Milano, 15 marzo 2012, udienza Appello
Anche la seconda udienza del processo di appello al chirurgo Brega Massone ha riservato quella che nel campo dell’informazione si definisce una ‘notizia’, ma non è la stessa che sottolineano le cronache giudiziarie uscite in tempo reale sulla stampa online. O meglio, ne è una derivazione.
Il sostituto procuratore generale Gian Luigi Fontana ha chiesto la conferma della sentenza di primo grado per l’ex primario di chirurgia toracica della Santa Rita (condannato a ottobre 2010 a 15 anni e 6 mesi) e la sua équipe, i dottori Fabio Presicci (condannato a 10 anni) e Marco Pansera (condannato 6 anni e 9 mesi), rincarando la dose con l’affermazione: “Se fossi stato pm in questo processo avrei contestato l’aggravante della crudeltà in tutti i casi” e non solo in alcuni. Un’affermazione, quest’ultima, perfetta per un titolo di scatola, così come la richiesta di conferma della condanna di primo grado. Eppure la notizia è un’altra, e si presenta in forma di domanda: che fine ha fatto la “zeppa all’intero impianto accusatorio”, frase con cui lo stesso procuratore generale aveva definito, durante l’udienza precedente, la nuova perizia presentata dai difensori di Brega Massone attinente a un caso clinico oggetto del processo e che ne rovesciava totalmente la valutazione (vedi controcronaca del 6 marzo 2012)?
Non si può dire che la definizione di ‘zeppa’ – cioè inciampo, blocco – fosse stata formulata dal pg Fontana in via teorica, ossia prima di aver letto la consulenza: le carte sono state infatti depositate a novembre, e si può supporre che il magistrato non avrebbe certo pronunciato una simile affermazione prima di averle lette. Pare dunque logico chiedersi attraverso quale percorso una ‘zeppa’ si possa trasformare, all’udienza successiva, in un affondo in senso contrario: la richiesta di conferma dell’intero impianto accusatorio con addirittura la nota personale sulla contestazione dell’aggravante della crudeltà per tutti i casi oggetto di processo.
Nel merito, Fontana ha smontato la consulenza Tentori-D’Ambrosi definendola semplicemente non idonea a ribaltare la presunzione di completezza del giudizio di primo grado non essendo, il suo contenuto, tale da generare un ragionevole dubbio nell’impianto accusatorio formulato. E questo perché la parte relativa alle considerazioni tecniche è tal quale un articolo scritto dai due consulenti. Non si comprende, francamente, quanto questo possa inficiarla, dato che ciò rivela semplicemente che i due consulenti hanno valutato il caso sulla base delle proprie competenze mediche, competenze con le quali scrivono anche articoli scientifici.
Il procuratore Fontana ha inoltre affermato di avere richiesto il supporto dei consulenti della procura del processo di primo grado per poter meglio comprendere quanto contenuto nella perizia, e di essere in tal modo giunto alla sua conclusione.
Ora: innanzitutto, non ci si poteva certamente aspettare che i consulenti dell’accusa smentissero se stessi, poiché del caso avevano precedentemente dato valutazione negativa, indicando la mancanza di indicazione chirurgica; non si comprende quindi che valore possa avere questa loro seconda consulenza sullo stesso caso. Dato che, occorre ricordarlo, essi sono consulenti di parte, non super partes, al contrario dei dottori Tentori e D’Ambrosi.
E sempre qui sta il nocciolo della questione: una consulenza super partes in un altro processo, civile, si è allineata alla valutazione del caso clinico fornita dai consulenti della difesa del dottor Brega Massone, smentendo quella dei consulenti dell’accusa fatta propria dalla sentenza di condanna di primo grado. Un ragionamento logico, alla luce di questa prova sopraggiunta, porterebbe ad affermare che, invece di liquidare la consulenza Tentori-D’Ambrosi in maniera sbrigativa, forse varrebbe la pena disporre, finalmente, una perizia super partes su tutti i capi di imputazione del processo.
Stesso discorso vale per il caso di un altro paziente, anche questo riportato nel libro inchiesta.
È il caso della signora C.L., inserito fra le cartelle cliniche del 2007 che la procura ha consegnato il primo febbraio 2008 al dottor Paolo Squicciarini e il 19 marzo 2008 al professor Francesco Sartori, per la valutazione ai fini del dibattimento penale. I due consulenti dell’accusa hanno dichiarato il caso privo di indicazione chirurgica, quindi perseguibile dalla procura, anche se poi, forse a causa dei tempi stretti, non è entrato nel primo dibattimento. Molte cartelle del 2007 sono diventate capi di imputazione in un secondo processo, sempre a carico dell’équipe di chirugia toracica della Santa Rita, ancora nella fase delle udienze preliminari, e forse anche la cartella clinica relativa alla paziente C.L. avrebbe seguito questa strada, data la valutazione medica negativa espressa sia da Squicciarini che da Sartori.
Ma il 7 luglio 2008 (dopo appena un mese dagli arresti e lo scoppio dello scandalo della ‘clinica degli orrori’) la signora C.L. ha presentato una querela alla procura di Milano, relativa alla possibile commissione di reati ex articoli 582-583 e 590 del c.p. (lesioni personali con circostanze aggravanti e lesioni personali colpose). La denuncia è finita sul tavolo del pm Ada Raffaella Mazzarelli la quale, ricostruita la vicenda, ha deciso di chiedere al gip di archiviare il caso perché “dalla storia clinica della querelante non si inferisce alcuna condotta colposa da parte dei medici della Santa Rita, atteso che la diagnosi di TB polmonare interveniva dopo che gli esami istologici avevano escluso la presenza di una neoformazione di tipo tumorale e che gli stessi sanitari del predetto nosocomio, al momento della dimissione post chirurgica, provvedevano a prescrivere accertamenti ulteriori presso una struttura specializzata”.
