Milano, 16 marzo 2012, udienza Appello
La terza udienza (e parte della seconda) del processo di appello al chirurgo Brega Massone ha visto sfilare le parti civili: gli avvocati di 37 pazienti (su 86 totali, meno della metà infatti si sono costituiti parte civile nel dibattimento di primo grado), della Asl città di Milano, della Regione Lombardia, di Medicina Democratica, di Confconsumatori, dell’Ordine dei Medici di Milano e della Santa Rita, chiamata a rispondere in qualità di responsabile civile.
Non c’è molto da registrare, nel senso che, ovviamente, tutti i legali – tranne quello della casa di cura, che ha una posizione naturalmente diversa e che vedremo – hanno ribadito la posizione già sostenuta nel processo di primo grado, e chiesto quindi conferma della sentenza di condanna, allineandosi alla ricostruzione dell’impianto accusatorio formulata dal sostituto procuratore Fontana. Ossia: gli interventi erano privi di indicazione chirurgica, di conseguenza hanno causato lesioni, che non possono che essere dolose.
Qualche esagerazione nei toni (“scelte medico-chirugiche aberranti”; “mutilazione di un polmone”; un paragone tra la posizione del dottor Presicci e quella degli “ufficiali nazisti sottoposti”, con l’affermazione che entrambi non possono esimersi dalle loro responsabilità dicendo di avere solo eseguito degli ordini), qualche percorso logico che tanto logico non sembra (un consenso non valido, perché rilasciato da un paziente non in grado di decidere – e non è chiaro su quale base è valutata questa incapacità – corrisponde a lesioni di carattere volontario; una eventuale perizia super partes, richiesta dalla Corte, non obbliga poi i giudici ad accettarne il giudizio contenuto, e quindi non serve), ma nel complesso la narrazione – e con questo non si intende squalificare di per sé le arringhe, tutto in un processo è narrazione, sia accusa che difesa – è stata abbastanza sobria.
Quel che più colpisce, è altro.
Come ha affermato anche il pg Fontana all’inizio della sua discussione, questo è un processo difficile, per il campo che va a investire: quello medico. Un ambito per specialisti, molto difficoltoso da affrontare e comprendere per i non addetti ai lavori, e non solo per la forma – i termini specifici – ma anche nella sostanza – la comprensione/valutazione delle scelte terapeutiche effettuate. Quel che più stupisce, quindi, è ritrovarsi ad ascoltare magistrati e avvocati che disquisiscono di medicina, di tac, pet, versamenti pleurici, neoplasie, noduli bilaterali ecc., leggendo e appoggiandosi a relazioni mediche scritte, per forza di cose, da altri, con addirittura una evidente difficoltà di semplice pronunciamento di alcuni termini medici ma, contemporaneamente, con una sicurezza granitica nell’emissione del giudizio (totalmente negativo) sull’operato di un chirurgo toracico.
Si dirà: è inevitabile. Quando una vicenda entra in un tribunale, sono gli avvocati e i magistrati a doversene occupare, e se la vicenda tocca l’ambito medico, avvocati e magistrati dovranno parlare di medicina. Eppure, nulla può togliere dalla testa l’idea che se il tribunale avesse disposto la perizia super partes – o se la disponesse ora, in fase di appello – questa sgradevole sensazione di sentire parlare di medicina chi, con ogni evidenza, di medicina non sa nulla, si sarebbe in parte evitata e il tutto avrebbe avuto – e avrebbe ancora oggi – maggiormente il sapore di competenza, professionalità e rigore.
Certamente nel primo dibattimento si sono confrontati in aula i consulenti medici dell’accusa e della difesa, interrogati dai ppmm e dagli avvocati, ma ciò non elimina il quesito principale: i giudici, che nulla sanno di medicina, su quali basi hanno potuto giudicare corretto quanto affermato dai consulenti di una parte e non corretto quanto affermato dai consulenti dell’altra parte? Ancor più ora, in fase di appello, davanti a una prova sopravvenuta come quella della perizia super partes Tentori-D’Ambrosi, disposta da un altro tribunale, che è arrivata a valutazioni diametralmente opposte a quelle dei consulenti dell’accusa e sposate dalla sentenza, ci si chiede come la si possa liquidare affermando semplicemente (e apoditticamente), come ha fatto il pg Fontana, “che l’assunto [medico] da cui parte la consulenza è sbagliato”.
Per quanto riguarda la posizione della Regione Lombardia, si può immaginare quanto non sia affatto comoda: l’ente si ritrova infatti a dover difendere un sistema – che ha aperto le porte della sanità al privato, drenando denaro pubblico per consegnarlo nelle tasche di pochi ricchi imprenditori che con il business della salute fanno affari e profitti, come ampiamente analizzato nel libro inchiesta sulla base di numeri e dati – il quale, per come è impostato (i rimborsi tramite Drg, la parificazione tra ospedali pubblici e cliniche private accreditate), ben si presta alle truffe. Unica via d’uscita è trasformare la Santa Rita in un’anomalia, nella mela marcia del cesto sano, sottolineando contemporaneamente quanto questa vicenda abbia avuto un risvolto, per così dire, positivo, spronando la Regione ad aumentare i controlli sui Drg; esattamente la posizione che ha tenuto il difensore della Regione.
L’avvocato, tra l’altro, ha sottolineato come alcuni esami diagnostici – che a detta dell’impianto accusatorio avrebbero evitato l’intervento chirurgico – non “siano stati eseguiti anche in relazione a una carenza della stessa clinica Santa Rita”, la quale non aveva al proprio interno la tecnologia necessaria. Eppure, nonostante questo, la Regione aveva ritenuto la casa di cura idonea all’accreditamento al Sistema sanitario nazionale. Naturalmente, in casi simili, è prassi comune fare effettuare gli esami presso altre strutture attrezzate, tuttavia questo passaggio riporta alla mente quanto accaduto nel dicembre 2007 quando, dopo il licenziamento di Brega Massone, il reparto di chirurgia toracica della Santa Rita era stato valutato idoneo nonostante fosse, a tutti gli effetti, un reparto ‘fantasma’ e non in grado di operare, come evidenziato nel libro inchiesta.
In tutt’altra direzione è andata, ovviamente, la discussione del legale che rappresenta la Santa Rita, che deve difendersi dal dover pagare i risarcimenti alle parti considerate lese. In particolare l’avvocato ha contestato la costruzione dello scenario della ‘clinica degli orrori’, all’interno del quale il notaio Pipitone regnava incontrastato spingendo i medici al fatturato, e soprattutto la liquidazione in via provvisoria dei risarcimenti emessa dal tribunale di primo grado, affermando che i giudici hanno fatto una scelta popolare – risentendo, a dire del legale, della pressione del processo mediatico – ma sbagliata, poiché non si può stabilire un risarcimento anche per quei pazienti che non hanno ritenuto di dover fornire prova dell’eventuale danno subìto. Sganciandosi da criteri oggettivi e controllabili – come postumi e durata della lesione, percentuale di invalidità ecc. – la valutazione dell’eventuale danno non è più risarcitoria ma semplicemente punitiva, afferma l’avvocato, e dimostrazione ne è il fatto che cifre tonde ricorrono più volte nella sentenza (come 50.000 euro) senza alcun senso e criterio logico.