di Davide Pinardi |
Nobel per la pace: un premio da sempre asservito agli interessi della politica occidentale
Quesito tormentoso: qual è la migliore guida ai ristoranti d’Italia? È meglio quella dell’Espresso o invece quella di Slow Food? È preferibile l’annuario del Gambero Rosso o la Rossa Michelin?
Ognuno ha la sua risposta. Dipende dai gusti, dalle preferenze, dalle visioni del mondo…
Secondo quesito: ma quanto sono affidabili, in genere, queste guide? Bisogna prenderle come oro colato, come il Vangelo, come dei sacri breviari? O è meglio considerarle come cataloghi di volta in volta più o meno utili e attendibili da prendere sempre con un filo di scetticismo? Domanda retorica, ovviamente.
Tutti o quasi propendiamo – tranne qualche eccezione di fanatico per professione – verso il secondo atteggiamento. Perché sappiamo come vanno queste cose, noi che siamo uomini di mondo: al di là dei sacri proclami di etica e di rigore, chi mai crede davvero alla mitologia, che vorrebbero spacciare per vera, dei segreti assaggiatori, dei rigorosi buongustai, degli incorruttibili savant che vagano in incognito per locali, bettole e osterie di tutto il Regno – su su, nella notte buia e tempestosa, fino ai villaggi e ai borghi più sperduti – al fine di stabilire ‘oggettive graduatorie’ di qualità e merito? Queste sono innocue panzane adatte a divertenti pellicole come Ratatouille, nella quale il topolino buongustaio viene scoperto essere un cuoco capace di creare sublimi zuppe proprio dalla direttrice della Bibbia del Gourmand.
Ma la normalità è differente, lo sappiamo bene. Nelle pragmatiche redazioni delle case editrici di questi volumetti si guardano le graduatorie dell’anno prima già comodamente inserite nel computer, si riceve qualche segnalazione interessata, si contano le pagine vuote e che bisogna riempire, si controlla che un ristoratore non sia magari morto da qualche anno senza che nessuno ce l’abbia fatto sapere (capita, capita…) si telefona all’amico di un amico e ci si fa offrire la cena e un paio di bottiglie per una gita con la fidanzata…
Questa è la vita vera, diciamolo con onestà: un mix di serietà e opportunismo.
E allora come facciamo a scegliere una guida per i ristoranti? Semplice, usiamo le esperienze, nostre e altrui. Usiamo una guida e per tre volte riceviamo delle fregature? Mai più andremo in quei ristoranti e, soprattutto, mai più con quella guida. Un amico che se ne intende ci racconta che con un certo calepino non sbaglia mai? Allora lo compriamo anche noi, l’anno dopo.
Insomma, quando abbiamo bisogno dei consigli o dei suggerimenti di qualcun altro usiamo il buon senso e facciamo tesoro dell’esperienza. Princìpi da utilizzare in ogni situazione della vita, quando possibile. Che ci fanno da scudo – purtroppo non sempre efficace – dalle fregature, dagli imbrogli, dalle furbizie interessate.
In altre parole, quello che conta in chi ci indica una strada, un ristorante o un venditore di auto è il suo tasso percentuale di credibilità: di nessuno ci dobbiamo fidare al cento per cento, ma sappiamo che tra fidarsi all’1% e al 95% esiste una bella differenza. E il mix tra serietà e opportunismo è molto variabile in relazione alle circostanze e alla caratura delle persone.
Passando di palo in frasca (apparentemente): ma voi avete mai visto l’elenco dei vincitori dei Nobel per la Pace in questi ormai centodieci anni del premio? Qua e là alcune grandi figure passate alla Storia e oggettivamente meritevoli. Poi varie persone ormai dimenticate e quindi difficilmente giudicabili (e questo testimonia quanto la Storia sia una questione di memoria mediatica); infine una sequela di personaggi del tutto improponibili. Personaggi incoerenti con quanto il premio vorrebbe affermare (ma cosa esattamente vorrebbe affermare? Mah…).
Qualche esempio?
Theodore Roosevelt, il bellicoso presidente imperialista americano, coinvolto direttamente nella guerra ispano-americana su cui costruisce la sua personale carriera politica, premiato perché dopo aver sollecitato l’espansionismo giapponese in funzione antirussa, nella guerra del 1905 interviene a fare da mediatore tra le parti in conflitto. Insomma, dopo varie decine di migliaia di morti…
E poi Woodrow Wilson il quale, dopo aver patrocinato per fini trasversali il criminale trattato di Versailles che frantuma l’Europa ponendo le basi della guerra successiva, riceve il premio perché sostiene la Lega delle Nazioni.
E che dire di Henry Kissinger, premiato nello stesso identico anno in cui la sua amministrazione orchestrava il colpo di Stato in Cile (l’altro premiato, Le Duc Tho, rifiutava dignitosamente il riconoscimento dato per le trattative di Parigi che miravano alla conclusione della guerra del Vietnam – peraltro al momento fallite – affermando che “in Vietnam non c’è ancora pace”).
La bella coppia Sadat e Begin (il primo un dittatore, il secondo che, qualche anno dopo, sempre in carica, promuoveva l’invasione del Libano del 1982 con gli spaventosi massacri di Sabra e Chatila, e non risulta che il premio gli sia stato ritirato).
