Aria, acqua, suolo, dati alla mano stiamo avvelenando noi stessi e il pianeta: già Marx aveva compreso il pericolo della distruzione dell’ambiente insito nel sistema capitalistico
Lo stato di emergenza
La questione ambientale è ormai al centro del dibattito mondiale. Il modello di sviluppo attuale antropocentrico, con il dominio dell’uomo sulla natura, ha compromesso l’ecosistema, e gli effetti si fanno sentire. Il cambiamento climatico e il consumo di suolo senza una pianificazione reale del territorio ci hanno portati a vivere in uno stato di emergenza che, grazie all’utilizzo indiscriminato dei mass media, quasi percepiamo come una situazione di normalità. Gli ultimi incendi in Val Susa, Abruzzo e Lombardia, o la siccità dovuta all’assenza prolungata di fenomeni piovosi, sono solo due dei tanti casi di emergenza che il cittadino è costretto ad accettare, in una situazione di cronicità che è diventata parte del ‘patrimonio genetico’ del modello di sviluppo attuale, del consumo e dello stile di vita precario; potremmo tranquillamente sostenere che siamo passati da una società del progresso a una società del rischio. Come affermato dal sociologo Ulrich Beck, “la società del rischio è una società catastrofica, in essa lo stato di emergenza minaccia di diventare
la norma”.
La relazione causa/effetto di un disastro ambientale, come quella tra uomo e natura, è sempre più evidente: l’accumulazione e l’accelerazione di ‘incidenti’ che di naturale hanno ben poco e molto, al contrario, di artificiale, inserisce gli stessi disastri nella categoria della ‘inevitabilità’ – per consentire al modello di sviluppo attuale di perpetrarsi – e non più in quella del rischio: invece di anticipare l’evento dobbiamo solo attenderlo. Come sostiene Beck, la catastrofe viene normalizzata.
È proprio lo stato di emergenza che porta allo stato di eccezione, come concepito dal filosofo Agamben. Walter Benjamin, nell’ottava delle sue Tesi di filosofia della storia, scriveva: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto”. Lo stato di eccezione di Agamben parte dal concetto di ‘pieni poteri’, attraverso la sospensione dell’ordine costituzionale vigente o di una parte di esso, messa in atto dall’autorità statale che dovrebbe essere il garante della legalità. Per Agamben lo stato di eccezione poggia sulla sospensione del diritto.
Non è un caso che proprio rispetto alle battaglie ambientaliste venga sperimentata tale sospensione, non solo con la militarizzazione del territorio – la lotta contro il gasdotto Tap o contro l’alta velocità in Val di Susa, per citarne giusto un paio – ma anche negando agli enti locali la possibilità di esprimere parere vincolanti. Tutto è deciso a livello nazionale e transnazionale, imposto e fatto accettare. La stessa controriforma costituzionale del governo Renzi, con il tentativo di abolizione del Titolo V e del parere concordante Stato-Regioni, intendeva instaurare uno stato di eccezione per portare avanti modelli di sviluppo e infrastrutture calate dall’alto.
La stessa politica dell’Unione europea, dettata dalle multinazionali e dal potere finanziario, viene imposta agli Stati nazionali in qualità di soluzione al cambiamento climatico (1), mentre nei confronti delle popolazioni è implementata la politica dell’accettazione sociale attraverso i mass media, oppure della repressione.
Nell’attuale sistema capitalistico domina la precarietà, non solo sociale ed economica ma anche ambientale. La rincorsa al profitto ha colpito duramente l’ecosistema con danni incalcolabili. Gli effetti più visibili sono il cambiamento climatico dovuto al surriscaldamento del pianeta e l’inquinamento atmosferico, la perdita della biodiversità, il consumo di suolo e l’inquinamento delle acque. Vediamo alcuni dati.
