L’impatto ambientale degli esperimenti nucleari. Documenti desecretati rivelano che tra il 1945 e il 1992 gli Stati Uniti hanno effettuato 1.051 test atomici esplodendo in totale 180 megatoni, pari a 11.250 bombe di Hiroshima; 12 test hanno contemplato il lancio di razzi fino a 700 km di quota, nella magnetosfera, con l’obiettivo di verificare se la struttura stessa del sistema Terra potesse essere utilizzata come arma. Quali sono state le conseguenze a lungo termine sull’equilibrio terrestre e sul clima?
Quando si imputa alle attività umane la responsabilità del cambiamento climatico, una di esse gode di un unanime e trasversale occultamento: l’attività militare. L’economia, la politica, i principali think tank, le grandi agenzie sovranazionali… nessuno ne fa citazione nei dettagliati e accalorati documenti che auspicano, o impongono, innovazioni green e transizioni ecologiche. L’industria della guerra, dalla produzione alle esercitazioni ai conflitti in giro per il pianeta, è esclusa sia dall’elenco delle cause che da quello delle soluzioni. La sua incidenza sull’ambiente è innegabile, ma la difficile quantificazione per mancanza di dati, come mostra il Report di Scientists for Global Responsibility e Conflict and Environment Observatory qui pubblicato a pag. 34, la porta, per restare nel campo semantico, ‘fuori dai radar’ della discussione.
D’altra parte, la guerra è morte e distruzione della biosfera e della vita; è bombardamenti e agenti chimici; è aviazione, carri armati, proiettili, gas… come si potrebbe discutere di rendere ecologicamente sostenibile una simile attività umana? Siamo davanti a un nonsense.
Non è l’unico. Se i danni da gas serra sono almeno conosciuti e riconosciuti, ve ne sono altri tuttora ignoti. Cosa accade se si modifica artificialmente la fascia di Van Allen inferiore, nella magnetosfera? Quali conseguenze porta un’esplosione atomica nella ionosfera? Quali sono gli equilibri esistenti tra alta atmosfera, superficie e nucleo della Terra e quale la relazione tra Sole, magnetosfera, ionosfera e clima terrestre? Sono domande a cui oggi possiamo dare solo parziali risposte, e sessant’anni fa, quando sono stati fatti detonare ordigni nucleari nello Spazio, quasi nessuna. Alla cieca, i governi di Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia, Gran Bretagna e Cina si sono messi a giocare d’azzardo con il pianeta, ponendo come prioritario l’obiettivo di testare la potenza distruttiva dell’arma atomica e, soprattutto, di verificare se la struttura stessa del sistema Terra potesse essere utilizzata come arma.
I test nucleari
Tra il 1945 e il 1992 si contano più di 2.000 test atomici effettuati da Stati Uniti, URSS, Francia, Gran Bretagna e Cina (vedi Grafico 1, pag. 8) – impossibile avere il numero esatto, a causa della segretezza che ancora copre alcune operazioni. Gli USA hanno declassificato gran parte del loro archivio nucleare e questo rende possibile avere dati, se non esaustivi, almeno ufficiali. Ci focalizziamo quindi sui test statunitensi, non dimenticando tuttavia che rappresentano solo la metà delle esplosioni atomiche che investono il pianeta a partire dall’immediato dopoguerra; quelle sovietiche, in particolare, sono state simili per obiettivi e portata distruttiva.
Tra il luglio 1945 e il dicembre 1992 gli Stati Uniti conducono 1.051 test nucleari (1): 106 nel Pacifico (isole Marshall e atollo Johnston), tre nell’Atlantico meridionale (1.100 miglia a sud-ovest di Città del Capo in Sudafrica), 925 nel Nevada e 17 tra Colorado, Nuovo Messico e isole Aleutine al largo dell’Alaska. 204 sono tenuti segreti fino al 7 dicembre 1993, quando l’allora Segretario dell’Energia Hazel O’Leary li rende pubblici. La gran parte è sotterranea (836), ma ci sono anche esplosioni in superficie e sottomarine, e 210 sono test atmosferici; tra questi ultimi, 12 contemplano il lancio di razzi, ad altitudini fino a 700 km nella magnetosfera. In totale, vengono esplosi 180 megatoni, di cui 141 nell’atmosfera. Per dare un ordine di grandezza, la bomba sganciata su Hiroshima è di circa 16 chilotoni: ciò significa che i soli test degli Stati Uniti hanno rilasciato una potenza nucleare pari a 11.250 bombe di Hiroshima.
