L’uso dello ‘sport nazionale’ come strumento di consenso e propaganda fascista
L’Italia fascista è stata senz’altro il primo Stato, insieme all’Unione Sovietica, ad aver organizzato una politica sportiva e genuina con lo scopo di trasformare gli italiani in “una nazione sportiva” (1). Il primo passo fu la progettazione e la realizzazione di un’ampia opera di lavori pubblici: mirando a costruire tanto i campi littori – un modello standardizzato di stadio per la pratica di massa nelle piccole e medie città – quanto gli stadi Littoriale (Bologna), Berta (Firenze) e Mussolini (Torino), autentiche vetrine architettoniche, il regime volle rompere con l’apatia atletica dell’Italietta liberale e forgiare l’uomo nuovo, che sarebbe stato, anche, un homo sportivus.
Le pose del ‘primo sportivo d’Italia’, Mussolini in persona, del ‘gigante buono’ Primo Carnera che saluta romanamente, le vittorie olimpiche di Luigi Beccali (1932) o di Ondina Valla (1936) sono, tra le altre, le figure più emblematiche dello sport in camicia nera, all’interno del quale il calcio ha occupato uno spazio particolare. Per semplificare le cose, si potrebbero, in effetti, considerare immagini simbolo del calcio del Ventennio, le squadre di serie A schierate in linea per salutare le gerarchie sedute nelle tribune d’onore degli stadi italiani. O gli Azzurri del ’34 – il portiere della Juventus Giampiero Combi in testa – che sollevano la Coppa del Duce, l’altro trofeo assegnato al termine della finale della seconda Coppa del mondo della Fifa, disputata nello stadio del Partito nazionale fascista.
Sarebbe tuttavia una visione parziale considerare il calcio sotto il regime alla stregua di un calcio meramente ‘fascista’. Primo, perché non era lo sport di regime. Secondo, perché la cultura del calcio deve essere reinserita in un contesto più ampio in cui vanno inclusi anche il calcio e lo sport europei. Terzo, perché solo in mancanza di meglio i calciatori e la passione calcistica furono strumentalizzati dal regime e dalle autorità sportive legate al partito. Sono quindi questo sistema sportivo complesso e la sua memoria che qui si intende analizzare.
Trasformismo e apolitismo: la memoria del calcio sotto il fascismo dopo il ’45
Lo sport e il calcio furono forse l’eredità meno problematica che l’Italia del dopoguerra poteva raccogliere dal Ventennio. Allorché le ambizioni di raggiungere e mantenere il rango di grande potenza svanirono, con l’avventurosa politica estera di Mussolini, lo sport fu “il solo terreno sul quale l’orgoglio nazionale poteva esprimersi senza riserva” (2). E benché le pagine sportive dei quotidiani italiani non erano state avare di metafore guerriere, il calcio apparve come un segno della pace e della libertà ritrovate.
Fascismo e calcio dalla guerra all’occupazione tedesca
Eppure… Al contrario del maggio del 1915, nel quale tutte le competizioni sportive nazionali erano state annullate fino alla fine del conflitto, il regime scelse di lasciarle svolgere, malgrado l’entrata in guerra del 10 giugno 1940. Era, secondo la stampa asservita, la dimostrazione della normalità della situazione, una sfida agli inglesi che cominciavano a bombardare le grandi città italiane. Un uomo d’ordine come Vittorio Pozzo, nello stesse tempo Commissario unico della nazionale e giornalista – condizione che gli permetteva di commentare e giudicare le prestazioni azzurre sul quotidiano La Stampa – collegava questa scelta a quella dell’alleato tedesco. Il 23 ottobre 1941, sul giornale torinese scriveva: “Sotto quest’aspetto ha visto la questione il Partito nel dare la sua adesione alla ripresa del campionato, proprio nelle attuali contingenze. Sotto questo aspetto ha considerato la cosa la nostra grande alleata, la Germania. Il capo dello sport tedesco, richiesto al momento dell’inizio della offensiva contro la Russia, se era il caso di riprendere il campionato di calcio, rispose con una parola sola, una parola che tagliò corto agli indugi: ‘Weitermachen’. Proseguire”.