Cambiamento climatico e inquinamento atmosferico
È notizia di ottobre lo sforamento storico di anidride carbonica, avvenuto nel 2016, registrato dal Bollettino annuale sui gas serra dell’Organizzazione meteorologica mondiale. Dati che non si vedevano da tre milioni di anni – secondo la stima basata sui carotaggi nei ghiacciai – quando le temperature erano superiori di 2-3 gradi e il livello dei mari 10-20 volte al di sopra di quello attuale. Il dato di CO2 di 403,3 ppm (parti per milione) è del 45% superiore a quello pre industriale.
In un anno, dal 2015 al 2016, si è passati da 400 ppm a 403,3 ppm, e dal 1990 si è registrato un incremento del 40% della forza radiativa totale (effetto riscaldamento), con un aumento del 2,5% in un solo anno. Il rischio è quello di non rispettare gli accordi di Kyoto e di Cop 21 di Parigi. Ma non è solo l’anidride carbonica a spaventare. Anche il metano, un altro potente gas serra che contribuisce per il 17% alla forza radiativa, ha raggiunto nel 2016 il livello di 1.853 ppb (parti per miliardo), con un incremento del 157% dall’epoca pre industriale (anno 1750 circa). Il biossido di azoto (NO2), le cui emissioni per il 60% hanno cause naturali e che vale il 6% della forza radiativa, e che colpisce direttamente il sistema respiratorio e contribuisce alla formazione di pm e ozono, ha toccato nel 2016 il limite di 328,9 ppb (+22% sul livello pre industriale).
Nel 2014 il 7% della popolazione urbana dell’Unione europea è stata esposta a concentrazioni di NO2 al di sopra dei valori fissati dall’Oms (Organizzazione mondiale per la sanità) e dalla stessa Ue, con il 94% dei casi causati dal traffico; è stato stimato che 71.000 morti premature sono legate al biossido di azoto, e 17.000 all’ozono. Una situazione che, tra l’altro, vede il rischio che con Cop 23, la conferenza sul clima in corso in Germania in questi giorni (per chi scrive, ossia dal 6 al 17 novembre) verranno proposte drastiche riduzioni per il mercato della CO2, a scapito dell’economia dei Paesi poveri e prevedendo la creazione di nuovi stoccaggi sotterranei di anidride carbonica, vere e proprie discariche (2).
L’inquinamento atmosferico con le pm10 e le pm2,5 ha raggiunto livelli insopportabili. Scrive l’Oms, nel rapporto di settembre 2016, che il 92% della popolazione del pianeta vive in luoghi dove il livello della qualità dell’aria ha superato i limiti fissati per legge. Il 98% dei cittadini urbani è a contatto con un’esposizione all’ozono molto superiore ai limiti stabiliti dall’Oms stessa. Altri inquinanti sono i particolati, i benzopireni e gli idrocarburi.
Secondo la relazione dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) Air quality in Europe-2016 report, l’85% della popolazione urbana della Ue vive in luoghi dove il particolato fine pm2,5 supera i livelli ritenuti dannosi dall’Oms; nel 2014 il 16% è stato esposto a livelli di pm10 superiori al valore limite giornaliero Ue, e l’8% è stato esposto a livelli di pm2,5 al di sopra del valore obiettivo della Ue. Inoltre, rispettivamente il 50% e l’85% degli abitanti delle città sono stati esposti a concentrazioni di pm10 e pm2,5 che superano i valori più rigorosi stabiliti dalle linee guida Oms.
Sempre secondo l’Oms, ogni anno circa tre milioni di decessi nel mondo sono legati all’inquinamento atmosferico esterno; considerando anche quello degli ambienti chiusi, salgono in totale a sei milioni e mezzo. I Paesi a reddito medio-basso sono quelli che pagano il prezzo più alto in termini di vite umane. In particolare, due decessi su tre si concentrano nel Sud-Est asiatico e nell’area del Pacifico orientale. In Cina e India ogni anno si registra un terzo dei morti per smog del pianeta, circa 2,2 milioni di persone, equamente distribuite tra i due Paesi. Questo lo afferma il rapporto State of Global air, pubblicato dall’Health Effects Institute statunitense insieme all’Institute for Healt Metrics Evaluation.