Ma al di là di questi casi sconcertanti, l’analisi tecnica, statistica dell’elenco dei premiati nel suo complesso mostra alcune costanti, a prescindere dal merito del premiato.
1) La presenza di leader politici solo e soltanto occidentali (e in particolare anglo-americani) è continua (per esempio, cinque presidenti o vicepresidenti USA di cui tre mentre sono in carica: ma questi leader americani sono proprio dei pacifisti!). I capi di Stato di altre aree del mondo possono essere premiati soltanto quando, si può ragionevolmente affermare, sono venuti incontro ai desiderata occidentali (per esempio il pio Gorbaciov). Vengono premiate anche figure non immediatamente politiche ma che esercitano un’azione politica travestita di umanitarismo che si trasforma in oggettivo fiancheggiamento di posizioni occidentali (per esempio Elia Wiesel, un commovente caso di pacifista al passato…).
2) I premi a emeriti sconosciuti (dunque a persone per la cui opera tali onorificenze sarebbero estremamente utili al fine di difendere e far sopravvivere la loro lotta) sono rarissimi. E se questi erano poco conosciuti prima, tali rimangono anche in seguito, perché il circo mediatico internazionale offre alla loro opera un’attenzione scarsissima. Insomma, la loro personale figura in qualche modo si sacralizza rendendoli intoccabili ma le realtà in cui operano rimangono completamente abbandonate a loro stesse. Questo dimostra che, di per sé, un Nobel per la Pace serve a poco o nulla se altri interessi molto consistenti non vi si accompagnano.
3) Molti premi (soprattutto negli ultimi trent’anni) sono stati assegnati a oppositori – guarda caso – soltanto all’interno di Stati con i quali l’Occidente appare in contrasto o frizione: Walesa e Sacharov durante la guerra fredda, Aung San Suu Kyi in Birmania, Shirin Ebadi in Iran, il Dalai Lama e infine quest’anno Liu Xiaobo in Cina. In questi casi vi è una continua sovrapposizione tra la tematica della pace e quella dei diritti civili: vien dunque da pensare che il riconoscimento di Stoccolma non sia un premio per la Pace bensì per i diritti civili. Ne consegue il punto successivo.
4) Alcune aree geografiche sono straordinariamente sottorappresentate: America latina e Africa, nello specifico (mediaticamente valgono poco…). Eppure sono aree nelle quali sono avvenuti alcuni tra i peggiori crimini contro l’umanità e molti – moltissimi – sono stati coloro che vi si sono opposti pacificamente.
5) Appare smaccatamente evidente una prevalenza numerica di premi al mondo anglo-americano anche nella società civile e non soltanto in quella politica. Ma, si osservi con cura che – a parte Martin Luther King – tutti i premiati sono creatori di organizzazioni di intervento in altre aree del mondo, di opere pie e assistenziali in campo internazionale, di gruppi filantropici per il terzo mondo. In altre parole, sono membri dell’establishment che proclama (giustamente o opportunisticamente) la necessità di intervenire altrove e non all’interno del proprio Paese. Sono persone che raccolgono un po’ di quattrini da miliardari e tycoon e li portano tra i disperati. Meglio di niente, ma stiamo parlando di carità.
Ritornando alla metafora delle guide dei ristoranti, vien da pensare che nel ristretto comitato che decide i Nobel per la Pace, anno dopo anno, ci siano molti furbetti che hanno capito come gira il mondo. Forse tra di loro qualche persona seria c’è, qualche idealista, qualche nobile spirito umanitario. Ma pochi.
D’altra parte il Nobel per la Pace è l’unico premio norvegese e non svedese e il suo direttivo è eletto dal Parlamento in funzione della maggioranza vincitrice alle elezioni (la Norvegia è storicamente un bastione della Nato: che strano. La Svezia no…). Il loro problema principale è come fare gli interessi dei loro sponsor maggiori, diretti o indiretti, interni e internazionali, senza fare una brutta figura. E così lavorano, limano, si impegnano per trovare qualcuno che vada bene, in una parola, all’Occidente, senza che sia davvero impresentabile (e se è persona apprezzabile, tanto meglio). Negli anni in cui non ci sono interessi forti da accontentare si può dare una sterzatina verso l’autenticamente umanitario. Ma quando i padroni premono, allora non ci sono dubbi.
Attualmente, per esempio, si profila una ripresa in grande stile della guerra valutaria con la Cina, dunque è il momento di darle fastidio. Agiscono politicamente, ed è perfettamente logico che molti rispondano politicamente. Non sono dei pii idealisti un po’ allocchi, che compiono errori in buona fede. Sono gente molto scafata con parecchio pelo sullo stomaco.
Il sistema dei media segue con entusiasmo ebete o, più spesso, complice. Ma non è una sorpresa. Proprio come quando scoppia una bomba: se esplode in una nostra piazza è importante, se esplode altrove è banale. E proprio come nel caso delle condanne capitali in giro per il mondo: se è di una donna in Iran (giustamente) ci si indigna e si appendono i suoi ritratti sulle facciate dei municipi; se è negli Stati Uniti si borbotta e in fretta si scorda; se è nelle aree dimenticate del mondo si trascura. A chi importa, in fin dei conti?