Se il calcio era stato messo al servizio della propaganda di guerra, i calciatori furono messi anche alla sbarra degli accusati. Al contrario di alcuni loro colleghi, atleti o ciclisti, vennero infatti molto spesso considerati degli imboscati, poiché lasciati a disposizione delle loro sociétà. Tuttavia, l’accusa di essere prima di tutto dei mercenari non era nuova. Per molti versi derivava dalla diffidenza nutrita nei confronti del calcio, alla fine degli anni Venti, dai gerarchi dello sport fascista come Lando Ferretti, presidente del Coni, o come Augusto Turati, segretario del Partito nazionale fascista. Ma in un contesto di guerra, tali accuse tornavano nuovamente ad assumere rilievo. A tal punto che La Gazzetta dello Sport, alludendo a un articolo del Popolo d’Italia, il 4 aprile 1943, riferendosi al fronte, chiedeva: “Dove sono gli sportivi?” Occorre precisare che la prospettiva di uno sbarco degli Alleati si faceva sempre più reale.
Dopo la caduta di Mussolini e l’invasione tedesca, per il mondo del calcio si trattò soprattutto di aspettare giorni migliori. Furono ben pochi quelli che scelsero di schierarsi da una parte o dall’altra durante la guerra civile. Bastò per rifarsi una verginità? In ogni caso, la squadra del Torino che si era rinforzata a colpi di milioni di lire fino a “diventare un’esagerazione” (3), alla fine del maggio 1945 prese parte a una manifestazione sportiva e patriottica giocando contro una rappresentativa lombarda, davanti a un pubblico selezionato da Palmiro Togliatti, segretario del Pci.
Secondo Gioventù d’azione, l’organo dei gruppi di giovani partigiani di Giustizia e Libertà, la folla che assisteva alla partita sentì “vibrare nel suo cuore generoso un fremito di libertà, un desiderio imperioso che lo sport al più presto riprenda per cancellare un triste ricordo di oppressione” (4). Vittorio Pozzo, che si vantava di azioni partigiane, intonò a sua volta, al momento della ripresa delle attività calcistiche, la retorica della libertà ritrovata: “Comincia il Campionato” scriveva sulla Stampa del 14 ottobre 1945, “la cosa più desiderata dagli sportivi italiani. Se ne parlava, come di un sogno, al tempo della occupazione tedesca. Poter assistere ancora a un vero campionato italiano”.
Certo, il biennio settembre 1943/ottobre 1945 valeva allora quanto un secolo, in termini di cambiamenti e di rovesciamenti della Storia e degli uomini. Ma Pozzo dava anche un’esemplare dimostrazione di una nuova forma di trasformismo applicata al campo sportivo, dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Prime nostalgie del passato
Il tecnico piemontese non fu neanche tra gli ultimi a ricordare le gloriose ore del passato. Ora che le strutture sportive del fascismo erano state più o meno conservate, a cominciare dal Coni – affidato a un giovane socialista dottore in diritto, Giulio Onesti – Vittorio Pozzo poteva vantare anche lo spirito delle vittorie dell’anteguerra. Il 6 aprile, dopo una vittoria (3-1) ottenuta a Parigi contro la nazionale francese, nel bel mezzo della situazione da guerra civile che circondava le elezioni politiche, sempre sulla Stampa scriveva: “Pareva di essere tornato allo stato d’animo dell’anteguerra, quando la squadra, a incontro terminato, affluiva tutta in una camera stretta, unita, affratellata e commentava l’operato proprio. Miracoli della maglia azzurra”.
Altre voci, tra quelle che avevano dato il tono del giornalismo sportivo durante il Ventennio, iniziarono a evocare in termini piuttosto positivi l’opera del fascismo nel campo dello sport. Uno sport fascista che sarebbe stato più pulito di quello della Repubblica perché sostenuto economicamente dal regime. Fu la spiegazione di Renato Casalbore in Tuttosport del 27 settembre 1948, a proposito della creazione del Totocalcio. Secondo lui, “molti mali guarirebbero il giorno in cui lo Stato italiano fosse in condizione di sostenere lo sport: difficile appare ora l’investimento di una situazione creata all’avvento delle scommesse sulle partite di calcio. Il regime fascista fu sempre contrario a tal genere di iniziative; ma il regime sovvenzionava ampiamente lo sport”. E concludeva: “La differenza è sostanziale”.
Da Rimet a Vaccaro
Se, da un lato, la citazione di Casalbore non deve essere interpretata come l’espressione di una specie di nostalgia del fascismo, bensì come un rimpianto del dinamismo e dei successi dello sport italiano sotto il fascismo grazie al sostegno del regime, dall’altro la dottrina ufficiale dell’apoliticità dello sport, in corso negli ambienti sportivi, giustificava questo tipo di sguardo benigno sul passato.