Perdita della biodiversità e consumo di suolo
La crescita economica raggiunta nei decenni passati è stata sviluppata a scapito degli ecosistemi. Secondo il rapporto Fao Lo Stato Mondiale delle Risorse Idriche e Fondiarie per l’Alimentazione e l’Agricoltura del novembre 2011, un quarto dei terreni a livello mondiale è ad alto rischio di biodiversità ed è fortemente degradato, l’8% è moderatamente degradato, il 36% è leggermente degradato.
La perdita della biodiversità è collegata direttamente, in senso inverso, alla ricchezza economica locale: il 40% delle zone degradate si trova nelle aree con i più alti tassi di povertà, il 30% in aree di povertà limitata e il 20% in aree a bassi livelli di povertà. Le cause vanno ricercate nelle pratiche agricole intensive che facilitano l’erosione del suolo da parte di acqua e vento, nella salinizzazione e nell’inquinamento del terreno, nella perdita di nutrienti e nella compattazione del suolo. Le zone più colpite, oltre l’Africa, sono le coste occidentali delle Americhe e i Paesi meridionali dell’Europa mediterranea.
Secondo uno studio pubblicato su Pnas nell’aprile 2013 e svolto da ricercatori dell’Università di Vienna, a causa dell’impatto umano, a lungo termine gli animali si trovano in ambienti inadatti e vanno verso l’estinzione: il 20-40% delle specie esaminate in ventidue Paesi europei corre un rischio medio-alto di estinzione.
Anche il consumo di suolo, il suo utilizzo commerciale e la cementificazione sono causa di perdita di biodiversità. Secondo il rapporto Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici, edizione 2017, dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), in Italia, nei primi mesi del 2016, sono stati persi tre metri quadrati di terreno ogni secondo. Dagli anni Cinquanta il consumo di suolo è cresciuto del 184%, anche se ora, per la crisi economica, il dato è in calo: su un totale di 301.000 km quadrati, il consumo di suolo ha raggiunto il 7,6%, pari a 23.000 km quadrati, che equivalgono alla somma del territorio di Molise, Liguria e Campania. Tra il novembre 2015 e il maggio 2016 ha toccato 30 ettari al giorno, per un totale di 5.000 ettari, pari a oltre 7.000 campi da calcio, 1.250 piazze San Pietro o 40.000 piscine olimpioniche.
Da oggi al 2050, sempre secondo l’Ispra, qualora perdurasse la crisi economica, verranno persi ulteriori 327.000 ettari; in caso di ripresa economica sarebbero 832.000, pari a 8 metri quadrati al secondo. Le aree protette come i parchi, tra il 2015 e il 2016 hanno subito una perdita di 48 ettari. In Lombardia e Veneto il consumo di suolo registrato nel 2016 è stato di oltre il 12%, quasi
il doppio rispetto alla media nazionale.
La Lombardia detiene il primato anche in termini assoluti, con quasi 310.000 ettari del proprio territorio coperto artificialmente, contro i 9.500 della Valle D’Aosta. Nell’intero Paese si è passati dal 2,7% di consumo di suolo degli anni Cinquanta a oltre il 7% di oggi.
Inquinamento delle acque
La siccità, causata dal cambiamento climatico, ha compromesso buona parte dell’agricoltura, e sono sempre più i pozzi abusivi per la captazione di acque di falda a permettere l’irrigazione. Sul piano dell’inquinamento, sempre secondo l’Ispra, per il periodo 2013-2014 nel 64% di fiumi e laghi (era il 56,9% nel 2012) e nel 31,7% delle acque sotterranee sono presenti pesticidi, tra cui il glifosate; durante i controlli del monitoraggio sono state trovate 224 sostanze diverse, registrando un sensibile aumento rispetto al 2012, quando erano 175.
