non può trasferire il titolo di sovranità alla potenza occupante”, la quale “ha il dovere di amministrare il territorio a beneficio della popolazione locale”; “il trasferimento di coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est da parte di Israele, nonché il mantenimento della loro presenza”, sono contrari alla Quarta Convenzione di Ginevra, mentre “Israele adotta regolarmente misure atte a legalizzare retroattivamente gli avamposti”; l’espansione degli insediamenti israeliani “si basa sulla confisca o requisizione di vaste aree di terra”, “fino a circa 2.000 kmq nella sola Area C dal 1967, il che equivale a più di un terzo della Cisgiordania”; Israele “sfrutta le risorse naturali, tra cui acqua, minerali e altre risorse, a beneficio della propria popolazione, a svantaggio o addirittura a esclusione della popolazione palestinese locale”; “Israele ha imposto restrizioni alla costruzione e alla manutenzione da parte dei palestinesi di installazioni idriche senza un permesso militare e impedisce ai palestinesi di accedere ed estrarre acqua dal fiume Giordano”; “le politiche israeliane in materia di acqua e terra hanno portato alla riduzione dei terreni agricoli” da 2.400 kmq nel 1980 a 1.000 kmq nel 2010, “mentre la quota dell’agricoltura nel prodotto interno lordo del Territorio Palestinese Occupato è scesa dal 35% nel 1972 al 12% nel 1995, a meno del 4% nel 2020”; “la confisca su larga scala di terreni e la privazione dell’accesso alle risorse naturali privano la popolazione locale dei suoi mezzi di sussistenza di base, inducendone così la partenza”, e “una serie di misure adottate dalle forze militari israeliane ha esacerbato la pressione sulla popolazione palestinese affinché abbandoni parti del Territorio Palestinese Occupato contro la propria volontà”: perché “il trasferimento può essere ‘forzato’ – e quindi vietato ai sensi del primo paragrafo dell’articolo 49 della Convenzione di Ginevra – non solo quando è ottenuto mediante l’uso della forza fisica, ma anche quando le persone interessate non hanno altra scelta che andarsene”.
Israele viola dunque il Diritto internazionale, tra cui la Carta delle Nazioni Unite, il Diritto Internazionale Umanitario, la Convenzioni di Ginevra e dell’Aja, oltre a numerevoli Risoluzioni ONU, conclude la Corte. Ed è importante evidenziare che il parere non include – perché la richiesta dell’Assemblea generale ONU, a cui la Corte era obbligata ad attenersi, era precedente e dunque non la contemplava – la politica di Israele nei Territori Palestinesi Occupati successiva all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Ma a conti fatti, il distinguo appare superfluo. Perché ciò che sta accadendo in Palestina dall’ottobre 2023 non è altro che la prosecuzione di ciò che accade dal 1967.
Conseguenze giuridiche derivanti dalle politiche e pratiche di Israele nel Territorio Palestinese Occupato, inclusa Gerusalemme Est. Corte internazionale di giustizia – ONU
Contesto generale
Dopo aver fatto parte dell’Impero Ottomano, alla fine della prima guerra mondiale, la Palestina fu posta sotto un Mandato di classe “A” che fu affidato alla Gran Bretagna dalla Società delle Nazioni, ai sensi dell’articolo 22, paragrafo 4, del Patto della Società delle Nazioni. Secondo questa disposizione, “[c]erte comunità, precedentemente appartenenti all’Impero turco, hanno raggiunto uno stadio di sviluppo in cui la loro esistenza come nazioni indipendenti può essere provvisoriamente riconosciuta, subordinatamente alla prestazione di consulenza amministrativa e assistenza da parte di un Mandatario, fino a quando non saranno in grado di stare in piedi da sole”. I confini territoriali della Palestina mandataria furono stabiliti da vari strumenti, in particolare, sul confine orientale, da un memorandum britannico del 16 settembre 1922 e dal trattato anglo-transgiordano del 20 febbraio 1928.
