Simona Fraudatario e Gianni Tognoni*
Dal 1979 un altro Diritto e un’altra giustizia: la tribuna che non rappresenta il dominio dei vincitori ma la voce dei popoli nella conquista e gestione dei loro diritti costitutivi
Il contesto di crisi che caratterizza lo scenario internazionale, con la esplicitazione della realtà di una guerra guerreggiata anche nel cuore dell’Europa, ha imposto all’attenzione globale una domanda che non ha nulla di nuovo nella sostanza, ma che era rimasta confinata tra le ‘questioni’, dottrinali e politiche, di cui è nota, contraddittoriamente, nello stesso tempo, l’importanza di fondo e la loro ‘obbligata’ negazione.
Nella sua formulazione classica, dal sapore antico e simbolico, la domanda è nota: “C’è un giudice a Berlino?”. E la risposta era altrettanto nota, tanto da essere assunta come ovvia; come la conclusione, liberatoria, di una favola piena di paura che viene raccontata a bambini che hanno paura del buio: “Certo: il giudice c’è! Anche per i più deboli… E fa prevalere la ragione…”. Nella storia reale, la favola aveva avuto un seguito che più buio non poteva essere: la notte-nebbia del nazismo, e la Seconda guerra mondiale. Norimberga, con la sua tempestività ed effettività penale, aveva rappresentato nell’immaginario collettivo la nuova frontiera che si poteva intravedere: era un Tribunale dei vincitori sui vinti, ma avendo come sfondo la novità assoluta della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Gli umani, tutti, nessuno escluso, come singoli e come popoli, erano più che destinatari, soggetti e giudici della traduzione della Dichiarazione nella storia reale: con la decolonizzazione (…per quanto difficile, contraddittoria, lenta), ma soprattutto con l’affermazione della ‘pace’ come indicatore indiscutibile e obiettivo inviolabile di rapporti internazionali tra ‘Stati’, che si dichiaravano legittimi rappresentanti dei popoli nella misura della loro capacità di democrazia, interna e nelle relazioni internazionali. Non c’è bisogno di ri-raccontare una storia che, al di là di tanti ‘progressi’, nella dottrina, nelle Convenzioni, nei Trattati non ha certo mantenuto le promesse e le attese.
1. L’aggressione all’Ucraina e la paralisi del diritto internazionale
Lo scenario del diritto internazionale nel quale viviamo coincide di fatto con una constatazione molto semplice: la guerra nel suo senso più classico non ha mai cessato di essere, nei modi più diversi, una protagonista, e la sua riammissione progressiva, anche formale, come strumento possibile-necessario (travestito delle più improbabili qualificazioni di democrazia, etica, diritti umanitari) nel ‘regolare’ i rapporti tra gli Stati. L’assenza attuale, in un caso ‘di scuola’ come l’aggressione russa all’Ucraina, di vie di uscita che abbiano la pace al centro dell’attenzione e della diplomazia, testimonia qualcosa che è più grave dell’assenza: c’è una ‘paralisi’ del diritto internazionale, trasformato in un talk-show globale, spettatore di non importa quale ‘immagine-cronaca’ tragica di popoli trasformati, per un tempo da contrattare, in vittime da mettere sul tavolo di trattative, che hanno come protagonisti e criteri di riferimento non i diritti e la vita delle persone, ma gli intrecci e i conflitti dei blocchi di potere impegnati a ridefinire una geopolitica strettamente condizionata da determinanti economico-militari…
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*Articolo pubblicato nel libro collettaneo Dopo l’Ucraina. Crimini di guerra e giustizia internazionale, a cura di Associazione Società Informazione Onlus, Milieu Edizioni. Simona Fraudatario e Gianni Tognoni fanno parte della Segreteria del Tribunale Permanente dei Popoli