Gli erbicidi sono i più numerosi, ma aumentano anche insetticidi e fungicidi. Nel 21,3% delle acque superficiali le concentrazioni sono superiori ai limiti di qualità ambientale, mentre in quelle sotterranee si sfiora il 7%. In alcune regioni la contaminazione è molto più alta rispetto al dato nazionale: nelle acque superficiali, Veneto, Lombardia, Emilia Romagna superano il 70%, la Toscana tocca il 90%, l’Umbria il 95%; nelle acque sotterranee, la Lombardia arriva al 50%, il Friuli al 68,6%, la Sicilia al 76%.
Socialismo e ambiente
Il concetto di sviluppo infinito, base del capitalismo, si sta sempre più scontrando con la realtà; urge un dibattito concreto sui limiti imposti dalla natura e dalle leggi biochimiche. Negli ultimi anni le nuove tecnologie non sono state in grado di risolvere il problema nato tra l’incapacità di creare energia rinnovabile infinita e la spinta a continui maggiori consumi, ed è ormai evidente che la rincorsa all’accumulazione del sistema capitalistico è in piena antitesi con la limitatezza delle risorse e con il rapporto uomonatura.
Lo scontro tra due culture di pensiero, da un lato quella produttivista e consumistica e dall’altro quella della decrescita e anticonsumistica, rimane all’interno della logica dell’attuale modello economico, quello capitalista. Per poter costruire un’alternativa credibile occorre invece uscirne, e integrare nel dibattito l’aspetto delle leggi della termodinamica.
Tentativi in passato vi sono stati, sia all’epoca di Marx, sia sotto il bolscevismo. Il contributo più importante, ma praticamente sconosciuto, è il lavoro di Podolinskji, giovane scienziato rivoluzionario ucraino che mantenne un rapporto epistolare con lo stesso Marx. Egli sosteneva la necessità di introdurre le leggi della termodinamica, al tempo ancora poco conosciute, nel processo di formazione del plusvalore, tentando di “armonizzare il pluslavoro con le attuali teorie fisiche”; in pratica cercava di rivedere tutta la teoria della produzione in termini energetici.
Podolinskji basava la sua tesi sul rapporto tra uomo e natura, in particolar modo partendo dal presupposto che tutta l’energia sulla terra proviene dal sole, ed è alla base degli scambi biochimici sul pianeta, da cui derivano anche l’economia e la produzione, e dunque il rapporto uomo-natura e tra esseri autotrofi (quelli capaci di nutrirsi utilizzando solamente semplici sostanze inorganiche, come avviene per le piante che necessitano solo di anidride carbonica ricavata dall’aria, di acqua e sali minerali assorbiti dal terreno) ed eterotrofi (che si nutrono di sostanze organiche prodotte dagli organismi autotrofi: in pratica gli animali, che si alimentano direttamente, nel caso degli erbivori, o indirettamente, nel caso dei carnivori, di vegetali); Podolinskji riflette sui concetti di accumulo e di dissipazione dell’energia e di “lavoro utile”, quello dell’uomo per soddisfare i propri bisogni, che accresce energia in sintonia che la natura.
In pratica anticipava, da un punto di vista socialista, tutta una serie di scoperte e di teorie scientifiche che hanno dato vita a discipline come l’ecologia, la biochimica e le scienze naturali, e le sue analisi furono alla base di quelle successive di alcuni grandi studiosi come Vernadskji, colui che preannunciò il rischio del buco nell’ozono e da cui si sviluppò il pensiero di Lovelock, uno dei principali scienziati ecologisti fondatori del progetto GAIA, oppure il russo Stanchinskji, quest’ultimo praticamente sconosciuto, che tra il ‘29 e il ‘31 presentò un lavoro nel quale cercava di ridurre i fenomeni biologici a puri scambi di energia, sostenendo che la quantità di materia vivente nella biosfera è direttamente legata all’energia solare trasformata dalle piante autotrofe. Stanchinskji affermava che gli autotrofi sono la “base economica del mondo vivente”: per lui la biosfera era costituita da sottosistemi chiamati “biocenosi”, in cui vi è una propria base economica e una propria sovrastruttura costituita dagli organismi che prelevano sussistenza dai produttori primari, alla base della scala trofica. Il tutto viene stabilito da un “equilibrio dinamico” che è la chiave di spiegazione “tra le componenti autotrofe e eterotrofe della biocenosi, tra gli erbivori e i carnivori, tra gli ospiti e parassiti ecc. […] di relazioni definite, proporzionali”.