Nel 1947, il Regno Unito annunciò la sua intenzione di completare l’evacuazione del territorio sotto mandato entro il 1° agosto 1948, anticipando successivamente tale data al 15 maggio 1948. Nel frattempo, il 29 novembre 1947, l’Assemblea generale aveva adottato la risoluzione 181 (II) sul futuro governo della Palestina, che “[r]accomandava al Regno Unito […] e a tutti gli altri membri delle Nazioni Unite l’adozione e l’attuazione […] del Piano di spartizione” del territorio, come stabilito nella risoluzione, tra due Stati indipendenti, uno arabo, l’altro ebraico, nonché la creazione di uno speciale regime internazionale per la città di Gerusalemme. La risoluzione prevedeva che “[i]ndipendenti Stati arabi ed ebrei […] sarebbero venuti alla luce in Palestina due mesi dopo l’evacuazione della […] Potenza mandataria”.
Mentre la popolazione ebraica accettò il Piano di Partizione, la popolazione araba della Palestina e gli Stati arabi respinsero questo piano, sostenendo, tra l’altro, che fosse sbilanciato.
Il 14 maggio 1948, Israele proclamò la propria indipendenza facendo riferimento alla risoluzione 181 (II) dell’Assemblea generale; scoppiò quindi un conflitto armato tra Israele e alcuni Stati arabi e il Piano di spartizione non fu attuato.
Con la risoluzione 62 (1948) del 16 novembre 1948, il Consiglio di sicurezza decise che “un armistizio sarebbe stato stabilito in tutti i settori della Palestina” e invitò le parti direttamente coinvolte nel conflitto a cercare un accordo a tal fine. In conformità con questa decisione, nel 1949 furono conclusi a Rodi gli accordi generali di armistizio tra Israele e i suoi Stati confinanti, attraverso la mediazione delle Nazioni Unite, che stabilirono le linee di demarcazione dell’armistizio tra le forze israeliane e arabe (spesso in seguito chiamate collettivamente “Linea verde”, a causa del colore utilizzato per esse sulle mappe, e di seguito denominate come tali). Le linee di demarcazione erano soggette a rettifica che poteva essere concordata dalle parti.
Il 29 novembre 1948, riferendosi alla risoluzione 181 (II), Israele chiese di essere ammesso come membro delle Nazioni Unite. L’11 maggio 1949, quando ammise Israele come Stato membro delle Nazioni Unite, l’Assemblea generale richiamò la risoluzione 181 (II) e prese nota delle dichiarazioni di Israele “riguardo all’attuazione della suddetta risoluzione” (risoluzione 273 (III) dell’Assemblea generale).
Nel 1964, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) fu creata per rappresentare il popolo palestinese.
Nel 1967 scoppiò un conflitto armato (noto anche come “Guerra dei sei giorni”) tra Israele e i Paesi confinanti Egitto, Siria e Giordania. Quando le ostilità cessarono, le forze israeliane occuparono tutti i territori della Palestina sotto mandato britannico, oltre la Linea Verde.
Il 22 novembre 1967, il Consiglio di sicurezza adottò all’unanimità la risoluzione 242 (1967), che “sottolineava l’inammissibilità dell’acquisizione di territorio mediante la guerra”, chiedeva il “ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto” e “[l]a cessazione di tutte le rivendicazioni o stati di belligeranza, il rispetto e il riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ogni Stato nell’area e del loro diritto a vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti, liberi da minacce o atti di forza”. Ha inoltre affermato “la necessità […] di raggiungere una giusta soluzione del problema dei rifugiati” e “di garantire l’inviolabilità territoriale e l’indipendenza politica di ogni Stato nell’area, attraverso misure che includono l’istituzione di zone smilitarizzate”.
Dal 1967 in poi, Israele ha iniziato a stabilire o sostenere insediamenti nei territori occupati e ha adottato una serie di misure volte a modificare lo status della Città di Gerusalemme. Il Consiglio di sicurezza, dopo aver ricordato in diverse occasioni “il principio secondo cui l’acquisizione di territorio mediante conquista militare è inammissibile”, ha condannato tali misure e, con la risoluzione 298 del 25 settembre 1971, ha confermato che “tutte le azioni legislative e amministrative intraprese da Israele per cambiare lo status della città di Gerusalemme, tra cui l’espropriazione di terreni e proprietà, il trasferimento di popolazioni e la legislazione volta all’incorporazione della sezione occupata, sono totalmente invalide e non possono cambiare tale status”…
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