Il primo razzo è lanciato in Nevada, all’interno dell’operazione Plumbob nel luglio 1957: John, di 1,7 chilotoni, esplode a 18.000 piedi, circa 6 km nella troposfera.
Nell’agosto 1958, alle isole Johnston, vengono condotti due test per studiare l’utilità di bombe nucleari per i missili antibalistici: Teak esplode a 77 km di altezza, nella mesosfera, e Orange a 43 km, nella stratosfera. Sono entrambe testate di 3,8 megatoni (237 bombe di Hiroshima). È durante questi lanci, all’interno dell’operazione Hardtack 1, che viene scoperto l’effetto EMP – l’impulso elettromagnetico generato dalle esplosioni nucleari ad alta quota che interferisce con i componenti elettronici, danneggiandoli – che diviene la base per lo studio e lo sviluppo delle bombe elettromagnetiche.
Quasi contemporaneamente, tra agosto e settembre, si attiva l’operazione Argus (2). L’obiettivo è osservare l’interazione tra le esplosioni nucleari e il campo magnetico terrestre, le fasce di Van Allen conosciute da pochi mesi (a gennaio 1958 diviene nota quella inferiore, solo a dicembre 1958 sarà scoperta la superiore); l’ipotesi prevede che le particelle cariche e gli isotopi radioattivi rilasciati dall’esplosione nucleare produrranno delle cinture di Van Allen artificiali: “Si teorizza”, si legge nel documento desecretato, “che questa cintura di radiazioni avrà implicazioni militari, tra cui la degradazione delle trasmissioni radio e radar, il danneggiamento o la distruzione dei meccanismi di armamento e spoletta delle testate [balistiche] ICBM, e la messa in pericolo degli equipaggi dei veicoli spaziali in orbita che potrebbero entrare nella cintura” (3). È scelto l’Atlantico meridionale, 1.100 miglia a sud-ovest di Città del Capo in Sudafrica, perché in quella zona le fasce di Van Allen registrano una delle due anomalie: quella inferiore si abbassa fino a 200-400 km dalla superficie terrestre. Vengono lanciati tre razzi con tre testate da 1,7 chilotoni ciascuna, che esplodono a 160, 290 e 750 km di altezza, nella ionosfera i primi due e nella magnetosfera l’ultimo. L’ipotesi del test viene confermata: si creano cinture artificiali di radiazioni magnetiche che perdurano per alcune settimane.
Una testata ben più potente è fatta detonare quattro anni dopo, nel luglio 1962, nell’ambito dell’ampia operazione Dominic/Fishbowl nell’atollo Johnston: Starfish Prime, una bomba nucleare di 1,45 megatoni – 90 volte superiore a quella lanciata a Hiroshima – esplode a 400 km di quota, nella ionosfera. Lo scopo è “studiare gli effetti delle detonazioni nucleari come armi difensive contro i missili balistici” (4). L’esplosione distrugge temporaneamente la fascia interna di Van Allen e provoca manifestazioni aurorali artificiali dalle Hawaii alla Nuova Zelanda; l’onda elettromagnetica della detonazione nella ionosfera produce una tempesta magnetica sulle isole Hawaii (a 860 miglia di distanza), che danneggia tutti i sistemi elettrici ed elettronici; unita alle polveri radioattive ad alta quota, l’onda manda fuori uso sette satelliti in orbita intorno alla Terra; gli aerosol radioattivi viaggeranno per anni nella stratosfera e nella mesosfera, trasportati dalle correnti ad alta quota, prima di ricadere al suolo; elettroni ad alta energia rimarranno intrappolati nel campo magnetico terrestre, alterandone forma e intensità: non è noto il tempo della loro attività, l’unico dato pubblico afferma che sono ancora osservabili cinque anni dopo.