Non si trattava solo di una mania italiana. Questo sguardo era diffuso in tutta la società internazionale dello sport. A cominciare da Jules Rimet, il presidente francese della Fédération internationale de football association (Fifa) dal 1921 al 1954. Alla fine della sua presidenza e della sua vita, Rimet scrisse un opuscolo su “il calcio e il riavvicinamento dei popoli” nel quale sosteneva che, lungi dal creare tensioni tra le fazioni sportive e i popoli, il calcio contribuiva al loro affratellamento (5). E rievocando, nello stesso anno (1954), la “meravigliosa storia della Coppa del mondo”, Rimet relativizzava il carattere politico dell’edizione italiana (1934). In particolare, rifiutava di identificare Giorgio Vaccaro, il presidente della Figc – peraltro, console della Milizia – come lo strumento di controllo del potere fascista sul calcio. “Non dobbiamo giudicare nel Generale Vaccaro” scriveva Rimet vent’anni dopo, “il personaggio politico. Ma lo sportivo ci appartiene. Abbiamo il diritto di dire che è stato per l’associazione italiana un presidente prestigioso e che tutti quelli che sono stati in relazione con lui debbono dare la testimonianza della loro simpatia” (6).
Un aspetto della politicizzazione del calcio negli anni Trenta
Da una decina di anni, giornalisti e storici hanno deciso di indagare sul calcio del Ventennio. Sia sotto l’aspetto dei grandi protagonisti (7), sia sotto quello della storia culturale e politica (8), le loro opere hanno insistito sulla politicizzazione e sullo sviluppo del calcio sotto il fascismo. Purtroppo, quando si cercano negli archivi segni di questo processo, i risultati spesso deludono. Le fonti dell’archivio centrale di Stato rivelano, per esempio, che Mussolini si era mostrato molto indifferente all’organizzazione della Coppa del mondo, fino alla vigilia dell’evento. Il mantenimento dell’ordine pubblico durante le partite era certamente la preoccupazione principale dei prefetti e dei questori, ma ciò non significa che lo sport che stava diventando ‘lo sport nazionale’ non scampasse alla politicizzazione in corso nella società italiana. Anche se questo fenomeno deve essere ricondotto in un quadro europeo.
Un matrimonio di ragione
Lando Ferretti, il fascista colto e perbene, incaricato del controllo del Coni, riassumeva bene la posizione particolare del calcio all’interno del sistema dello sport fascista. Scriveva nel 1928 che “le fortune travolgenti del calcio fra noi, per il suo meraviglioso adattarsi al temperamento della stirpe, sono uno dei fatti salienti della ripresa sportiva italiana”. Ma aggiungeva egualmente: “Certo il foot-ball (sic) ha potentemente contribuito a questa ripresa, ma oggi col suo incipiente professionismo e con le sue aspre contese campanilistiche cui dà luogo, ne compromette i successivi sviluppi” (9).
Corruzione, violenze di tifosi, denaro componevano già il cocktail del calcio, anche se in misura minore rispetto a oggi. E i calciatori erano già accusati di comportarsi come dei mercenari. A tal punto che Augusto Turati in persona cercò di limitare la sua diffusione, creando uno ‘sport di sintesi’ a uso dei dopolavoristi come la ‘volata’, e decretò il rugby “sport fascista per excellenza” per farne il gioco dei Gruppi universitari fascisti (Guf).
Ma la passione delle popolazioni urbane per il calcio era tale che sembrava impossibile arrestarne la crescita. Piuttosto che combatterlo, sembrò più utile assegnargli l’obiettivo di contribuire al consenso e di tenere alti i colori dell’Italia nelle competizioni internazionali.
