Il cantautore con l’eskimo e i suoi anni Settanta musicali
“Era il dieci luglio/ di una terra senza colpa/ bambini nei giardini giocavano nel sole/ e l’aria era di casa, di sugo e di fatica/ e vecchi nella piazza parlavano d’amore/ e donne al davanzale lanciavano parole/ sepolte ormai nel ventre di madri perdute/ perdute, perdute dal cielo, dal cielo proprio sopra di noi/ che restiamo a guardare/ morire le radici, i preti perdonare/ proprio sopra di voi/ che vivete tranquilli/ nella vostra coscienza di uomini giusti/ che sfruttate la vita/ per i vostri sporchi giochetti/ allora allora ammazzateci tutti, ammazzateci tutti!/ Noi siamo qui prigionieri del cielo/ come giovani indiani risarciteci i cuori/ noi siamo qui, senza terra né bandiera/ aspettando qualcosa da fare/ e che non porti ancora dei torroni a Natale/ telegrammi “ci pensiamo noi”/ condoglianze!/ condoglianze!”
Antonello Venditti, Canzone per Seveso
Prima che i calendari della globalizzazione costringessero a un corollario di giorni appiattiti su coordinate di omologazione e distrazione di massa, in Italia si avvicendavano anni affollati. Se, fra questi, il 1968 è stato annus mirabilis – prova generale di gioia e rivoluzione, zingari ancora felici, piazze affollate di utopie – il 1977 ne ha rappresentato il contraltare austero: l’innocenza illividita in stereotipie di rivolta (G. Gaber, Quando è moda è moda; C. Lolli, Disoccupate le strade dai sogni) e il gioioso antagonismo sfumato in disillusione (dixit). Ciò non consente conclusioni affrettate: ‘68 e ‘77 restano cifre temporali fascinose degli anni ribelli del secolo breve; alfa e omega di un decennio fiammeggiante, spesso immiserito a senso unico interpretativo (anni di piombo), ignorando i traguardi conseguiti in ambito sociale e culturale, sulla scorta del diffuso impegno politico. Il biennio 1973-74, andrebbe ascritto a sua volta come emblema medianodel decennio. Erede (per così dire) dell’utopismo civile sessantottesco, e prologo dell’illividirsi ideologico successivo. Un biennio topico, intriso di eco del passato e anticipi significativi di futuro. Racchiusi in quell’esclusivo ponte temporale stragi “più o meno di stato” (C. Lolli), legge sul divorzio, rapimenti, femminismi, BR, austerity, scandali politici, tentazioni golpiste all’italiana, e altre declinate alla greca e alla sudamericana, fra bombe che esplodono e treni che saltano (Italicus). Il 1974 è stato inoltre anno di inciuci compromissori DC-PCI, dell’arresto paradigmatico del capo del Sid, della destituzione di Nixon causa Watergate. L’anno di “… una vera rivoluzione culturale in atto. Un tempo segnato da una nuova estetica che costringeva a confrontarsi con l’etica della politica fra le stragi, la lotta armata, ma pure il pacifismo e l’ecologismo, la sovversione, il neofascismo e l’eversione, il cattocomunismo e il liberismo, il femminismo, i preti operai, gli psichiatri dell’anti-psichiatria, i nuovi filosofi francesi e italiani, gli studenti lavoratori, i duri dell’Autonomia. Tante ‘espressioni’ socio-politiche intercettate da più forme d’arte, dal cinema alla musica”. (Pino Casamassima, 1974, Baldini+Castoldi)
Bei tempi. Nell’Italia pre-austerity del 1973 la premessa alla carriera discografica di Antonello Venditti era stata già scritta e cantata. Due anni prima, grazie alla trovata di Vincenzo Micocci: un disco a quattro mani, firmato Venditti-De Gregori. Il primo di dichiarate fedi popolari, maoiste e giallorosse, l’altro sovversivo più che altro della forma-canzone. Insomma: tanto allusivo e visionario risulta(va) essere FDG, quanto accorato e politicizzato l’altro. In comune i natali romani e l’impronta del Folkstudio. Theorius Campus (1972) nasce dunque come disco uno e bino: anima e facciate divise in due, e un titolo a raccontare della vocazione ermetica degregoriana più che dell’indole pasionaria di Venditti…
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