L’operazione prevede il lancio di ben cinque testate nucleari ad alta quota, ma quattro test falliscono: tre hanno un malfunzionamento in volo e le testate vengono distrutte (Bluegill, 2 giugno; Starfish, 19 giugno; Bluegill Double Prime, 15 ottobre), mentre un quarto razzo esplode sulla rampa di lancio, causandone la contaminazione (Bluefish Prime, 25 luglio). All’interno della stessa operazione vengono effettuati altri cinque test nucleari, con ordigni di minore (!) potenza: Frigate Bird, 600 chilotoni (37 bombe di Hiroshima) lanciati da un sottomarino il 5 giugno, esplodono a 2,5 chilometri nella troposfera; Checkmate, 60 chilotoni fatti detonare a 147 km nella ionosfera, il 20 ottobre; Bluegill Triple Prime, 300 chilotoni esplodono a 50 km nella mesosfera il 26 ottobre; Kingfish, 1° novembre, altri 300 chilotoni a 97 km di altezza, nella ionosfera – l’interruzione delle comunicazioni radio sul Pacifico dura “almeno tre ore” –; Tightrope, 4 novembre, 40 chilotoni esplosi nella stratosfera, a 21 km di quota.
Nell’agosto 1963 Stati Uniti, URSS e Gran Bretagna – ne restano fuori Francia e Cina – firmano il “Trattato per il bando degli esperimenti di armi nucleari nell’atmosfera, nello spazio cosmico e negli spazi subacquei”, e i test continuano solo nel sottosuolo; fino al settembre 1996, quando il “Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari” entra in vigore in forma cosiddetta ‘provvisoria’, poiché tuttora non ancora firmato e/o ratificato da Stati Uniti, Cina, Iran, Israele, Egitto, Corea del Nord, India e Pakistan.
Le possibili conseguenze sull’equilibrio climatico del pianeta dei 2.000 test atomici non fu mai un tema all’ordine del giorno: nessuno si preoccupò di analizzare cambiamenti, o redigere relazioni, o indagare l’accaduto.
Una certezza tuttavia esiste: gli esperimenti effettuati nella ionosfera e magnetosfera e quelli di modifica intenzionale del clima nella troposfera – per esempio la statunitense Operazione Popeye in Vietnam tra il 1966 e il 1972 (5) – allarmano a tal punto lo stesso Senato statunitense che la Risoluzione n. 71 del luglio 1973 chiede al governo di cercare un accordo internazionale “sulla completa cessazione della ricerca, della sperimentazione e dell’uso di attività di modificazione ambientale e geofisica come armi da guerra […] consapevoli del grande pericolo per il sistema ecologico mondiale derivante dall’uso incontrollato e indiscriminato delle attività di modificazione ambientale e geofisica” (6). Nel 1976 si arriva alla “Convenzione sul divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente a fini militari o a ogni altro scopo ostile” (ENMOD). Apparentemente un passo avanti, in realtà un nulla di fatto. Il trattato Onu definisce “modifica dell’ambiente” “ogni tecnica che abbia per oggetto la modifica – grazie a una deliberata manipolazione di processi naturali – della dinamica, della composizione, o della struttura della Terra ivi compresi i propri complessi biotici, la propria litosfera, idrosfera e atmosfera o lo spazio extra atmosferico”; non proibisce tuttavia gli esperimenti e i progetti classificati a fini pacifici e di ricerca, lasciando dunque campo aperto a qualunque test – è sufficiente etichettarlo come ‘ricerca’. In un elenco di esempi di tecniche di modifiche del clima, dichiarato non esaustivo, sono indicati: “Terremoti; tsunami; sconvolgimenti dell’equilibrio ecologico di una regione; alterazione delle condizioni atmosferiche (nubi, precipitazioni, cicloni di diversi tipi, tornado); alterazione delle condizioni climatiche, delle correnti oceaniche, dello strato ozonico o della ionosfera”.