Il calcio e la politicizzazione dello sport negli anni Trenta
La politicizzazione dello sport in generale, e del calcio in particolare, non era una peculiarità solo dell’Italia fascista. Le federazioni sportive si mostravano avide di riconoscenza da parte delle autorità statali. Nel 1927, la federazione francese di calcio invitò il presidente della Repubblica Gaston Doumergue alla finale della Coppa di Francia. Nasceva in quel momento una tradizione, ispirata alla FA Cup inglese. Ogni anno, da allora, la personalità più importante della République assiste alla Fête nationale du football française, per analogia con il 14 luglio. Il fatto che, da Gaston Doumergue a Nicolas Sarkozy, i presidenti abbiano consegnato il trofeo al capitano della squadra vincente non è senza significato. La formula della Coupe, una competizione nella quale le squadre dilettanti incontrano quelle dei professionisti in una partita a eliminazione diretta, incarnava non solo la democrazia dello sport ma anche l’ideale della meritocrazia e dell’egalitarismo repubblicani. Nella Coupe de France, dei dilettanti seri e allenati potevano eliminare delle vedette poco motivate, esattamente come un ragazzo, titolare di una borsa di studio statale, poteva salire nella scala sociale tramite i suoi successi scolastici.
Gli anni Trenta vedranno anche le prime politiche sportive democratiche, in reazione a quelle degli Stati totalitari. Furono i governi di Front populaire (1936-1938) a integrare lo sport e l’educazione fisica in un progetto politico più globale. Ma i giochi di Berlino avevano anche provato che lo sport poteva servire come arma politica. Così, la diplomazia britannica suggerì ai giocatori della nazionale inglese di effettuare il saluto nazista prima della partita contro la Germania allo stadio olimpico di Berlino il 14 maggio, meno di due mesi dopo l’Anschluss (10). Era il contributo calcistico alla politica dell’appeasement…
L’immagine di una Italia virile e moderna
Non era questo, tuttavia, il significato attribuito alle vittorie azzurre dalla propaganda fascista. In effetti, lo sport costituiva un altro modo di assumere i desideri di potenza almeno dal punto di vista simbolico. E un gerarca sportivo come Lando Ferretti, sosteneva la necessaria sovversione ideologica dei valori dello sport. Denunciava in particolare l’internazionalismo decoubertiniano. Per lui lo sport internazionale doveva produrre una gerarchia tra le nazioni, dimostrare il valore di una razza, e non contribuire alla pace tra i popoli.
Di fatto lo sport, accanto alle imprese aeree come quelle di Italo Balbo, proponeva all’estero un’immagine dinamica, giovane e finalmente virile e moderna dell’Italia. Per la stampa popolare parigina, simpatizzante del regime e sovente ‘corrotta’ dai servizi di propaganda italiani, il campione italiano, che fosse Giuseppe Meazza, Tazio Nuvolari o Alfredo Binda, incarnava l’Italia nuova, disciplinata dal suo duce. Gli stadi di Firenze o di Torino erano portati a esempio e ispiravano gli architetti che progettarono gli stadi-velodromi di Marsiglia e Bordeaux nella seconda metà degli anni Trenta. A tal punto che, alla vigilia della Coppa del mondo di calcio organizzata in Francia (1938), la stampa francese si allarmava per il paragone che gli stranieri avrebbero potuto fare con l’edizione italiana, giudicando gli stadi francesi troppo piccoli per una competizione mondiale. La vittoria finale di Pozzo e dei suoi uomini nello stadio di Colombes, il saluto romano del capitano Meazza al presidente della Repubblica francese Albert Lebrun prima di ricevere il trofeo, confermarono il timore dei giornalisti francesi. Due anni dopo Berlino, le imprese e i successi sportivi delle dittature, accompagnavano la loro aggressività diplomatica.
Il calcio negli anni Trenta tra cultura di massa transnazionale e consenso italiano
La stampa sportiva europea dipingeva volentieri il carattere politico del calcio italiano. Pubblicando una serie di caricature sugli stili nazionali dopo il mondiale del ’34, il settimanale francese Football mostrava un Azzurro trionfante mentre salutava romanamente un Mussolini marziale (11). Con un dettaglio ‘umoristico’. Sulla tribuna, sulla quale era rappresentato il duce, era disegnato anche il fascio del littorio coperto dal pallone. Una maniera per dire, come avrebbe affermato Rimet vent’anni più tardi, che il calcio poteva cancellare una parte della carica politica che gli si voleva attribuire.