Stanchinskji presentò, con anni di anticipo, teorie oggi riconosciute e alla base dell’ecologia e della scala alimentare; purtroppo il suo lavoro venne stroncato nel 1933 dallo stalinismo.
Marx e la natura
Forti critiche vengono spesso rivolte a Marx e Engels per non essersi accorti del pericolo di distruzione ambientale nascosto nella sete capitalista. Un’accusa ingenerosa in quanto, nonostante l’analisi di Marx sia stata principalmente economica, proprio ne Il Capitale vi sono ampi passaggi sul ruolo del rapporto tra natura e uomo. Era forse prematuro prospettare il livello di distruzione ambientale dovuto all’azione capitalistica, al punto di mettere in discussione la sopravvivenza dell’umanità; resta il fatto che le analisi di Marx sono pre ecologiste. La critica che si può muovere è l’approccio troppo positivista nella concezione materialistica della storia, decisamente da rivedere nell’idea di un passaggio rivoluzionario quasi automatico dalla società capitalista a quella socialista.
Resta il fatto che è proprio dalla concezione materialistica della storia che può partire un discorso ecologico: uscendo dal materialismo si cadrebbe infatti in deduzioni metafisiche e idealiste dove l’etica diventa un’utopia, slegata dai processi reali dell’evoluzione biologica. Anche l’economia è l’evoluzione degli scambi biologici, e il rapporto tra i bisogni materializzati umani e i prodotti naturali è alla base del rapporto uomo-natura.
Marx parte dalla concezione che il lavoro è regolato dallo scambio organico tra uomo e natura, un approccio all’avanguardia rispetto alle posizioni che mirano alla sottomissione della natura. Scrive ne Il Capitale: “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge tra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita”.
Marx caratterizza uno degli aspetti principali dell’ecosistema, e cioè quel rapporto materiale tra l’uomo e l’ambiente circostante, come vi fosse una sorta di metabolismo. Analizza in forma primitiva un primo tentativo di approccio di sistema ecologico nel rapporto tra biocenosi e biotopo,
inteso come il metabolismo della natura. Per Marx il rapporto uomo-natura è alla base di tutto l’esistente. Già nei manoscritti del ‘44 affermava: “L’uomo è immediatamente un essere naturale. Come essere naturale, come essere naturale vivente, egli è in parte fornito di forze naturali, di forze vitali, cioè è un essere naturale attivo: e queste forze naturali esistono in lui come disposizioni e facoltà, come impulsi; in parte egli è, in quanto essere naturale, oggettivo, dotato di corpo e di sensi, un essere passivo e condizionato e limitato, al pari degli animali e delle piante: vale a dire, gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui, come oggetti del suo bisogno, oggetti essenziali, indispensabili ad attuare e confermare le sue forze essenziali […]”. L’uomo è dunque all’interno di un contesto che lo rende essere naturale: senza il contesto in cui vive non esisterebbe.
Per Marx il sole è alla base del processo della vita, intuizione importante se rapportata alla sua epoca: “Il sole è l’oggetto delle piante, un oggetto a loro indispensabile che ne conferma la vita; parimenti, la pianta è oggetto del sole come estrinsecazione della forza vivificatrice del sole, della forza essenziale oggettiva del sole”.