Troposfera. Primo strato dell’atmosfera terrestre, qui si trova concentrato quasi tutto il vapore acqueo dell’atmosfera e si sviluppano i fenomeni meteorologici.
Stratosfera. Contiene lo strato di ozono.
Mesosfera. È la porzione di atmosfera meno conosciuta e tuttora oggetto di studio scientifico. È certo che milioni di meteore entrano annualmente nell’atmosfera terrestre ed è nel contatto con i gas della mesosfera che la maggior parte si scioglie o si vaporizza.
Ionosfera. Filtra la radiazione solare e cosmica, divenendo elettricamente carica e permettendo la riflessione di onde radio a frequenza diversa.
Magnetosfera. Ultimo strato atmosferico terrestre, contiene le due fasce di Van Allen. Protegge il pianeta dal vento solare, catturando le particelle cariche ad alta energia emesse dal Sole: quando il campo magnetico viene fortemente disturbato, come durante le tempeste solari, alcune particelle sfuggono alla cattura e nel contatto con i gas dell’atmosfera si ‘illuminano’, dando origine alle aurore boreali nell’emisfero Nord e australi nell’emisfero Sud. Nel caso in cui la magnetosfera venga disturbata/danneggiata da esplosioni nucleari, si possono verificare manifestazioni aurorali artificiali a basse latitudini, come quelle causate nel 1962 dall’operazione Dominic/Fishbowl.
La stratosfera e il buco dell’ozono
Il primo (tuttora l’unico?) accenno all’influenza dei test nucleari sul sistema climatico si ebbe in un documento del 1975. L’anno precedente l’Agenzia statunitense per il Controllo delle Armi e il Disarmo commissiona uno studio al National Research Council: oggetto della ricerca è “stimare gli effetti a lungo termine, a livello mondiale, di uno scambio nucleare [che] nel caso peggiore considerato [coinvolga l’esplosione di] circa la metà delle armi nucleari presenti negli arsenali strategici, vale a dire da 500 a 1.000 testate con una resa da 10 a 20 megatoni ciascuna e da 4.000 a 5.000 ordigni da 1 o 2 megatoni ognuno”; gli effetti da studiare coinvolgono non solo gli esseri umani ma anche “atmosfera e clima, ecosistemi terrestri, agricoltura e allevamento, ambiente acquatico” (7). Ciò che si intende indagare sono quindi le conseguenze di una ipotetica e futura guerra nucleare: cosa resterà del pianeta e dell’homo sapiens?, si chiede.
Nel 1975 i risultati della ricerca vengono pubblicati, con il titolo Long-Term Worldwide Effects of Multiple Nuclear-Weapons Detonations (“Effetti mondiali a lungo termine di detonazioni multiple di armi nucleari”). Quel che qui interessa è una piccola parte del capitolo relativo agli effetti sull’atmosfera, focalizzato sullo strato di ozono. La premessa già apre a uno sguardo nuovo: “Gli studi passati sugli effetti atmosferici delle armi nucleari”, afferma, “si sono occupati praticamente solo del trasporto del fallout radioattivo e dei prodotti gassosi attraverso l’atmosfera e la [loro] deposizione sulla superficie terrestre”, non ipotizzando “effetti a lungo termine sull’atmosfera e sulla sua circolazione, o sul clima”. Ai primi anni Settanta, al contrario, si è sviluppata “una notevole preoccupazione sugli effetti che gli ossidi di azoto delle emissioni di scarico dei motori degli aerei supersonici che volano nella stratosfera avrebbero sulle concentrazioni di ozono”, e alcuni ricercatori hanno “osservato che i test sulle armi nucleari del passato avevano creato risultati significativi di quantità di ossido nitrico”.
In una ipotetica futura guerra nucleare, dunque, “i principali effetti attesi sono una temporanea diminuzione dell’abbondanza di ozono, con concomitante aumento dell’intensità della radiazione UV nella troposfera e sulla superficie della terra, e conseguente ulteriore riscaldamento superficiale. Una tale catena di effetti potrebbe provocare un’alterazione climatica”.
