Milano, 19 marzo 2012, udienza Appello
Nel processo di appello ai medici della Santa Rita, la parola è passata alla difesa degli imputati. Lunedì 19 è stato il turno degli avvocati dei medici condannati in primo grado per i soli reati di falso e truffa sulle cartelle cliniche – l’accusa di lesioni dolose, infatti, com’è noto, riguarda unicamente l’équipe di chirurgia toracica della casa di cura, i dottori Brega Massone, Fabio Presicci e Marco Pansera, i cui avvocati prenderanno la parola giovedì 22 marzo.
Innanzitutto occorre dire che chi scrive non ha approfondito la vicenda su questo filone del processo e non ha letto le carte giudiziarie del primo dibattimento. Quel che dunque può essere registrato sono solo le valutazioni di quanto espresso in aula dagli avvocati, comparate con quanto affermato dal procuratore Fontana durante la sua discussione del 15 marzo.
Non molto, quindi: solo un confronto tra narrazioni contrapposte.
Eppure la sensazione che se ne trae è netta, e si palesa in un ragionevole dubbio (perlomeno) che vi sia stata effettivamente truffa. Non si tratta di semplice ‘bravura’ oratoria dei legali nel tracciare un quadro – per quanto l’arringa del pg sia stata indubbiamente più sbrigativa, sommaria e superficiale, probabilmente anche a causa dell’ampiezza dell’impianto accusatorio che Fontana ha dovuto affrontare, con la mole di carte che ciò comporta – quanto di supporto documentale a cui hanno attinto gli avvocati dei medici imputati.
L’impressione può essere sintetizzata in tre questioni.
La prima. La codifica dei Drg appare decisamente complessa, soprattutto quando a una diagnosi o a un intervento non corrisponde un codice specifico. Il Drg (esistono circa 600 codici Drg) è infatti il risultato, se così possiamo dire, semplificando, della miscela tra i circa 16.000 codici alfanumerici che contraddistinguono le diagnosi e le procedure (ossia gli interventi). Questo perché il sistema è strutturato sull’accorpamento di patologie che prevedono un analogo assorbimento di risorse economiche, e ne consegue che diagnosi e interventi clinici diversi confluiscono necessariamente in Drg identici. È lo stesso Disciplinare tecnico relativo alle “Istruzioni per la compilazione e la codifica delle informazioni riportate nella Sdo e per il corretto utilizzo della classificazione ICD-9-CM versione italiana” che evidenzia, al punto 2, che “codificare una diagnosi rappresenta un’operazione difficile quando la terminologia medica utilizzata è diversa da quella contenuta nella classificazione adoperata”.
In tali condizioni il banale errore sembra dunque possibile, e per trasformare l’errore in un’accusa di truffa, come ha fatto la procura nel suo impianto accusatorio, occorre dimostrare il dolo. Vi è truffa infatti se vi è la consapevole volontà di indicare un codice falso, più remunerativo rispetto a quello corretto, che si conosce.
E qui si entra nella seconda questione sollevata dagli avvocati dei medici, e sostenuta con documenti alla mano: i controlli dei Noc (Nuclei operativi di controllo), istituiti nel 1997 dalla Regione con il compito di effettuare verifiche a campione, o mirate, sulla codifica Drg delle cartelle cliniche. Ebbene, per molti dei casi oggetto del processo e per i quali la sentenza di primo grado ha ritenuto provata la truffa, i legali hanno presentato documentazione che dimostra come i Noc, durante i controlli effettuati prima dell’avvio dell’inchiesta giudiziaria, avevano ritenuto valide e avallate quelle stesse codifiche che la magistratura ha poi giudicato truffaldine.
Tutto fa pensare, una volta di più, che la codifica non sia affatto un’operazione semplice, se può variare a seconda della soggettività di valutazione del funzionario che la controlla: e non solo perché anche la procura si è appoggiata, ovviamente, a funzionari della Regione e dei Noc per la verifica delle cartelle sequestrate in Santa Rita, ma perché da quanto emerso nel dibattimento di primo grado sembra addirittura che i controlli dei Noc non siano nemmeno uniformi su tutta la regione.