Da fattore vivificatore, il sole, tramite la sua energia, diventa oggetto, si materializza e diventa per noi umani un bene, assumendo un valore d’uso intrinseco alla sua natura. Questo naturalismo è alla base del materialismo; gli oggetti si materializzano e sono in chiara antitesi con gli idealismi hegeliani. Anticipando di parecchi anni un pensiero basato sul ruolo della base economica degli esseri autotrofi nella catena alimentare, Marx capisce il rapporto tra gli esseri viventi e la natura e percepisce il rapporto dialettico, sia in termini energetici che in termini materiali, tra le piante e il sole. Fondamentale nella sua analisi è la comprensione del rapporto uomo-natura in termini di proprietà: l’uomo non è proprietario della natura, ne usufruisce, e in questo rapporto è chiamato a preservarla per le generazioni future.
Scrive sempre ne Il Capitale: “Dal punto di vista di una elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come in pater familias, alle generazioni successive”. In queste affermazioni Marx mette in evidenza lo sfruttamento che sta alla base della proprietà privata e comprende il pericolo dello sfruttamento dell’uomo sulla natura, attraverso il capitalismo. Un reale equilibrio tra l’azione umana e il ricambio organico con la natura è alla base dello sviluppo storico; la proprietà privata mina le basi di questo ricambio e blocca la stessa evoluzione dell’umanità.
Nell’analisi sulle macchine e la grande industria, Marx si sofferma proprio sulla questione dell’agricoltura, intuendo che nella forma capitalistica non solo avrebbe sfruttato il lavoratore ma anche la stessa terra, con un conseguente impoverimento del suolo e una distruzione delle fonti,
anticipando il discorso della biodiversità: “Come nell’industria cittadina, così nell’agricoltura moderna, la produttività aumentata e la crescente mobilitazione del lavoro si pagano con la devastazione e l’inaridimento della forza lavoro. E ogni progresso nell’agricoltura capitalistica è un progresso non solo nell’arte di depredare l’operaio, ma nell’arte di depredare il suolo; ogni progresso nell’incremento della sua fertilità per un certo periodo, è insieme un progresso della rovina delle sue sorgenti perenni. Quanto più un Paese, come per esempio gli Stati Uniti d’America, parte dalla grande industria come base a sfondo del suo sviluppo storico, tanto più questo processo di distruzione è veloce. Perciò la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al tempo stesso le fonti primigenie di ogni ricchezza: la terra e il lavoratore”.
Per Marx la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione è il motore della dialettica storica. È proprio nell’accumulazione capitalistica, dovuta all’estorsione di plusvalore, che egli intuisce la sottomissione della natura stessa. Sia lui che Engels capiscono il limite della proprietà privata, da cui nasce l’analisi sul pluslavoro e il plusprodotto, e pongono l’accento sulla funzione collettiva dei mezzi di produzione e delle forze produttive risaltando il loro carattere sociale, analisi che tiene in considerazione l’intero sviluppo dell’umanità; l’uomo è un animale sociale, il suo lavoro è sociale e non individuale. Individualizzando il lavoro la storia non si sarebbe potuta scrivere. L’uomo, tramite il lavoro, diventa produttore, trasformatore e accumulatore di energia libera, si sgancia dalla sfera del semplice raccoglitore, si rende sociale, unito non solo agli altri esseri umani, ma anche alla stessa natura.
Nell’analisi del materialismo storico, gli uomini hanno sviluppato maggiormente gli organi esosomatici – strumenti prodotti e utilizzati, la clava, l’aratro ecc. fino a invenzioni più sofisticate – a differenza degli altri animali che hanno sviluppato quelli endosomatici – di cui ogni essere è dotato dalla nascita. Diverse specie fanno uso di strumenti per poter vivere e adattarsi all’ambiente, ma nessuna, a differenza di quella umana, si è spinta al punto di pensare di dominare la natura. La proprietà privata e il dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura sono dunque un limite allo sviluppo perché si pongono al di fuori di un concetto di ecosistema.