Per quanto riguarda gli esperimenti nucleari del passato, invece, quindi il danno già causato allo strato di ozono, il documento riporta che due studi “hanno previsto una riduzione massima del 5% e del 4% dell’ozono totale dovuta ai [soli] test nucleari del 1961-1962”; altri ricercatori, diversamente, “non hanno trovato prove convincenti per una correlazione dell’ozono globale con le esplosioni nucleari, anche se”, riconosce il documento, “i dati al suolo disponibili all’epoca (1961-1962) sono così limitati che una diminuzione del 4-5% dell’ozono potrebbe non essere rilevabile con certezza”. E conclude: “È opinione condivisa che, principalmente a causa dell’esistenza di un’oscillazione quasi biennale dell’ozono totale, le osservazioni dell’ozono non sono sufficienti per confermare o confutare i calcoli del modello che mostra una diminuzione di pochi punti percentuali dell’ozono dovuta alle esplosioni nucleari del 1961 e 1962”.
Una decina di anni dopo, tuttavia, si comprende che un 4-5% non è un dato da poco, ma qualcosa da tenere sott’occhio. Nel 1985 è scoperto il cosiddetto ‘buco dell’ozono’ – l’assottigliamento dello strato di ozono sopra le regioni polari – e nel 1987 viene firmato il Protocollo di Montréal. Nella relazione dell’Agenzia europea dell’ambiente del 2008, L’ambiente in Europa. Seconda valutazione, Capitolo 3. Distruzione dell’ozono stratosferico, si legge: “Fra il 1975 e il 1995 lo strato di ozono nell’atmosfera che sovrasta l’Europa è diminuito del 5%, determinando un aumento delle radiazioni UV-B che penetrano negli strati inferiori dell’atmosfera e raggiungono la superficie terrestre […] Alle medie latitudini nell’emisfero settentrionale, la media annuale dell’ozono totale è scesa di quasi il 5% per decennio dal 1979, con un calo del 7% per decennio, in primavera, nello stesso periodo” (8). Nessun documento correlato al ‘buco dell’ozono’, tuttavia, cita i test nucleari degli anni Cinquanta e Sessanta come possibile concausa, pur riconoscendo che una volta danneggiato “la ricostituzione dello strato di ozono richiede molti decenni” (9); a essere imputate sono “le emissioni dei clorofluorocarburi (CFC), usati come raffreddanti in frigoriferi e condizionatori d’aria, come propellenti negli aerosol, nella produzione di schiume espanse e di detergenti, nonché dei bromofluorocarburi (halon), presenti negli estintori antincendio” (10). Questi gas sono stati messi al bando, seguendo un programma che li vedrà totalmente aboliti nel 2030, la guerra (ovviamente) no.
Paradossi
Oggi: “Se il settore militare globale fosse uno Stato,” conclude a novembre 2022 il Report di Scientists for Global Responsibility e Conflict and Environment Observatory pubblicato a pag. 34, analizzando i pochi numeri disponibili, “avrebbe la quarta maggiore impronta di carbonio al mondo […]. E va ricordato che le nostre stime sono conservative: non includono le emissioni di gas serra dovute ai combattimenti bellici”.
Ieri: “All’epoca dei test nucleari del 1962,” si legge sull’Earth Island Journal nel 1988, “astronomi di primo piano protestarono duramente contro l’irresponsabilità di questi esperimenti. In Inghilterra, Sir Bernard Lovell e il prof. Martin Ryle, due tra i principali astronomi del tempo, sottolinearono il punto cruciale, affermando che era pura follia modificare la dinamica del pianeta Terra prima di averla compresa […] Al tempo, scienziati statunitensi stimarono che ci sarebbero voluti cent’anni affinché le fasce di Van Allen potessero ristabilire i loro livelli normali. Rimangono le domande: quali sono stati gli effetti, sia a breve che a lungo termine, della massiva distruzione delle fasce di Van Allen e dell’iniezione nell’alta atmosfera di una tale quantità di particelle energetiche e di materiale prodotto dalla fissione [nucleare]? In particolare, come hanno colpito la radiochimica dell’alta atmosfera, la fascia di ozono nella stratosfera, e in generale la dinamica atmosferica/energetica/elettromagnetica/geomagnetica del pianeta?” (11).