Il calcio, una cultura oltre le frontiere
Benché il calcio fosse organizzato su un piano nazionale e le partite internazionali fossero definite matchs internations, la cultura del calcio prodotta e trasmessa dalla stampa sportiva era in parte transnazionale. I direttori di testate come Walther Bensemann (Der Kicker, prima dell’avvento al potere dei nazisti), Gabriel Hanot (Le Miroir des Sports) o Marcel Rossini (Football) formavano una società di giornalisti che scambiavano informazioni e facevano circolare immagini e rappresentazioni del gioco. Il calcio italiano era esso stesso aperto al cosmopolitismo sportivo fin dall’inizio. Certo, Leandro Arpinati, il ras di Bologna, presidente della Figc, aveva vietato l’importazione di calciatori stranieri nel 1926, chiudendo un periodo nel quale molte vedette erano austriache o ungheresi. Ma l’utilizzazione degli ‘oriundi’, questi argentini o brasiliani che, come Raimundo Orsi o Luis Monti, vestivano la maglia della nazionale, dava un tocco esotico al neonato campionato di serie A.
La Mitropa Cup, la Coppa internazionale, le Coppe del mondo del 1934 e del 1938, e gli incontri amichevoli internazionali, offrivano altrettante occasioni di vedere all’opera i grandi giocatori stranieri – in particolare i danubiani – o di leggere la descrizione dei loro successi nelle ampie pagine dedicate allo sport dalla stampa italiana durante il Ventennio. Non a caso Carlo Levi, evocando l’atmosfera del dopoguerra e del governo Parri, ricorda a un redattore del giornale di cui è direttore, le stelle degli anni Venti e Trenta. “Zamora, Mateo, Hirzer la gazzella, Sindelar cartavelina. Quei nomi, come una realtà poetica ed eternale, spingevano lontano da lui ogni cosa presente, e la politica e il giornale” (12).
L’uomo nuovo del calcio: un piccolo borghese
Allorché Primo Carnera simbolizzava nolens volens la brutalità fascista e una Italia immaginaria popolata da giganti e altri Maciste, i calciatori simbolizzavano, al contrario, la velocità e la destrezza. Giuseppe Meazza fu soprannominato ‘balilla’, sicuramente in virtù della sua giovane età ma anche perché non era un colosso. La tecnica e la vista gli permettevano di ingannare la guardia dei più feroci terzini. Aveva anche un bel sorriso, che la stampa francese faceva ammirare; una forza seduttiva paragonabile a quella degli attori del cinema.
Il fascino dei calciatori non era limitato ai campi da gioco. La stampa degli anni Trenta amava far conoscere l’uomo oltre che lo sportivo. Il calciatore era quello che poteva raggiungere uno stile di vita da cui la maggiore parte degli italiani era esclusa. Automobili Fiat per Meazza (una Balilla, ovviamente) o per Orsi; vacanze sul litorale tirreno a Forte dei Marmi per Rosetta, il terzino della Juventus, e per tutti la gestione di un bar o di un negozio. Nella ‘biografia’ di Rosetta, il giornalista Erberto Levi evocava il progetto dell’ex calciatore della Pro Vercelli in questi termini: “Iniziativa commerciale e industriale, in una parola. Virginio Rosetta amministra i frutti dei suoi risparmi con la stessa saviezza con cui amministra i suoi trentatré anni d’atleta” (13). Nessuno spirito di sacrificio al regime, ma piuttosto spirito di risparmio piccolo borghese. Rosetta non seguiva quindi la definizione dello sport secondo Lando Ferretti nel suo breviario atletico: “Lo sport è per noi anzitutto e soprattutto, scuola di volontà che prepara al fascismo i consapevoli cittadini della pace, gli eroici soldati della guerra” (14), scriveva nel 1928 il capo del Coni.
Il consenso calcistico
Se i raduni di massa organizzati da Achille Starace hanno potuto contribuire a costruire il consenso ottenuto da Mussolini, secondo Renzo De Felice, per una grande parte degli italiani nella prima metà degli anni Trenta questo non bastava. Certo, Nuto Revelli poté ricordare che per lui “il fascismo e lo sport erano la stessa cosa” e che era “orgoglioso dei suoi nastrini e delle sue medaglie” (15). In questo modo, lo sport, associato ai riti del Campo Dux, poteva lusingare il “narcisismo dei piccoli in divisa” (16).
Per i più grandi, il richiamo del moschetto e della divisa era senz’altro meno forte. O forse il proposito militaresco del regime non era per loro il volto più efficace dell’immagine del fascismo. Ma, come altrove nell’Europa dell’ovest, i vettori italiani della cultura di massa erigevano a modello un modo di vita moderno e spensierato. In questo senso la vita dei calciatori era l’equivalente sportivo dei film dei ‘telefoni bianchi’. E, con il suo primo sistema di protezione sociale, il dopolavoro, grazie al quale i giovani adulti potevano per di più acquistare a buon prezzo i biglietti per vedere le partite di serie A, il regime prometteva anche un presente e un avvenire migliori. Illusione che affondò nelle guerre mussoliniane.