Nella Dialettica della natura Engels scriveva: “A ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non lo dominiamo come chi è estraneo, apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato”. E ancora: “La differenza essenziale tra la società umana e quella animale è che gli animali sono piuttosto raccoglitori mentre gli uomini sono produttori […] a una determinata fase, quindi, la produzione umana raggiunge un livello in cui sono prodotte non solo le cose necessarie essenziali ma quelle di lusso, anche se, per il momento, sono prodotte soltanto per una minoranza. Quindi la lotta per l’esistenza – se ammettiamo questa categoria come valida qui per un momento – si trasforma in una lotta per i godimenti, una lotta non solo per i puri mezzi di esistenza ma per i mezzi di sviluppo, mezzi di sviluppo prodotti socialmente, e in questa fase le categorie del regno animale non sono più applicabili”.
Il pensiero di Engels, se pur intriso di positivismo storico, si è sviluppato in un contesto particolare, quando il capitalismo muoveva i primi passi verso la distruzione ambientale. Ed è proprio nell’analisi di Marx sul feticcio della merce che si evidenzia il primo tentativo di svalorizzare il consumismo che va a scapito dell’ambiente. Scrive Marx in merito allo sviluppo della tecnica e della tecnologia: “La natura non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi automatici ecc. Essi sono prodotti dall’industria umana; materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana: capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso e della società sono passati sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale”.
E ancora: “Sotto il regime della proprietà privata queste forze produttive non conoscono che uno sviluppo unilaterale, per la maggior parte diventano forze distruttive, e una quantità di tali forze non può trovare nel regime della proprietà privata alcuna applicazione”. Il materialismo storico e l’approccio dialettico allo studio dell’evoluzione umana non sono quindi slegati dal rapporto con l’ambiente. E la chiave sta nella differenza tra il valore d’uso di un oggetto prodotto, utile al soddisfacimento dell’uomo e delle sue necessità, e il valore di scambio con cui quell’oggetto entra in rapporto con altri e acquisisce una valorizzazione non naturale, da cui nasce la speculazione economica.
Pur mantenendo la forma di necessità viene infatti introdotta la forma di dominio tra venditore e acquirente, ed è il primo passaggio del dominio sulla natura: l’oggetto perde la sua forma originaria, naturale, diventa merce all’interno di un sistema capitalistico e acquisisce un carattere feticistico. Scrive Marx sempre ne Il Capitale: “Quindi i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così nel mondo delle merci fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci. […] tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci. Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro”.
Nel duplice carattere della merce, valore d’uso e valore di scambio, sta dunque la contraddizione fondamentale; da un lato vi è il processo di lavoro, dall’altro quello di valorizzazione. Il primo è quella forza in grado di regolare il ricambio organico con la natura, una forza del tutto naturale che sta nel semplice atto di movimento e trasformazione della materia e dell’energia; il secondo esce invece da questa logica e da un orizzonte collettivo, trasformando il lavoro in uno strumento per l’accumulazione capitalistica e imponendo un dominio che è sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Fino alla sua distruzione, come mostrano i dati odierni sul cambiamento climatico e l’inquinamento del pianeta.
La questione ambientale quindi è direttamente collegata al sistema di produzione capitalistico, e cercare soluzioni all’interno di questo modello di sviluppo ha ben poco senso. È inutile mettere in piedi battaglie per la difesa dell’ambiente e del territorio se la prospettiva della lotta non è anche anticapitalistica.
1) Sulla politica energetica e le quote di emissione di CO2, cfr. Enrico Duranti, L’Italia Hub del gas: disastrose scelte di politica energetica, Paginauno n. 51/2017, Cambiamento climatico Kyoto e Cop 21: lo stoccaggio di CO2, Paginauno n. 52/2017, Energia bene comune. La strategia energetica nazionale: prospettive e alternative, Paginauno n. 54/2017
2) Cfr. Enrico Duranti, Cambiamento climatico Kyoto e Cop 21: lo stoccaggio di CO2, Paginauno n. 52/2017