La terza questione riguarda la mera logica, che pare essersi tenuta un po’ alla larga dall’impianto accusatorio.
Innanzitutto, come abbiamo visto, sembra che l’esistenza del dolo, della volontà all’errore, e dunque della truffa, sia stata sostenuta nonostante un percorso logico evidenzi, in due passaggi tra loro disgiunti, che la codifica errata può con ogni probabilità essere frutto di errore in buona fede – primo passaggio: l’errore è possibile data la complessità dell’operazione di codifica; secondo passaggio: la buona fede nella correttezza della codifica effettuata è supportata dall’avallo di un controllo dei Noc.
Ma saltando la prima casella del percorso e ammettendo comunque l’ipotesi di truffa, ci si trova di fronte un altro scoglio logico da superare, stando a quanto hanno sostenuto e supportato con documentazione gli avvocati degli imputati. Se sono un truffatore, afferma più di un legale, ciascuno con gli esempi riferiti al proprio assistito, cerco di mettere in piedi un raggiro che sia il più conveniente dal punto di vista economico e il meno rischioso dal lato della possibilità di essere scoperto. Ovvio. Ma questo ovvio ragionamento sembra non attanagliarsi alle truffe contestate ai medici della Santa Rita.
Per prima cosa, all’interno dei vari reparti sotto accusa sono state ‘falsificate’, nei due anni presi a esame, sempre le stesse tipologie di intervento, e una simile mossa non appare figlia di un truffatore particolarmente intelligente in quanto, una volta scoperta la codifica inesatta in una cartella, risulterebbe molto facile per gli investigatori scoprire il raggiro anche sulle altre cartelle simili; più logico sarebbe ‘spalmare’ la truffa su interventi diversi, rendendo così molto più difficoltoso il suo smascheramento.
In aggiunta, è ipotizzabile che un truffatore metta in piedi un raggiro nel quale il rischio valga il ricavato – stiamo parlando di medici, primari, persone con un buon tenore di vita. Dunque se su 1.500 interventi effettuati in due anni – è il caso del dottor Paolo Regolo, così come affermato dall’avvocato Matteo Uslenghi – la truffa contestata dalla procura riguarda una trentina di cartelle, dov’è il senso logico? Se sono un truffatore non ne falsificherò solo 30, quando ne ho a disposizione ben 1.500 per il mio raggiro. E il senso logico lo si trova ancora meno nell’aspetto economico: il medico avrebbe truffato una cifra pari a 10.000 euro per un anno e 5.800 euro per l’altro.
Davanti a situazioni e numeri simili, si può davvero pensare a una truffa invece che a un errore?
Questo, stando alle parole e ai documenti presentati dagli avvocati, e riassumendo in breve solo alcuni passaggi delle diverse posizioni dei cinque imputati per truffa e falso. Ma per tutte e cinque le vicende, da quanto ascoltato in aula si ricava l’impressione, con dettagli e ragioni diverse, che l’impianto accusatorio soffra di lacune e contraddizioni.
Infine, davanti a una simile situazione, è inevitabile ampliare il ragionamento fino a investire la questione sistemica, approfondita anche nel libro inchiesta. Più si entra nel dettaglio più il sistema dei Drg – in piedi in Lombardia ormai da quindici anni – appare nebuloso e complesso, al punto che la codifica non è uniforme da un controllore all’altro né da una zona all’altra della regione. E se questo permette, da una parte, il verificarsi di situazioni che paiono paradossali come quelle del processo Santa Rita, dall’altra sono proprio la mancanza di regole certe di codifica e la conseguente creazione di zone d’ombra all’interno del Sistema a rendere possibile la truffa. Perché quando non c’è un codice e non c’è una regola chiara, tutto è possibile – fuori e dentro un’aula giudiziaria, fuori e dentro i controlli dei Noc, che per legge sono tenuti a verificare appena il 10% delle cartelle cliniche.
Di certo, individuare la Santa Rita come un’anomalia – la ‘clinica degli orrori’ contro cui si sono scagliati tutti fin da subito, dagli imprenditori della sanità alla Regione alla Asl – è ciò che ha consentito al Sistema di salvare se stesso nel caso di una sentenza di condanna.