Il gip Carmen D’Amato nella disposizione di archiviazione ha osservato a sua volta che “nei fatti esaminati nel procedimento indicato non è ravvisabile alcuna volontà di procurare ad altri una lesione da cui possa derivare una malattia nel corpo o nella mente, così come è specificamente previsto dalla norma ex art. 582 c.p.”.
Qui occorre evidenziare che il sostituto procuratore generale Fontana ha affermato che le carte presentate dalla difesa del dottor Brega – cioè l’archiviazione – non sono rilevanti, in quanto il caso C.L. era stato scartato dai ppmm, ossia non inserito tra i capi di imputazione del processo. Ma non è questa la questione – dato che tutto fa pensare che avrebbe potuto essere inserito nel secondo procedimento. Il punto è, ancora una volta, che le valutazioni dei due consulenti della procura, Squicciarini e Sartori, sono state smentite. Sempre lì si torna: non è il caso di disporre una perizia super partes su tutti i casi del processo?
A tale riguardo, il pg Fontana ha affermato che il tribunale di primo grado ha “razionalmente” disatteso la richiesta di perizia super partes poiché nel corso del dibattimento è entrato in possesso di tutti gli elementi per poter autonomamente valutare. Elementi forniti dai consulenti della procura – dato che le valutazione dei consulenti della difesa non hanno trovato asilo nella sentenza – e pare non abbia importanza che le loro conclusioni siano state smentite in questi due casi.
Per quanto riguarda il decreto di archiviazione relativo alla vicenda del dottor Spaggiari, presentato dalla difesa di Brega Massone come prova sopravvenuta, Fontana si è limitato a liquidarlo con poche parole affermando che i casi in oggetto sono completamente diversi da quelli imputati al chirurgo della Santa Rita e dunque il documento non ha alcuna rilevanza.
In merito all’intero impianto accusatorio, c’è ben poco da dire. Il sostituto pg Fontana ha fatto proprio quanto sostenuto dai ppmm Pradella e Siciliano e dal tribunale di primo grado: totale assenza del fine terapeutico degli interventi, rinvenuta sulla base di quanto affermato dai consulenti della procura. Ne consegue che l’intervento in sé si configura come ‘lesione dolosa’: “Brega, Presicci e Pansera volevano effettuare quelle operazioni e si rendevano conto che erano dannose per i pazienti”, afferma Fontana; mentre il movente economico lo si deduce dalle intercettazioni telefoniche, le quali, anche se non riguardano i casi oggetto del processo e anche se nessuna di esse rivela né il dolo né il movente – ossia non contiene alcuna affermazione che possa essere in tal modo interpretata ma anzi, si ascoltano continue rimarcature del fine terapeutico dell’agire del chirurgo (come evidenziato anche nel libro inchiesta, che analizza le telefonate nel dettaglio) – sono comunque un “tassello del mosaico”, secondo Fontana, e mettono in evidenza la natura avida e cinica del dottor Brega.
“Gli elementi di prova non devono essere parcellizzati” afferma il procuratore generale, ma presi nel loro insieme.
Quest’ultima affermazione non è di poco conto e rivela, forse più di altri passaggi, quanto l’impianto accusatorio di questo processo appaia teorematico, ossia quanto l’accusa di dolo, sostenuta da un “mosaico” che non può essere parcellizzato e verificato nelle sue singole tessere, per restare in piedi si ritrovi a dover ignorare eventuali prove che sopravvengono a disturbare l’ipotesi accusatoria (la ‘zeppa’ della perizia Tentori-D’Ambrosi). O sussiste il dolo o niente, ha detto ancora Fontana, ed è vero. Le costruzioni teorematiche hanno infatti una struttura rigida e se si toglie un mattone, crollano. Se decade il dolo non solo decade il movente e quindi decade la truffa; se decade il dolo decade la stessa accusa di lesione, in quanto correlata, nell’impianto accusatorio, alla mancanza del fine terapeutico degli interventi e non al verificarsi di una conseguente malattia, come stabilisce il codice penale; la lesione non può dunque restare in piedi nella fattispecie colposa (errore del chirurgo), poiché in questo caso il fine terapeutico non sarebbe in discussione.
Una nota a margine, che non può essere evitata, riguarda il libro inchiesta pubblicato da Paginauno. Il pg Fontana ha aperto la propria requisitoria con una breve polemica, citando il titolo – E se il mostro fosse innocente? – e affermando che i processi si fanno in aula e non sulla stampa, e non durante ma dopo. Se è in questo libro e in questo titolo che il pg vede il processo mediatico relativo alla vicenda della Santa Rita e del dottor Brega Massone, c’è da chiedersi dove sia vissuto dal giorno dell’arresto (giugno 2008) al giorno della sentenza di primo grado (ottobre 2010), quando la stampa e l’informazione televisiva, sposando da subito la tesi della procura, hanno seguito con titoli da scatola, enfasi e sensazionalismo il processo alla ‘clinica degli orrori’, completamente dimentiche della presunzione di innocenza che si deve a chiunque prima del terzo grado di giudizio. Quello a Brega Massone “non è il processo al dottor Mengele, ma non è neanche il processo Dreyfus”, ha affermato Fontana. Frase che il Corsera ha ripreso a occhiello dell’articolo di cronaca di questa seconda udienza (firmato dalla Redazione Milano online), omettendo di contestualizzarla citando il libro in questione. Perché?