In definitiva, ci ritroviamo che quell’attività umana (la guerra con tutto il suo corollario) esclusa dal discorso e dalle azioni contro il cambiamento climatico, è oggi una delle maggiori responsabili del cambiamento climatico stesso, mentre gli effetti a lungo termine degli esperimenti nucleari del passato, sul clima e non solo, non li sapremo mai. Nel frattempo il capitalismo si rinnova dietro la targhetta green (12) e noi cittadini ci diamo da fare con il riciclo, l’auto elettrica, il risparmio energetico, le case ecologiche…
1) Salvo diversamente indicato, tutti i dati sui test nucleari statunitensi sono tratti dal documento a cui rimandiamo per maggiori dettagli: Natural Resources Defense Council, NWD 94-1, United States Nuclear Tests July 1945 to 31 December 1992, 1° febbraio 1994
2) Per il dettaglio di questa particolare operazione, cfr. Defense Nuclear Agency, Operation Argus 1958, United States Atmosph Nuclear Weapons Tests, Nuclear Test Personnel Review, 30 aprile 1982 Unclassified
3) Ibidem
4) Cfr. Defense Threat Reduction Agency, Operation Dominic I, Settembre 2021
5) Cfr. Scuola del Dipartimento della Difesa USA, Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025 (La meteorologia come moltiplicatore di forze: possedere il meteo nel 2025), 17 giugno 1996. Il documento è “concepito in ottemperanza alla direttiva del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica di esaminare i concetti, le capacità e le tecnologie di cui gli Stati Uniti avranno bisogno per rimanere la forza aerea e spaziale dominante in futuro”, nel campo della modifica meteorologica: “Possedere il meteo capitalizzando le tecnologie emergenti e concentrando lo sviluppo di tali tecnologie sulle applicazioni belliche”. Nella fattispecie: precipitazioni, nebbia, tempeste e controllo delle comunicazioni tramite modifica della ionosfera. Lo studio è una dichiarazione di intenti, nulla più, ma è significativa la sua stessa esistenza, poiché gli Stati Uniti vent’anni prima, nel 1976, avevano firmato il Trattato ENMOD. In merito all’Operazione Popeye, alla nota 1 del capitolo 4, si legge: “Un programma pilota noto come Progetto Popeye, condotto nel 1966, tentò di estendere la stagione dei monsoni per aumentare la quantità di fango sulla pista di Ho Chi Minh, riducendo così i movimenti del nemico. Un agente a base di nuclei di ioduro d’argento fu disperso nelle nuvole da aerei WC-130, F4 e A-1E, su porzioni della pista che si snodava dal Vietnam del Nord attraverso il Laos e la Cambogia fino al Vietnam del Sud. I risultati positivi di questo programma iniziale hanno portato al proseguimento delle operazioni dal 1967 al 1972. Anche se gli effetti di questo programma rimangono controversi, alcuni scienziati ritengono che abbia portato a una significativa riduzione della capacità del nemico di portare rifornimenti nel Vietnam del Sud lungo la pista.”
7) Committee to Study the Long-Term Worldwide Effects of Multiple Nuclear-Weapons Detonations, Assembly of Mathematical and Physical Sciences, National Research Council, Long-Term Worldwide Effects of Multiple Nuclear-Weapons Detonations, agosto 1975
8) https://www.eea.europa.eu/it/publications/92-828-3351-8/3it.pdf/view
9) Ibidem
10) Ibidem
11) Nigel Harle, Vandalizing the Van Allen Belts, Earth Island Journal, Vol. 4, No. 1, Winter 1988-89
12) Cfr. Giovanna Cracco, Capitalismo e ambientalismo. La transizione (non) ecologica, Paginauno n. 78, giugno 2022