Ma lo stadio offriva anche la possibilità di esprimere quella rabbia che era esclusa dal campo sociale e politico. In particolare quella relativa al campanilismo, a tal punto che nel 1932, Il Littoriale, il quotidiano organo del Coni, dovette richiamare l’esasperazione espressa dal duce contro tutte le manifestazioni di regionalismo (17). Malgrado i decreti legge promulgati da Federzoni dopo la sparatoria della stazione di Porta Nuova nel 1925, al termine della finale Bologna-Genoa, una situazione elettrica accompagnò le partite di calcio fino al 1943. Furono in parte tollerate perché non si trattava di tensioni politiche e, in fin dei conti, non rappresentavano un pericolo per il regime. I tifosi al più erano una specie di ‘indifferenti’ degli stadi, come i protagonisti del romanzo di Alberto Moravia uscito nel 1929.
Conclusione: storia e memoria del calcio durante il Ventennio
Da qualche anno, calciatori come il portiere del Milan Christian Abbiati, fanno il loro coming out mussoliano. Se avessero la curiosità di sfogliare i periodici pubblicati durante il Ventennio, potrebbero verificare che i loro predecessori non erano affatto gli idealtipi dello sportivo fascista e che furono anche accusati di essere dei mercenari o peggio degli imboscati. Ciò significa che la storicizzazione di questo aspetto della storia del Ventennio è necessaria per capire la passione degli italiani per il campionato di serie A, il quale è senz’altro l’istituzione più solida del Novecento italiano!
Questo non significa che il calcio non fu politicizzato. Il ‘giornalista’ Vittorio Pozzo ne dà numerosi esempi. Una ragione di più per lui e suoi colleghi, come Bruno Roghi, direttore della Gazzetta dello Sport, per gettare un velo pudico nell’immediato dopoguerra su queste relazioni pericolose tra calcio e regime e per costruire, con altri ‘gerarchi’ dello sport, la leggenda dell’apolitismo sportivo che innerva la memoria dello sport.
È quindi questa ambivalenza, questa complessità della posizione del calcio e dei calciatori sotto il regime, che fa di questo sport un osservatorio singolare e pertinente degli anni del fascismo.
* Storico, francese, specializzato nella storia dello sport, in particolare del calcio. Tra le sue pubblicazioni: Histoire du football, Paris, Éditions Perrin, 2010
(1) Sport e fascismo. La politica sportiva del regime 1924-1936, Felice Fabrizio, Guaraldi, 1976
(2) Storia della prima Repubblica, Aurelio Lepre, Il Mulino, 1993, pag. 146
(3) Il film del Campionato di calcio 1942-1943
(4) Gioventù d’Azione. Giustizia e Libertà, anno 2, n. 4, 27 Maggio 1945
(5) Le football et le rapprochement des peuples, Jules Rimet, Fifa, 1954
(6) Histoire merveilleuse de la Coupe du monde, Jules Rimet, Union européenne d’éditions, 1954, pag. 99
(7) Vittorio Pozzo. Storia di un italiano, Mauro Grimaldi, Società Stampa Sportiva, 2001
(8) in particolare Football and Fascism: the national game under Mussolini, Simon Martin, Berg, 2004
(9) Il Libro dello Sport, Lando Ferretti, Libreria del Littorio, 1928, pag. 164
(10) Su questo episodio dell’appeasement sportivo cfr. Scoring for Britain: international Football and International Politics 1900-1939, Peter J. Beck, Franck Cass, 1999
(11) Football, 28 giugno 1934
(12) L’Orologio, Carlo Levi, Einaudi, 1989 (prima ed. 1950), pag. 192
(13) Viri (Virginio Rosetta): piccola storia di un grande atleta, Erberto Levi, Editrice Popolare Milanese, 1935
(14) Lando Ferretti, op. cit., pag. 225
(15) Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Nuto Revelli, Einaudi, 2003, pagg. 14-15
(16) Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Antonio Gibelli, Einaudi, 2005, pag. 319
(17) Dopo la parola del Duce. Basta coi regionalismi!, Il Littoriale, 28 luglio 1932